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Autore: benzodiazepunk    28/03/2015    7 recensioni
Ho undici anni.
Sono una supereroina, o almeno, lo ero.
Il mio papà è morto, e io sono sola adesso.
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-Secondo me somigli un po’ a Go Go, la ragazza con i capelli neri- afferma Dave.
-Tu dici?- rispondo stupita, prestando finalmente attenzione al ragazzo al mio fianco.
-Si- annuisce lui. -È atletica e coraggiosa come te, è una tipa tosta. Come te- conclude.
Lancio un’altra occhiata al cartellone, scrutando la ragazza a cui Dave mi sta paragonando. –Io credevo di somigliare più a Hiro-
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Ti voglio bene papà, sogni d’oro.
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Storia partecipante al contest di Katniss_Jackson "Choose a face, write a story"
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NdA: Mi sono cimentata in questo esperimento grazie a un contest, precisamente grazie al contest indetto da Katniss_Jackson sul forum Scrittori On The Road, “Choose a face, write a story”, il cui bando indica di scrivere una storia riguardo una particolare emozione di personaggio a scelta, emozione ispirata da un viso Disney. Quelli da me scelti sono rispettivamente il viso di Hiro (Big Hero 6, nuovo film di Natale 2015) e il personaggio di Hit Girl. E man mano che pensavo a questi due personaggi, le affinità fra loro aumentavano sempre più nella mia mente. Se all’inizio potevo avere dei dubbi riguardo la mia scelta, ora so che Hiro e Hit Girl sono la mia coppia.
 




 
I’m only a girl. I was only your little girl.
 
L’aria fuori dal cinema è fredda, mi fa immediatamente arrossare le guance e alza i vestiti della gente, ma non mi da fastidio, anzi. È proprio ciò di cui avevo bisogno.
Inspiro profondamente, felice di essere fuori da quell’ambiente angusto dove stava iniziando a mancarmi l’aria, e per un attimo mi concedo di rimanere a occhi chiusi. Al mio fianco avverto la presenza di Dave che emana pace e tranquillità.
Sì, pace è la parola che userei per descrivere ciò che diffonde Dave intorno a sé; lui è sempre così altruista e tranquillo, accetta tutto quello che gli succede con filosofia, non si preoccupa quasi mai di nulla. Forse è anche grazie a tutto ciò che ci è capitato, non lo so, fatto sta che certe volte lo invidio.
Vorrei emanare pace anche io.
Perché se emanassi pace vorrebbe dire che il mio animo è in pace, e se il mio animo fosse in pace non mi sentirei così tremendamente male ogni giorno.
Ho undici anni.
Sono una supereroina, o almeno, lo ero.
Il mio papà è morto, e io sono sola adesso.
Inspiro un’altra volta, e l’aria fredda della sera mi congela per un attimo il naso.
-Ti è piaciuto il film?- mi domanda Dave col suo solito tono gentile. La gita al cinema è stata il suo regalo speciale per Natale. Non mi aspettavo nulla da lui, non l’avrei biasimato se dopo tutta la storia di Frank D’Amico avesse semplicemente continuato con la sua vita, dimenticandosi di me. Al suo posto probabilmente avrei cercato di rimuovere tutto, ogni ricordo, ogni ferita, ogni follia.
Ma lui non è me.
Dave mi ha accompagnata dal mio tutore, mi ha aiutata a traslocare portando lui stesso certi ricordi che Marcus non avrebbe volentieri accolto a casa sua ma dai quali io non mi sarei mai potuta separare, viene a trovarmi, e certe volte mi porta a prendere un gelato. O al cinema, come oggi.
Mi giro verso di lui e scorgo con la coda dell’occhio la locandina pubblicitaria del film che abbiamo visto, appesa alla parete del cinema: “Big Hero 6” scritto a lettere cubitali e l’immagine dell’eroe protagonista che vola sulla città.
-Sì, era bello- rispondo più per educazione che per vera convinzione. Mi rendo conto che dovrei essere più gentile e loquace, ma sono distratta.
È la vigilia di Natale, e intorno a noi vedo solo famiglie felici che ridono, chiacchierano, parlano del film appena concluso; sembrano emanare tutti quanti un’aura dorata, sprizzano gioia per la festa imminente e per un secondo, uno solo, una fitta d’invidia mi invade il petto.
Anche io una volta emanavo questo stesso alone di felicità?
Anch’io ridevo, ne sono sicura, ma solo quando ero con papà. Ricordo i pomeriggi al bowling, gli allenamenti, la nostra cioccolata alla sera, ricordo tutto tanto chiaramente da essere doloroso.
-Secondo me somigli un po’ a Go Go, la ragazza con i capelli neri- afferma Dave.
-Tu dici?- rispondo stupita, prestando finalmente attenzione al ragazzo al mio fianco.
-Sì- annuisce lui. -È atletica e coraggiosa come te, è una tipa tosta. Come te- conclude.
Lancio un’altra occhiata al cartellone, scrutando la ragazza a cui Dave mi sta paragonando. –Io credevo di somigliare più a Hiro- rispondo, così piano che quasi non sento la mia stessa voce.
-Perché?- domanda lui.
Io abbasso la testa e mi allontano dalle luci del cinema, imboccando la strada di casa senza rispondere.
Come potrei spiegartelo, Dave? Tu mi vedi ancora come il giustiziere della notte, non come una bambina orfana di undici anni.
Mi sento così terribilmente sola, è la prima volta che provo una sensazione del genere, e lo odio.
Mi sento spaesata, è una cosa odiosa.
Io lo so di essere diversa, lo sono sempre stata, ma quando c’era mio papà essere diversa mi piaceva, mi faceva sentire speciale, importante, mi faceva sentire accettata, perché l’unico giudizio di cui mi importava era il suo. Adesso, invece, quella stessa diversità mi emargina. Anche chi cerca di starmi accanto non riesce a farlo del tutto.
Persa nei miei pensieri, non mi accorgo di essere arrivata a casa di Marcus finché non mi ritrovo sul primo gradino d’ingresso.
-Grazie della serata. È stato bello- mi rivolgo a Dave cercando di sorridere, e lui per tutta risposta mi abbraccia. Questo gesto così improvviso mi fa irrigidire, ma tento comunque di ricambiare nella maniera più naturale possibile.
-Buon Natale Mindy- mi augura prima di allontanarsi nella notte.
  
-Buonanotte Mindy, dormi bene- mi augura Marcus appena prima che io scompaia nella stanza che mi ha riservato.
-Buonanotte- rispondo solo. Nessun bacio, non un abbraccio, e grazie al cielo nemmeno un “sogni d’oro”, la buonanotte di Marcus è veloce e indolore, e lo apprezzo; non potrei sopportare le terribili dimostrazioni di affetto che ogni genitore normale si aspetterebbe, per questo sono contenta di vivere con lui e non con una famiglia adottiva qualsiasi.
Sogni d’oro
Questa maledetta frase mi gira in testa e non sembra volermi lasciare in pace; mio papà mi augurava la buonanotte sempre così, si avvicinava al mio letto, mi dava un bacio sulla fronte e mi sussurrava “sogni d’oro”. Credo fosse l’unico gesto da padre normale a una bambina normale che si sia mai concesso.
Sogni d’oro
Solo una persona, dopo mio padre, mi ha ripetuto questa frase; una stupida collega di Marcus che probabilmente credeva di avere a che fare con una bimba biondina, carina e dolce.
–Sogni d’oro piccola- mi ha augurato, con una vocetta che non indirizzerei nemmeno a un moccioso di due anni. Lo ricordo quel giorno. A un primo impatto ho avuto un colpo al cuore, ho smesso di respirare, e ho rischiato anche di piangere. Ma un supereroe non piange mai, e io sono Hit-Girl, la più forte di tutti. Mi sono voltata con la faccia più scura che sono riuscita a fare e le ho risposto: -Queste frasette da romanzo rosa puoi anche tenertele, non ho bisogno di “sogni d’oro”, “dormi tra le stelle” o altre cazzate simili. E non darmi della piccola, perché posso spaccare il culo anche al migliore dei pugili-
Marcus mi ha solamente ripresa senza troppa convinzione per “il linguaggio”, e io me ne sono andata a dormire, arrabbiata e scossa.
Sogni d’oro
Sono state le ultime parole che ho detto a mio padre mentre spirava davanti a me, ed è per questo che non voglio sentirle mai più. Non voglio nemmeno ricordarle, così mi infilo nel letto, chiudo gli occhi, e cerco di immaginare qualcosa di bello per liberare la mente.
Mentalmente rievoco i giorni in cui ero Hit-Girl, e subito viene a formarsi l’immagine della prima volta che ho incontrato Kick-Ass; la mia battuta d’ingresso, rivolta ai cattivi della situazione, era stata “Ok stronzi, vediamo cosa sapete fare adesso”, e Dave si era raggomitolato in un angolo, fissandomi a occhi sbarrati con lo shock stampato in viso. Mi era venuto da ridere a guardarlo, così stupidamente coraggioso a infilarsi in un covo di malviventi e allo stesso tempo così ingenuo da aver portato solo un paio di manganelli.
“Noi siamo dalla stessa parte” l’avevo rassicurato, ed era stato in quel momento che avevo dimenticato di non dare mai le spalle alla porta. Big Daddy mi aveva salvata ovviamente, il suo tiro era stato pulito e preciso, da vero cecchino professionista.
Papà, avrei bisogno di essere salvata anche adesso, solo in un modo completamente differente; ma certo non meno indispensabile.
Crogiolandomi in vecchi ricordi, pian piano cado addormentata, ma questo non è un sollievo. Ogni notte sono tormentata dallo stesso incubo, e questa, nonostante sia la notte di Natale, non è da meno.
Mi trovo nel capannone dove Big Daddy e Kick Ass sono stati imprigionati, quella disgraziata sera, e tutto si ripete come allora. Le luci sono spente, rese inutilizzabili da me, e io mi aggiro tra gli scagnozzi di Frank D’Amico guidata dal visore notturno.
E sparo, sparo, sparo finché non sono tutti a terra, morti nel loro sangue.
So che è inutile, dopotutto so anche che questo è un sogno, ma non sono io ad avere in mano le redini del gioco; mi trovo qui, e devo fare quello che devo. Così continuo a sparare, anche se il rumore della mia pistola mi è insopportabile, anche se mi tremano le mani, cosa mai successa prima. A Hit-Girl non sono mai tremate le mani, lei è invincibile, la più forte, sempre.
Ma forse non così forte come crede.
Ad un tratto infatti una luce arancione squarcia il buio, e le urla di mio padre che brucia mi perforano i timpani. È in quel momento che capisco che queste urla non le dimenticherò mai, resteranno per sempre impresse nella mia mente, indelebili, saranno il mio incubo più terribile. Capisco che perderò tutto ciò che ho, e che non importa quanto io sia tosta, coraggiosa o allenata; non sono comunque forte abbastanza da salvare il mio papà. Mi porto le mani alle tempie stringendo forte. Basta, questo è troppo, basta!
Ma ancora non posso fermarmi.
Salto alle spalle dei torturatori di Big Daddy, sparando a entrambi mentre la luce stroboscopica che ho lasciato su una mensola li confonde, e infine distruggo le telecamere con un ultimo colpo di pistola.
Ora che la mia impresa è terminata so cosa succederà; mi guardo intorno col fiato corto, e tutto ciò che mi circonda pian piano si dissolve come fumo al vento, in ampie volute sempre più opache.
Improvvisamente mi sveglio.
Succede sempre così, ogni notte, ma non mi ci sono ancora abituata. Mi alzo a sedere sul letto, sudata e con un senso di ansia a bloccarmi il fiato in gola, e mi guardo intorno; il buio permea la stanza, ma la mia vista, allenata da anni di perlustrazioni notturne, si aggrappa alla tenue luce che filtra da sotto la porta e dalla finestra per riconoscere almeno qualche punto di riferimento.
Io ci ho provato, davvero. Ho provato a combattere e a portare a termine la missione di mio padre, convinta che potesse aiutarmi a superare la sua perdita, ho cercato di essere forte e di non piangermi addosso, ma non è servito a niente. Forse avrei dovuto piangere e disperarmi fin dall’inizio, in questo modo avrei affrontato il mio lutto e l’avrei superato più facilmente, più normalmente, come fanno tutte le persone che perdono un familiare.
Ma io non sono come tutti gli altri, e la mia diversità mi blocca.
Sono una bambina già grande, non sono mai stata piccola, non ho mai avuto quell’ingenuità tipica dei bambini che li porta a sgranare gli occhi di fronte a ogni cosa. Io sono stata addestrata, io sono cresciuta in fretta, io sono una bambina adulta.
Ma sono pur sempre una bambina.
Ero la tua bambina, papà.
E ora che non ci sei più mi sento così persa. Non so cosa fare, cosa pensare, come comportarmi. Prima c’eri tu, e sapevo che i tuoi consigli erano quelli giusti, che di te mi potevo fidare perché sapevi tutto; ti volevo bene e tu me ne volevi altrettanto, mi proteggevi, e sapevi sempre cos’era meglio per me.
Ora che non ci sei più come faccio a sapere cos’è giusto fare? Io non sono capace di essere una bambina normale, come Marcus vuole!
Un singhiozzo mi scuote il petto, e mentre le lacrime mi bagnano le guance mi stringo le braccia intorno alle ginocchia.
Tutto il mio mondo, che credevo indistruttibile, mi è crollato addosso, e così ora non so più nemmeno chi sono.
Sono Mindy? Sono Hit-Girl? Nessuna delle due, o entrambe, forse?
Vorrei solo smettere di piangere, Big Daddy mi avrebbe detto che piangere è da sfigati, non risolve i problemi e ti fa essere solo più debole, così mi sforzo di frenare i singhiozzi e pian piano le lacrime iniziano a diminuire.
Prima di chiudere gli occhi e tornare a dormire il mio ultimo pensiero va a Damon MacReady; non a Big Daddy, solo a Damon.
Perché posso anche smettere di piangere e non versare più nemmeno una lacrima, ma dentro di me continuo a sanguinare. Non avevo mai provato un dolore del genere, non avevo mai nemmeno immaginato che potessero esistere ferite non provocate da un proiettile o da una delle mie lame, prima, ma adesso so che queste sono le ferite peggiori, quelle che potrebbero anche non guarire mai, mai più.
E io temo di non guarire mai papà, perché sono solo una bambina che ha visto morire suo padre, solo una bambina di undici anni, solo la tua bambina.
Ti voglio bene papà, sogni d’oro.
 


                                                       
 
 
 
 
 

 
 
 
Note finali
In queste note finali vorrei solamente “appuntare”, per così dire, un paio di cose.
Innanzi tutto, parto dal presupposto che Mindy, all’uscita nei cinema del film Big Hero 6, abbia undici anni; so che è altamente improbabile ma ho cercato in lungo e in largo determinazioni di tempo nel fumetto di kick ass, rileggendolo anche tutto, e non trovando date precise ed esplicite ho adattato il tutto alle mie necessità.
Secondariamente, spero di non essere andata OOC. Non ho voluto stravolgere il personaggio di Hit-Girl dipingendola come una bambina piagnona, e per questo ho inserito il sogno e i ricordi di lei, dove racconta di com’era e dove ho esaltato il suo spirito forte. Poi, però, la mia storia voleva descrivere Mindy proprio come una bambina, e non come la guerriera che siamo abituati a vedere. Da un certo punto di vista mi sono ricollegata al finale del fumetto dove, davanti alla strage che ha compiuto, piangendo chiede a Dave un abbraccio perché il suo papà è morto. Ecco, questa è l’immagine di Hit-Girl che ho voluto sviluppare, ho voluto far vedere l’altra faccia della medaglia, quella che nessuno conosce ma che sicuramente c’è.
Sperando abbiate gradito, vi saluto.
  
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