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Autore: Rei_    28/03/2015    41 recensioni
(!) Attenzione! Questa storia parla di bullismo, saranno presenti alcune scene di violenza! (!)
Michele, 27 anni, è appena entrato in un mondo a lui ancora sconosciuto: palazzo Montecitorio.
Lui, giovane insicuro, nasconde un lato fragile causato da un passato buio che vuole dimenticare. A differenza di Nicolò, che invece non ha mai perso nella sua vita e anche nel mondo politico a breve acquisterà una crescente leadership causata dal suo forte carisma naturale.
Due persone di partiti diversi, che inevitabilmente finiranno per scontrarsi, ma se è vero che l'odio è una forma d'amore allora il loro rapporto è destinato presto a cambiare...

Spalancò le braccia nella neve e allargò le gambe. Sarebbe dovuta uscire disegnata la figura di un angelo, ma mentre Michele chiudeva lentamente gli occhi, vinto da quell'insolita stanchezza, pensò che era impossibile che uno come lui potesse essere capace anche lontanamente di assomigliarci.
Perchè gli angeli non finiscono nudi nella neve.
Non vengono chiusi negli sgabuzzini.
Gli angeli sono luminosi, e lui invece era fatto di buio.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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Era tutto buio.
Buie le quattro pareti troppo vicine al suo corpo, buia anche l'aria che cercava a fatica di far entrare nei polmoni.
Non sapeva quanto tempo fosse passato da quando era finito lì dentro. Aveva urlato fino a perdere il fiato, picchiato la porta fino a farsi sanguinare le nocche. Era caduto a terra sulle ginocchia, fissando la debole luce che filtrava da sotto il legno spesso nell’inutile tentativo di frenare il panico.
«Fatemi uscire...» pregò, picchiando per l’ennesima volta la mano piccola contro la superficie della porta, unica pesante barriera che lo separava dal resto della scuola. Sentiva delle risate dall’altra parte. Erano voci giocose di bambini e chiunque, passando di lì, avrebbe solo visto cinque ragazzini che si stavano divertendo. Nulla di strano, nulla di anomalo.
«Michelino, hai paura del buio?»
Non riuscì a rispondere. I respiri si rincorrevano veloci, la testa pulsava dolorosamente, il sudore freddo gli aveva appiccicato la maglietta alla pelle. In mezzo a quel buio totale, le pareti dello sgabuzzino sembravano ancora più vicine tra loro. Provò a chiudere gli occhi per tranquillizzarsi, cercando di immaginare di essere nella sua cameretta, ma così facendo gli sembrava che l'aria mancasse ancora di più, e a nulla serviva la debole convinzione che il buco della serratura l'avrebbe salvato dal soffocamento. Perché nessuno si era accorto che era chiuso lì dentro?
Perché nessuno si stava preoccupando per lui? Il cuore gli batteva veloce, molto forte, facendogli male. Non voleva piangere, si rifiutava di dar loro anche la soddisfazione di vederlo debole, ma le lacrime sembravano voler uscire da sole. Erano lacrime di impotenza, perché in nessun modo avrebbe potuto liberarsi da lì se non gliel'avrebbero permesso loro. Nessun altro lo avrebbe salvato. Si sedette per terra appoggiandosi alla porta, pensando che così avrebbe respirato la poca aria che entrava dalla fessura, ma quando sentì dei passi allontanarsi il panico prese il sopravvento. «Ciao Michelì, ci vediamo in classe!» «No! Aprite!» Cercò di gridare, ma la sua voce si espresse solo in un debole rantolo di terrore. Riprovò, più e più volte, fino a che non sentì più alcun rumore. A quel punto la disperazione vinse l’ostinazione, e Michele crollò di nuovo a terra. Più il tempo passava, più si illudeva che sarebbero tornati presto a tirarlo fuori. Quanto può durare uno stupido scherzo? Non si rendevano conto che aveva paura? Che poteva davvero soffocare?

Perse la cognizione del tempo mentre piangeva e tremava, rinchiuso in un buio soffocante. Negli anni successivi, non riuscì mai a ricordare vividamente il suo risveglio sul letto dell'infermeria. Nella sua mente erano rimasti solo dei flash in cui sua madre piangeva, suo padre lo scrollava violentemente per le spalle e suo fratello maggiore rideva di nascosto, mentre lui non diceva niente e fissava il vuoto.
Una sola, vivida immagine era rimasta impressa nella sua memoria. Il sole, fuori dalla finestra, stava tramontando dietro le case, e questo voleva dire una cosa sola: per almeno otto ore era rimasto chiuso dentro uno sgabuzzino.

Aveva undici anni.


 
*



Il taxi viaggiava veloce per le strade di Roma. Faceva slalom tra le macchine, schivava pedoni e ciclisti con un’agilità a cui Michele Martino non era abituato. Per lui, che veniva da un piccolo paese della Calabria, le strade di Roma apparivano minacciose e confuse. E quella stramba città, che a vederla scorrere sembrava una scatola di giochi che un bambino annoiato si era divertito a disordinare il più possibile, quel giorno era diventata la sua nuova casa.
Quando Michele scese finalmente dal taxi rabbrividì per un secondo trovandosi davanti al luogo dove, se tutto fosse andato bene, avrebbe trascorso i futuri cinque anni della sua vita.
Palazzo Montecitorio.

Il secondo uomo che scese con lui era molto più anziano. I capelli erano corti e grigi, come i baffi rasati con precisione. Portava una ventiquattrore stretta nella mano enorme e aveva addosso un cappotto marrone, elegante, al di sotto del quale si intravedeva una camicia bianca e una cravatta blu annodata all'inglese. Una volta fuori dall’abitacolo, l'uomo tirò fuori dal taschino un sigaro, bruciandone la punta con uno scatto dell'accendino.
«Sei agitato, compagno?»
Lo chiamava sempre “compagno” quando voleva dargli forza. Forse quel giorno avrebbe anche potuto osare chiamandolo “onorevole”, ma l’uomo conosceva da tanti anni Michele, perciò sapeva che quell’appellativo lo avrebbe turbato ancora di più. «No, non credo» rispose serenamente il più giovane. L'altro tirò del fumo, pensieroso. Sapeva bene che Michele era tutt’altro che tranquillo, così come sapeva che mai avrebbe mostrato le sue paure.
«Entriamo, dai».
Michele annuì e varcarono l'ingresso, trovandosi subito dentro una sala ampia, con il pavimento in marmo decorato e diverse porte laterali. I deputati presenti parlavano tra loro in piccoli gruppi, e per un secondo Michele ebbe l'immagine di una scuola, con i bambini con grembiulini identici che affollavano il cortile a gruppetti.
Una signora alla reception gli consegnò il suo tesserino da deputato. Vedere la sua foto con impressa a fianco il logo della Camera dei deputati bastò a fargli sudare le mani dall’emozione. Anche l’anziano prese il tesserino. A fianco della sua foto c'era impresso il nome “Arturo Costa”. Era un nome conosciuto da tante persone, che veniva citato nei talk show e nei tg. Il nome di Michele invece era ancora sconosciuto, anonimo. Arturo rivolse uno sguardo al giovane, ed entrambi sorrisero. Michele sapeva bene cosa significasse quel sorriso. Erano stati entrambi eletti, grazie al loro impegno. Avevano vinto insieme.
«Eccolo finalmente, il grande compagno Costa!» Un uomo arrivò loro incontro e abbracciò forte Arturo.
«Buongiorno, carissimo compagno Greco» ricambiò.
«I tg ne hanno parlato fino allo sfinimento, il grande ritorno del vecchio Arturo! Non ci avrei scommesso una lira sulla tua rielezione! Ovviamente scherzo! E tu sei Martino, giusto? Mi ricordo di te allo scorso congresso…» Michele sorrise timidamente.
«Sì, sono io».
«Thomas, è di nuovo un piacere» l’uomo gli strinse vigorosamente la mano. Michele studiò il suo interlocutore. Si ricordava abbastanza bene di lui, lo aveva visto spesso nei talk show. Se la cavava molto con la parlantina, ma era un tipo insolito. Aveva dei capelli biondo scuro ricci e folti, con un ciuffo che gli pendeva lungo la fronte. La cravatta, dello stesso colore giallo, era annodata sopra una camicia a righe colorate altrettanto fuori dal comune. Cercò di trattenersi dal commentare quell'insolito completo, limitandosi a sorridere e a ricambiare con forza la stretta. Fu proprio Arturo però a farglielo notare, subito dopo.
«Almeno il primo giorno non potevi vestirti in modo normale?» «Certo che no! Ormai dovresti conoscermi, vecchiaccio!»
Michele seguì i due deputati per i corridoi. Entrambi incontrarono e salutarono un non indifferente numero di persone, e alcuni addirittura abbracciarono Arturo in lacrime, come se fosse un caro vecchio parente che non rivedevano da tantissimo tempo.
«Vecchio volpone…» commentò Arturo non appena ebbero superato un anziano con un’espressione particolarmente rigida accentuata da numerose rughe. Thomas sorrise, mentre Michele si sforzava di ricordare chi fosse. Lo aveva notato al tavolo dei dirigenti, al congresso di due anni prima. Doveva trattarsi di Goffredo Ranieri, il presidente del partito. La sua elezione era stata motivo di scontro in quell’occasione. Si accorse ben presto, man a mano che avanzava verso il corridoio principale, che l'età media dei deputati era di sicuro al di sopra dei quaranta. Forse era quella divisa che faceva sembrare vecchio anche chi non lo era, fatto sta che erano rari quelli che sembravano avvicinarsi ai suoi ventisette anni.
«Sono il più giovane?» chiese subito, cercando di non far vedere quanto la cosa lo turbasse.
«Ma no, ma no! La vera domanda è: quanto sarai vecchio quando uscirai da qui? Si dice che una volta entrati sia difficile andarsene» gli rispose Thomas, strizzandogli l'occhio con fare amichevole.
A Michele quelle parole fecero uno strano effetto. Guardò indietro verso la porta che avevano appena oltrepassato, chiedendosi se un giorno avrebbe desiderato fuggire da quel posto, che in quel momento gli sembrava il massimo della carriera a cui un uomo potesse aspirare.
«Lascialo perdere, dice una marea di stronzate» intervenne sospirando Arturo. Arrivarono in breve tempo davanti alle porte aperte dell'aula parlamentare, passando attraverso mille altri saluti e strette di mano. Non appena Michele arrivò a mettere il primo piede oltre le enormi porte di legno, il respiro gli si bloccò. L'aveva vista diverse volte in televisione, e altrettante volte si era immaginato quel momento, ma non si aspettava che fosse veramente così enorme. Era come se quell’immensità spingesse tutta insieme sul suo petto, impedendo al cuore di farsi spazio per battere.
Sentì come se il peso di quella divisa in giacca e cravatta, delle decorazioni in marrone scuro, delle poltrone rosse eleganti e delle luci soffuse che imponevano un'aria quasi religiosa, gli fosse arrivato addosso in un solo secondo, gridandogli a gran voce che anche lui, da quel momento, apparteneva a quel mondo. Lui, proprio lui, era diventato un deputato di Sinistra Democratica, era entrato a far parte di quell’assemblea dove si prendevano le decisioni per il Paese intero, quel mondo che per anni aveva solo sognato come un'ipotesi lontana e remota. Con quella strana impressione nel cuore seguì i suoi due colleghi fin nell'ala sinistra dell'aula, salendo le scale fino alla terzultima fila. Strinse la mano ad almeno una decina di persone che si stavano sedendo davanti e dietro di lui, dimenticandosi un secondo dopo tutti i nomi. Guardando verso il basso notò Goffredo piazzarsi circa tre file sotto di lui, a fianco del segretario del loro partito, Riccardo Marchesi, eletto anche lui nell'ultimo congresso.
Se la ricordava bene la sua elezione. Era stato appoggiato da una netta maggioranza del partito ma, nonostante questo, la battaglia congressuale era stata feroce. Arturo era stato da subito contrario alla sua candidatura ed era riuscito a convincere molti altri compagni, compreso lui e Thomas, a votare contro. Perché Marchesi era un uomo che proveniva da associazioni studentesche di stampo cattolico e dalla Democrazia Cristiana, una cosa inaccettabile per un partito storicamente di sinistra. Però Marchesi era anche un militante di lungo corso, un uomo che negli anni della Rinascita Fascista aveva combattuto in prima linea, e per questo il resto del partito lo aveva sostenuto a spada tratta. Michele continuò a guardarsi intorno mentre l'aula lentamente si riempiva per la prima seduta ufficiale della nuova legislatura. Gli era abbastanza facile distinguere i deputati in base alla loro appartenenza. Il suo partito, Sinistra Democratica, occupava due degli spicchi dell'ala sinistra. Alla loro destra sedevano numerosi i membri del Nuovo Partito Popolare, circondati dai ben più ridotti deputati del Movimento del Futuro Ambientalista. Alla loro sinistra c'era, invece, un'intera fila di banchi popolati da persone vestite in modo uguale.
Avevano una camicia rossa sotto una giacca nera, e una cravatta con un simbolo che da lontano non riusciva a riconoscere. «Chi sono quelli?»
«Il Fronte per l'Indipendenza» comunicò Thomas, «a quanto pare oggi avevano voglia di fare scena».
Di loro si era parlato tanto, anche nel suo circolo di Cutro, ma più se ne parlava e meno lui capiva. La maggior parte dei membri erano operai o impiegati e quasi nessuno apparteneva alle alte sfere della società, e l'odio verso le istituzioni dello Stato lo faceva assomigliare più a un movimento anarchico che ad un partito politico. Il loro programma era scarno, tranne per un tratto forte di legalità. Metteva insieme eguaglianza sociale, ecologismo sfrenato, e soprattutto l’idea utopistica di dar vita a città e paesi autogestiti. Molti deputati del suo gruppo si erano voltati a osservare quello strano assembramento di deputati che, non si sapeva per quale motivo, avevano deciso di distinguersi esteticamente non solo dal resto dell'aula, ma anche dal buon costume di ogni parlamentare. Sembrava che avere la piena attenzione fosse esattamente il loro obiettivo.
«La scorsa legislatura ci hanno dato problemi» aggiunse Thomas.
«Perché?» chiese Michele.
«Ostruzionismo. Bloccavano i lavori parlamentari per giorni interi. Ed erano solo una ventina di parlamentari, pensa a cosa faranno adesso che sono una settantina!» si lamentò, «per fortuna che avevamo il grande Marcello Pasqui come capogruppo. Lui sì che sapeva come trattarli. Sicuramente lo rieleggeremo anche quest’anno, lo conoscerai, è una macchina da guerra quell’uomo.»
Tre file più in basso, Goffredo stava parlando fitto con Marchesi, il segretario. Molti lo avevano definito come il suo “figlio politico”, affermando che Marchesi aveva scalato il partito grazie a quell'anziano signore che gli aveva dato le spinte giuste.
L'istante successivo, Michele vide entrambi rivolgergli uno sguardo con la coda dell’occhio per qualche secondo. Non fece in tempo a chiedersi il perché di quell’occhiata, che la seduta iniziò.
Erano già stati predisposti i seggi per l'elezione del Presidente della Camera. La votazione era per appello nominale, e ci volle molto tempo perché ciascuno votasse singolarmente. Alla fine, il presidente della Camera fu eletto con solo i voti contrari del Fronte. Si trattava di un signore sulla sessantina, appartenente al gruppo dei Popolari. Non appena Michele sentì il nome agli altoparlanti della Camera lo ricordò subito: era un uomo che era stato ministro in diversi governi passati, sia di destra che di sinistra.
«Quello le poltrone sicuramente non le schifa» commentò Thomas una volta uscito dall'aula, tirandosi fuori un pacchetto di sigarette dalla ventiquattrore, anch'essa ovviamente con colori fuori dal normale. Michele sorrise, ma Arturo mostrò subito uno sguardo di rimprovero.
«Invece è un uomo serio. E poi è stato scelto da Pasqui, pensavo foste ancora amici»
«Sono cambiate un po' di cose dopo quel congresso, Arturo...» rispose amaramente Thomas.
Fu quella sera che Michele scoprì chi fosse il capogruppo Pasqui di cui si parlava tanto, mentre si recava alla prima riunione ufficiale di partito, nella sala Berlinguer di Montecitorio. Era un uomo molto alto, sulla quarantina, con un paio di occhiali dalla montatura spessa che gli conferivano un'aria seria, e teneva davanti a sé un non indifferente numero di fogli scritti.
«Lui è un genio del male» gli sussurrò Thomas, «in quei fogli ha scritto tutto lo scibile umano. Conosce tutti e si ricorda tutto»
Michele si era ormai convinto che il suo collega romano fosse uno abituato a ingigantire le cose, ma in effetti la mole di carta era sconvolgente. Dal banco dove stava si potevano vedere fogli con schizzi disordinati uniti ad altri puliti e schematici. Solo a vederli facevano impressione.
Quando finalmente la sala si fu riempita, Goffredo alzò il microfono per prendere la parola.
«Bene, benvenuti a tutti. Un caloroso benvenuto in particolare a chi oggi ha inaugurato la sua prima legislatura. Come possiamo notare, è avvenuto un significativo ricambio generazionale durante le ultime elezioni, oltre che un aumento complessivo dei nostri seggi, e questo è senz'altro un fatto positivo. Non possiamo che complimentarci con tutti voi per tutte le migliaia e migliaia di preferenze che ciascuno ha portato alla nostra grande famiglia»
Partì un applauso, subito placato dalla sua mano alzata.
«Un nostro particolare benvenuto va a Michele Martino, che viene da Cutro e con i suoi ventisette anni è il più giovane deputato del nostro gruppo e dell’intera Camera dei deputati!»
Partì un secondo applauso e tutti seguirono la linea dello sguardo di Goffredo, girandosi immediatamente verso Michele. I colleghi che aveva a fianco si alzarono subito per stringergli la mano. L’applauso sembrò durare un’ora intera, e quando il giovane si risedette era convinto di avere in viso tutte le possibili sfumature del rosso.
«Oh, ti hanno portato in tintoria insieme alle bandiere?» scherzò Thomas.
“Ecco perché prima in aula mi indicavano” ricordò subito, sentendosi oltremodo imbarazzato da quella specie di medaglia che gli era stata affibbiata per qualcosa che non c’entrava niente con i meriti, ma solo con l'anagrafe.
«Dunque, all'ordine del giorno abbiamo l'elezione del capogruppo... » continuò Goffredo, cercando di riprendere l'attenzione della platea, «la proposta unitaria della segreteria è quella di ricandidare Marcello Pasqui, già capogruppo nella scorsa legislatura. Ci sono controproposte?»
Nessuna mano si alzò, e la candidatura venne presa con mormorii di approvazione.
«Bene» sorrise l’anziano, «immagino che allora non ci sia bisogno di procedere alla votazione».
Scoppiò subito un fragoroso applauso e il capogruppo si alzò in mezzo ai suoi fogli, ergendosi in tutta la sua altezza. Scrutò la folla attraverso gli occhiali spessi e abbozzò un sorriso, ma Michele notò che si stava solo sforzando di piegare le labbra mentre l’espressione restava severa.
«Lascio la parola al segretario» concluse Ranieri. Abbassò il microfono e contemporaneamente alzò quello dell'uomo seduto alla sua destra. Anche se Marchesi leggeva il suo discorso da un foglio, dalle sue parole scaturiva una certa autorità. Non vi era esitazione nella voce, e le pause erano anch’esse dense di carica.
«Care compagne, cari compagni. Cari amici e care amiche...» Marchesi parlava curvato leggermente in avanti. Era molto esile, ma questo sembrava conferirgli ancora più autorità di quella che già scaturiva dal tono fermo e controllato. I capelli scuri e la barba leggera circondavano il viso scavato e i due occhi penetranti. L’abito era di un blu scuro elegante e, anche da qualche metro di distanza, appariva molto costoso.
«Finalmente il nostro ottimo risultato a queste elezioni ci consentirà di entrare al governo. Non serve che io vi dica quanto è importante questo risultato per noi. Dopo anni di dura battaglia abbiamo l'occasione di far approvare le nostre leggi, e soprattutto di mettere in riga quei gruppi che, anni fa, hanno cercato di impedirci di fare politica»
Il discorso fu interrotto da un applauso fragoroso. Michele notò Arturo battere le mani senza troppa convinzione. Marchesi continuò il discorso per un quarto d'ora, toccando svariati temi. Sapeva mettere gli accenti nel posto giusto, calcolando bene dove sarebbe partito l'applauso. Solo verso la fine la sua voce si incrinò lievemente.
«Al governo non puntiamo ad essere presenti di persona. Noi vogliamo portare le nostre idee, le leggi scritte nella Carta Antifascista che tutti abbiamo sottoscritto. Lo faremo ad ogni costo, perché anche se qui dentro tutti noi abbiamo idee diverse, sono certo che una cosa ci accomuna: nessuno potrà più permettersi di ostacolare la democrazia. In questo noi crediamo, e in questo saremo uniti!»
Il discorso si concluse e scattò l'applauso, mentre Goffredo fece a Marchesi un impercettibile segno di approvazione. «Ad ogni costo» ripeté Thomas a bassa voce, «non sono sicuro che saremo tutti d’accordo…»

A fine giornata, Michele salutò tutti e finalmente uscì all'aperto. Fu molto strano sentire un'aria diversa da quella del suo paese, senza l’odore di salsedine, ed ebbe un improvviso momento di nostalgia mentre saliva sull'auto blu. La sua nuova casa era a piazza Istria, in un quartiere signorile e tranquillo. Aveva le valigie ancora ammassate in salotto e sul tavolo aveva appoggiato i regali che gli amici gli avevano dato il giorno prima. Nessuno in paese si era aspettato che ce l'avrebbe fatta per davvero. Era stata una sorpresa per tutti, soprattutto per lui. Si spogliò dei suoi vestiti, restando solo con i boxer. Ripiegò ciascun capo e lasciò tutto impilato sulla sedia, poi accese l’abat-jour, il suo antidoto contro il buio della notte. Come sempre aprì le persiane della finestra di poco, controllando che passasse l'aria.

Accostò la porta di qualche millimetro e controllò che la chiave fosse al suo posto prima di infilarsi a letto. Con il sorriso sulle labbra si addormentò subito, stanco morto, dimenticandosi di tutte le incertezze che quel nuovo giorno stava portando con sé.
   
 
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