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Autore: Targaryen    30/03/2015    8 recensioni
"Thranduil chiude gli occhi e attraverso i sensi segue il percorso che ogni goccia traccia su di lui, scivolando sui capelli mutati in una colata d’argento e allontanando dalle sue vesti la polvere e il sangue. Resta fermo, come un albero sotto la pioggia di primavera, e come un albero ritorna alla vita mentre l’acqua spegne il fuoco e lenisce il dolore."
Nel marzo del 3019 T.E. Rohan e Gondor non furono gli unici fronti su cui si infranse la furia di Sauron, ma altre battaglie vennero combattute nella Terra di Mezzo e, tra di esse, un posto di primo piano meritano quelle che infuriarono nelle grandi foreste lungo il corso dell'Anduin.
Genere: Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Celeborn, Galadriel, Thranduil
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Sussurri di foglie e di vento'
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L’albero e la spada



 
Ciò che si cela
 

In principio vi fu Amdìr a guidare gli elfi silvani del bosco meridionale, quando Lothlórien ancora si chiamava Laurelindórinan e l’Eregion non aveva visto la furia di Sauron. Poi Amdìr perì e andò a popolare le Paludi Morte insieme a gran parte della sua gente, e il regno passò ad Amroth. Ma anche Amroth non ebbe fortuna e per amore si spense tra le acque del mare. Galadriel e Celeborn vennero chiamati per prenderne il posto ed essi, mano nella mano, si offrirono al regno che aveva perso il suo erede.
Il bosco dorato ricevette un nuovo nome, perché nei nomi gli elfi racchiudono sempre l’anima delle cose, e l’incanto cadde su di esso seguendo i passi della sua dama. Difese invisibili vennero innalzate e la via fu per sempre chiusa ai servi del male. Alcuni sapevano, altri sospettavano, ma Nenya restava celato mentre nel mondo i giorni correvano svelti, di anno in anno, di secolo in secolo, di era in era.
E così, l’undici marzo dell’anno 3019 T.E., sono i muri impalpabili che si snodano lungo i suoi confini ad accogliere le orde di Dol Guldur. Guidati dalla sete di sangue con cui l’oscuro signore ha marcato la loro progenie, gli orchi si inoltrano lungo i sentieri che conducono a Caras Galadhon ignari dell’inganno.
La loro stoltezza li porta a credere di essere furtivi, ma decine di sguardi seguono dall’alto ogni loro passo e i messaggi attraversano il bosco sino a giungere nelle mani del signore di Lórien.
In piedi al centro del più alto talan che adorna il più alto dei mellyrn, egli li scorre in silenzio, lo sguardo imperscrutabile e le membra immobili come scolpite nel marmo.
Galadriel, le mani raccolte e la lunga veste drappeggiata sul pavimento di legno, cammina in cerchio lungo i parapetti nella luce del primo mattino, ammantata di una calma grave ed antica.
Non attende che Celeborn abbia finito di leggere l’ultimo dispaccio.
“Sono entrati”, sussurra, “Calpestano le foglie e avvelenano le nostre terre.”
Il marito solleva lo sguardo e la cerca. La dama dinanzi a lui è una lama affilata forgiata nel fuoco e nascosta dalla gentilezza dei gesti e dalla bellezza del volto, ma egli sa che potrebbe piegare la volontà del più ardito dei guerrieri e guardare Sauron negli occhi senza indietreggiare di un passo. E anche per questo la ama.
“Si riverseranno anche a nord”, dichiara.
“Sì”, conferma Galadriel, “ Lo faranno.”
L’ombra di un’emozione attraversa il volto di Celeborn, svelandolo per un istante, perché anche lui è molto di più di ciò che sembra. Ed è il mare in cui la lama si placa e il fuoco si quieta, permettendo a Galadriel di essere solo Galadriel. Ed è anche per questo che ella lo ama.
“Se partissi ora potrei precederli.”
Galadriel si ferma e volge lo sguardo a nord, lentamente, come chi non teme che il tempo concesso possa avere una fine.
“Se partissi ora lasceresti Lórien indifesa.”
Celeborn stringe le labbra, un gesto che la moglie non vede ma che percepisce attraverso il suo leggero inspirare. Millenni vissuti l’uno accanto all’altra portano a conoscersi meglio di quanto si conosca sé  stessi.
“Nessun anello protegge il Reame Boscoso.”
“No, ma quella che proponi non è una via praticabile”, ribatte lei, “E tu lo sai.”
Il signore di Lorien le si avvicina, le lunghe vesti che frusciano ad ogni passo mentre sfiorano le foglie adagiate in terra, e una risoluzione impressa nei tratti del volto che la dama di Lórien sa di non poter intaccare.
“Se re Thranduil domanderà assistenza non gli sarà negata.”
Il tono è fermo e sicuro, perché egli non teme la lama e non ha paura del fuoco.
Galadriel sorride appena, la mente che riporta alla vita altri tempi ed altre situazioni in cui le diversità di vedute hanno testato la solidità del loro legame, facendolo tremare per restituirlo loro può forte di prima.
“Re Thranduil non domanderà assistenza.”
“Orgoglioso come suo padre, ma l’orgoglio porta a commettere errori.”
Il sorriso di Galadriel svanisce e colui che le è accanto vorrebbe non aver parlato. Anch’ella ha pagato all’orgoglio il suo tributo, forse più del re del Reame Boscoso.
“Non è per orgoglio che rinuncerà a chiedere l’intervento di Lórien.”
Di fronte a quell’affermazione inaspettata Celeborn esita per un istante.
“Per cosa, dunque?”, domanda.
La moglie torna a sorridere, ma non risponde. Solleva invece una mano e accarezza il suo viso, leggera come un sospiro.
“Re Thranduil si occuperà del suo popolo, noi occupiamoci del nostro. Lórien è in pericolo non meno di quanto lo sia Bosco Atro. Appena ne saremo in grado, varcheremo l’Anduin e ci metteremo al servizio dei nostri fratelli del nord.”
Celeborn serra le dita intorno a quelle di lei e china lievemente il capo in un cenno d’assenso. Parleranno ancora di questo ed ella gli darà la risposta che desidera, ma solo quando la minaccia sarà stata allontanata, lungo i sentieri d’oro e d’argento e con le stelle ad illuminare loro il cammino.
“Prudenza”, sussurra Galadriel.
Egli non parla, ma la sua stretta si intensifica e le labbra accarezzano appena la fronte cinta dal diadema. Un breve silenzio e si allontana senza voltarsi. E’ tempo di deporre la tunica e di impugnare la spada.
 
***

Lórien non possiede la vastità di quello che fu Boscoverde il Grande e forse è per questo che la nera marea che si infrange su di esso non si pone dubbi circa la possibilità di penetrarvi e di soggiogarlo. Gli orchi sono tanti, i Galadhrim pochi e Caras Galadhon non ha mura. Solo alberi e abitazioni tra le fronde. A sud un giardino, uno specchio incantato e la bellezza che non ha valore in battaglia.
Eppure, dopo ore di marcia, l’orda non ha ancora superato i confini e gli orchi vagano senza riuscire ad avvicinarsi al cuore del bosco, brandendo metallo e ruggendo la loro frustrazione nella caligine dorata in cui ogni creatura pare immersa.
A volte il terreno cede all’improvviso e inghiotte qualcuno, mentre altre il sentiero svolta repentino assumendo pendenze che esigono la vita di qualcun altro.
I comandanti si guardano intorno con le zanne ringhianti, mentre i corni ululano per fermare la truppa e dar loro il tempo di capire. Ma il suono disturba le foglie, che sincronizzano la loro danza e rispondono: lungo il Celebrant il bosco d’oro inizia a cantare. Gli invasori spalancano gli occhi di fuoco, ora consapevoli del pericolo ma impossibilitati a trovare un rimedio all’antica magia che domina quei luoghi.
Forse è per questo che il padrone li ha mandati così numerosi.
Il canto raggiunge il suo apice e poi scema, e con il suo dissolversi anche la bruma si disperde. Gli orchi ghignano soddisfatti, ma la prima freccia che sibila nell’aria ne spegne la spavalderia ritrovata. La freccia è seguita da una seconda e poi da una terza, e prima che il loro cuore riesca a battere di nuovo da una pioggia di dardi di cui non è possibile stabilire l’origine. Gli orchi cadono uno dopo l’altro, trafitti dalle frecce o tagliati dal filo delle lame che brillano tra la boscaglia falcidiando coloro che lasciano i sentieri in cerca di salvezza. Qualcuno ha la prontezza necessaria per rispondere o la fortuna di non cadere al primo colpo, e qua e là si accendono scontri. Il cozzare delle armi comincia a riecheggiare tra gli alberi.
Al calare della sera ogni radura torna ad essere avvolta dal silenzio.
Celeborn scandaglia i dintorni, la lunga spada stretta tra le mani e il sangue nero dei servi di Sauron ad imbrattare il volto e le vesti.
“Signore, gli intendenti comunicano che il perimetro è libero”, riferisce il suo secondo in comando, avvicinandosi con passo lieve.
Egli si china, raccoglie una manciata di foglie e le strofina sulla lama, liberandola dal viscido liquido scuro che ne spegneva lo splendore.
“Raccogliete i cadaveri di queste immonde creature e bruciateli. Non offenderemo il suolo con le loro fetide membra. Quante perdite?”
La sua voce sembra aver trattenuto il sibilo dell’acciaio.
“Non troppe, signore.”
Celeborn si alza e rinfodera la spada con un gesto deciso, ma non domanda altro. L’oro dell’armatura si accende investito dall’ultimo raggio di sole.
“Dite alle sentinelle di stare allerta. Torneranno.”
Ed essi, come l’onda che rincorre l’onda, ritornano.
Lo fanno pochi giorni dopo e col favore delle tenebre, più numerosi di prima e più agguerriti. Ghermendo asce e scuri oltraggiano i mellyrn e ne versano la linfa, che riveste d’argento la terra per poi tramutarsi in nebbia.
Questa volta i Galadhrim non attendono che l’incantesimo eroda le file del nemico, perché la foresta sanguina e gli alberi dalle chiome dorate stanno morendo.
Le frecce e le spade iniziano a cantare e gli scontri si fanno feroci. Gli orchi cadono, ma trascinano con loro molti elfi dei boschi e dopo una notte ed un giorno i cadaveri tappezzano il suolo impregnato di pioggia.
Celeborn ha vissuto a lungo e conosce sin troppo bene la guerra, ma non è mai riuscito a farvi l’abitudine. Cammina lentamente tra i cadaveri, inginocchiandosi e abbassando le palpebre di coloro che hanno voluto guardare in faccia la morte. Non domanda quante perdite abbiano subito perché già conosce la risposta. Glielo dicono i morti.
Un esploratore lo raggiunge, gli abiti sporchi e i capelli dello stesso colore del mogano. Gli rivolge un saluto frettoloso e riferisce di un intero esercito vomitato da Dol Guldur un paio di giorni prima e in marcia verso nord.
Celeborn abbassa il capo e fissa l’ultimo cadavere che attende di essere onorato. L’aria gli sembra improvvisamente più fredda.

 
Sotto gli alberi


Primavera …
Vi è un’insolita tristezza nella necessità di dover combattere in primavera. La natura celebra la vita e in mezzo ai germogli la vita si spegne.
Thranduil arrotola il messaggio e con un gesto quasi rabbioso lo scaraventa nel fuoco. Resta a guardare, mentre macchie scure conquistano il candore della carta e lingue di fiamma ne percorrono la superficie, consegnando all’oblio ciò che l’inchiostro gli ha raccontato. Parole, memorie, brandelli di vita e vite perdute tramutate in lucciole scure che sfuggono per un attimo al rogo per poi ricadervi e svanire.
Dalle vaste sale adiacenti non giungono voci né rumori di passi. Gli elfi tacciono e i loro piedi si spostano con la delicatezza delle piume che accarezzano la pietra, eppure il silenzio, da sempre il benvenuto, pesa ora come un macigno e pare consumare l’aria stessa. In superficie, oltre le spesse chiome, le stelle brillano fredde e per un istante egli vorrebbe poterle vedere, poter abbandonare la sicurezza del suo palazzo sepolto e poter respirare insieme alle foglie, e come le foglie non avere né tormenti né doveri. Ma solo per un istante, perché ci sono ricordi ed affetti che non scambierebbe mai con la loro semplice pace e per i quali attraverserebbe di nuovo le fiamme, per divenire cenere come la carta divorata dal calore.
Thranduil china il capo.
Gli Esterling si muovono ad est, Lórien è sotto attacco e a sud la terra si prepara ad accogliere i morti. L’antico sangue è tornato a Gondor e Rohan ha onorato le vecchie alleanze, ma l’Orodruin esala tenebra e fuoco.
“Ancora una volta, la Terra di Mezzo brucia.”
La sua voce ha l’inconsistenza del vento e come il vento si disperde e si arrende alla quiete.
“Mio signore?”
In piedi alle sue spalle Amath è rimasto in attesa, saldo ed immobile come la roccia che sostiene le volte modellata in foggia di colonne. Thranduil lo ha scelto anche per questo, perché i pilastri su cui poggia un regno non devono vacillare, né dinanzi al nemico né dinanzi al re.
Egli non sa se ha udito le sue parole, ma in fondo non ha importanza. Solleva il calice e ne assapora lentamente il contenuto, lasciando che il vino gli regali per un attimo l’illusione di mani gentili intente a versarlo nella luce del tramonto. Osserva le fiamme e nel fuoco quasi scorge il suo volto mentre gli offre il calice e gli sorride, i capelli dello stesso colore del legno dei boschi in cui l’ha incontrata e gli occhi che non sanno mentire, ma nessuna pretesa di amore o promesse. E poi, come sempre, il volto svanisce lasciando solo cenere, dinanzi a lui e dentro di lui.
“Quando arriveranno?”, domanda senza voltarsi.
“All’alba, mio signore. Devo inviare messaggeri a Dale?”
Thranduil depone il calice e siede.
“Dale non può venire in nostro soccorso, e non può farlo Erebor. Un nuovo fronte si sta aprendo ad est e la guerra irromperà alle porte della Montagna Solitaria molto presto. Non potremo accorrere per dar loro man forte, ma non li priveremo di un solo combattente. Dovremo farcela con le nostre forze.”
“Siamo in pochi, mio signore.”
La voce di Amath sembra priva di inflessione, ma il sovrano del Reame Boscoso conosce troppo bene il proprio comandante in capo per non distinguere in essa un principio di sconforto. E conosce troppo bene gli equilibri delle forze in campo per non essere tentato di abbandonarsi anch’egli alla rassegnazione e di attendere la lama che gli mostrerà il sentiero per le aule di Mandos. Ma non lo farà, perché il dolore non ne ha mai vinto la determinazione e perché egli indossa una corona. E una corona richiede a colui su cui si posa di non mostrare debolezze affinché coloro che lo chiamano re possano farlo.
“Lórien ha respinto l’assalto. Forse potremmo rivolgerci a lord Celeborn”, azzarda Amath.
In altre occasioni Thranduil lo avrebbe allontanato con un gesto stizzito dinanzi ad un simile suggerimento, anche se probabilmente in altre occasioni Amath non si sarebbe mai permesso di avanzare una proposta di tale portata. Nelle aule di Thranduil persino le pietre sono a conoscenza della scarsa simpatia che il re nutre verso i signori di Lórien. Un astio antico, risalente ai tempi di suo padre Oropher e alla fondazione del regno, e maturato nei secoli tra segreti mal celati e fantasmi di lontani crimini, commessi da chi ardeva di superbia non meno che di grandezza.
“Lórien non ha respinto l’assalto solo grazie alla forza del suo esercito, ma in virtù di ciò che lady Galadriel custodisce e che a noi non può essere di alcun aiuto.”
Tre anelli ai Re degli Elfi sotto il cielo che risplende …
Lo ha sospettato per molto tempo, ma solo gli avvenimenti di quei giorni gliene hanno dato la conferma. Uno dei grandi anelli forgiati da Celebrimbor è nelle mani di Galadriel e solo grazie ad esso il male è rimasto lontano dai suoi boschi, mentre l’ombra è calata sul Reame Boscoso e Boscoverde il Grande è caduto preda della progenie di Shelob. Eppure, inaspettatamente, invece di provare rabbia Thranduil avverte quasi un senso di sollievo di fronte alla speranza che esso rappresenta. E’ probabile che ogni suo potere svanisca con la distruzione dell’Unico, ma sino ad allora esso costituirà un ulteriore ostacolo per Sauron e per le sue brame di conquista. E se il male ha costretto lui a cedere terreno per salvare la sua gente, non è stata la sua inadeguatezza ad avergli impedito di resistervi come Galadriel invece ha fatto. Sono stati il grande anello di cui egli non dispone e il covo di Sauron nel cuore del suo regno.
“Non capisco, mio signore.”
Amath sembra incerto sul da farsi e Thranduil quasi sorride dinanzi a quella visione inconsueta. L’incertezza non aveva mai avuto ragione di lui sino a quel momento.
“Non è una cosa di cui preoccuparsi”, lo rassicura, “Ciò che conta è che se noi dovessimo cadere le forze di Sauron si abbatterebbero su Lorien con una furia ancora maggiore. Lord Celeborn non riuscirebbe mai ad arrivare in tempo per aiutare noi, ma se non disperde i suoi guerrieri potrebbe riuscire a fermare le orde di Dol Guldur e questa sarebbe pur sempre una vittoria. Siamo uniti in questa guerra e ogni dissidio va accantonato.”
A volte, nella vita, vi sono situazioni in cui si fallisce nell’attribuire alle cose il giusto ordine di importanza e in cui si tende a lasciarsi trasportare delle emozioni del momento e a ritenere fondamentale ciò che invece non lo è. Nell’inganno che si costruisce intorno a sé, può capitare che sciocche divisioni possano dei giusti più di quanto possa il nemico e che un re rifiuti di riconoscere le potenzialità di un piano di battaglia perché incapace di mettere da parte l’orgoglio. E può capitare che, così facendo, quel re condanni a morte sé stesso e coloro che lo seguono.
Thranduil non ripeterà gli errori del re caduto sulla piana insanguinata di Dagorlad. Ha fissato gli occhi spalancati di suo padre mentre ne raccoglieva la corona tra i cadaveri, e ha capito.
Si alza ed imprigiona in un angolo del cuore il timore per una nuova possibile ecatombe e l’ansia per il figlio di cui non ha notizia, perché sa che ci sono guerre che non possono non essere combattute e che chi cede alla paura ha già perduto.
“I boschi sono la nostra casa e ne conosciamo ogni anfratto”, dice, la voce salda e negli occhi chiari una sicurezza che vorrebbe provare davvero, “Mobilita tutte le forze e lascia a difesa del palazzo una piccola guarnigione. Partiamo tra un’ora. Non aspetteremo che l’alba ci piombi addosso insieme agli orchi.”
“Sì, mio signore.”
Un profondo inchino e Amath scompare oltre l’ingresso, senza fare domande che sa non avrebbero risposta.
 
***

La notte è fredda, eccezionalmente fredda anche per quei luoghi nonostante marzo sia già al suo giro di boa, e le stelle la cui luce riesce a penetrare le folte chiome brillano bianche sfavillando nel vento.
Thranduil distoglie lo sguardo dalla volta e fa cenno alla compagnia di proseguire. E’ a piedi, come tutti, perché i sentieri sono stretti ed intricati e nessun cavallo potrebbe accedervi. Ha diviso le sue forze ed istruito personalmente ciascun comandante. Devono usare il bosco a loro vantaggio, attaccare quando sanno che il terreno permetterà loro di sopperire con l’esperienza all’inferiorità numerica ed evitare nella maniera più assoluta di impegnarsi in campo aperto. Non possono conseguire alcuna vittoria contro un contingente di simile portata in uno scontro diretto. Sono troppo pochi e il coraggio da solo non basta per fermare la spada.
Il silenzio li accompagna mentre si muovono veloci, illusioni di ombre tra le ombre della notte che nessun occhio può scorgere. Gli orchi, invece, non sono mai silenziosi. Si aprono la via come un fiume in piena dalle acque malsane, deviando dinanzi ad ostacoli che non possono superare e che ne scompongono il fronte. Thranduil raggiunge la corrente che avanza, evita la linea di testa e ordina ai suoi di disporsi ai lati, in alto, sugli alberi amici nonostante la tenebra che li ha privati della giovinezza. Prende posizione e tende l’arco, la faretra piena e la corda che vibra di furia trattenuta. Nessun essere umano riuscirebbe a distinguere le figure che si accalcano lungo i sentieri, ma per un figlio delle stelle c’è luce a sufficienza e nessuna freccia andrà sprecata.
Una folata di vento e strali d’argento coprono per un istante il suo campo visivo.
“Tirate!”, ordina.
Le frecce partono insieme e insieme colpiscono i bersagli. Gli orchi cadono con tonfi sordi e prima che riescano a reagire un altro diluvio di dardi li trafigge. E poi un altro, e un altro ancora, fino a quando qualcuno capisce e una freccia nera quasi sfiora la guancia del re. Thranduil scatta di lato e ringrazia il tronco che lo sostiene e che lo protegge dal secondo colpo, ma non tutti i suoi guerrieri sono altrettanto veloci e qualcuno rovina al suolo tra una pioggia di foglie avvizzite. Thranduil scaccia quella scintilla che minaccia di accendere in lui nuovi sensi di colpa e attende che la risposta degli orchi superi il culmine, quindi si sporge per un istante e valuta il da farsi.
Il nemico può permettersi perdite ingenti, ma egli non gode della stessa fortuna e senza il vantaggio della sorpresa quella posizione non è più di alcuna utilità. Con un gesto fulmineo depone l’arco e balza a terra impugnando le spade. Non occorre che dia alcun comando. I silvani lo seguono senza esitazione alcuna ed egli li ringrazia in silenzio, per la fedeltà e per il coraggio, e rivolge ai Valar un’unica muta preghiera prima di affondare le lame nel primo servo di Sauron che incrocia il suo cammino.
I Valar ascoltano sempre, ma non sempre rispondono.
Thranduil non si interroga sul perché e lascia che l’odio senza fine per l’oscuro signore di Mordor fluisca in lui come la linfa negli alberi, il volto di suo padre mescolato alle migliaia di volti senza nome che si è lasciato alle spalle e un unico scopo nell’immediato: uccidere quanti più nemici egli può e sopravvivere per ucciderne ancora.
Dare la morte è rapido quando si sa dove colpire e lo scontro si conclude prima che l’ulula canti di nuovo. Thranduil si guarda intorno e ascolta il bosco e i suoi abitanti. Scorre con lo sguardo i corpi degli elfi senza vita, consapevole di ogni foglia che cade e di ogni stelo che un piede calpesta. Vorrebbe dare a ciascuno di loro una degna sepoltura e onorarne il sacrificio, ma non può permettersi di indugiare. Ci sarà il tempo per piangere i morti, sempre che non li raggiunga prima.
“Andiamo”, ordina ai suoi.
Non si aspetta domande e nessuno gliene pone.
La seconda imboscata segue lo stesso copione della prima, così come la terza, la quarta e quelle successive. Con il sorgere del sole diviene più difficile celarsi alla vista del nemico, ma non impossibile e al calar della sera Thranduil comincia quasi a credere di riuscire a vedere la fine di quell’Era e l’inizio del tempo degli uomini.
I messaggeri gli portano notizie di caduti, ma anche di orchi restituiti alla terra e di un’orda che rallenta e che si divide, falciata dalle spade e bersagliata dalle frecce che non falliscono mai.
Forse, pensa mentre accompagna con lo sguardo il lento allontanarsi di un corpo riverso nella corrente del rivo incantato, non tutto è perduto.
Forse.
Il primo divampare di fiamma irrompe ad ovest, lontano dai cancelli del palazzo sotterraneo ma dolorosamente incuneato nel cuore della foresta. Il secondo si accende ad est e il calore li raggiunge rapido sulle ali del vento, che strappa lembi di fiamma e appicca altri fuochi.
Thranduil guadagna rapidamente la più vicina altura e, per la prima volta dall’inizio dello scontro, trema. L’orizzonte si tinge di rosso sotto ai suoi occhi, in ogni direzione, e il fumo vela le stelle che si affacciano timide nel cielo ormai nero.
La parvenza di fiducia appena ritrovata lo abbandona nel tempo di un battito di ciglia, ma non la determinazione, e la collera la alimenta con la stessa assiduità del legno che nutre i roghi.
Intorno a lui il bosco gli parla nella lingua degli alberi, raccontando la paura ed il dolore dei fratelli arsi vivi e le memorie consegnate a quelli che restano. Thranduil ascolta, ma non ha parole di conforto, né per lui né per loro, e non ha rimedio. Un terzo focolare, un quarto e l’aria del crepuscolo avvampa.
Se Sauron non riuscirà ad avere la meglio sul suo regno, lo ridurrà in cenere.
“Sire, quali ordini?”, Amath lo ha raggiunto e per la prima volta la sua voce vacilla.
Thranduil non si sorprende. Amath è antico e il coraggio è suo compagno, ma non ha mai affrontato l’oscuro signore, non ha visto il Beleriand sprofondare inghiottito dalle acque e non ha mai seguito il volo dei draghi mentre solcano i cieli.
“Di quante forze dispone ancora il nemico?”, domanda.
“Meno di un terzo, riferiscono gli esploratori, ma gli incendi …”
Thranduil si volta con rabbia, facendolo retrocedere, l’armatura d’argento che taglia la notte e l’azzurro degli occhi più rovente delle fiamme che bruciano intorno a lui.
“Gli incendi? Interrogate il vento, fatevi inseguire e trascinate gli orchi sui fronti poco prima che le fiamme divampino. Hanno appiccato il fuoco alle nostre terre, e ora bruceranno con esso.”
Con un cenno del capo ordina ai suoi silvani di seguirlo e si incammina verso il rogo più vicino, lasciando Amath immobile alle sue spalle. Per la prima volta da decadi, è felice che suo figlio non sia con lui, e nel calore che lo investe avverte l’alito ardente delle creature vomitate da Sauron e arroccate tra i monti del nord. Avverte per un istante il dolore insopportabile delle ustioni e poi la mano di lei, che segue gentile la ragnatela quasi invisibile di quelle antiche cicatrici che hanno osato violare la perfezione della sua pelle. “Non è nulla, solo un ricordo …”, gli sussurra di nuovo, come se lei lo abbracciasse ancora, durante quella loro prima notte di secoli addietro della quale rammenta ogni parola, ogni sospiro ed ogni sensazione. Ogni linea del suo viso, ogni suo sorriso e il verde di quegli occhi più invitanti del mare. (*)
Attirare il nemico in trappola è facile, perché gli orchi non conoscono gli avvallamenti in cui si incanalano le correnti e non riescono a predire i cambi repentini di direzione delle lingue di fuoco che attraversano Bosco Atro. Scioccamente seguono coloro che li attaccano e corrono verso la morte.
All’alba dell’intera orda non restano che sparuti gruppi che errano senza una meta.
Thranduil depone per un istante le spade e siede su un grossa roccia che sporge dal terreno, il capo chino e la stanchezza che improvvisamente cala la sua scure. Lontano, il bosco continua a bruciare.
Un giovane elfo, di cui al momento non ricorda il nome, si avvicina quasi timoroso e gli offre un calice di vino e un piatto con un pasto forse troppo ricco data la situazione.
“Mio signore, non mangi né bevi da due giorni”, azzarda.
Thranduil solleva il viso e l’ombra di un sorriso aleggia per un istante sulle sue labbra.
Cosa ha mai fatto per meritare tutti loro accanto a sé? Quali virtù essi vedono in lui? Uomini e nani lo conoscono come il più grande dei loro re, ma in cosa egli è grande? La sua grandezza ha forse salvato chi ha seguito i suoi ordini? Ha forse spento le fiamme che ancora avvampano?
“Grazie”, sussurra.
Con un cenno ordina al capitano di avvicinarsi.
“Invia messaggeri a tutte le guarnigioni. Che lascino perdere gli orchi e che tentino tutto il possibile per spegnere le fiamme.”
“Sono appena giunti dispacci dal sud. I nidi sono stati distrutti dagli incendi”, lo informa questi.
“Una buona notizia. Mezz’ora di riposo, poi facciamo anche noi il nostro dovere.”
L’elfo china il capo e si allontana svelto, lasciando Thranduil di nuovo solo con sé stesso. Non ha fame, ma si costringe a mangiare e quasi non si accorge della prima goccia che scivola di foglia in foglia sino a penetrare nel terreno. Avverte invece il tintinnio della seconda che si mescola al vino non ancora toccato, e dimenticandosi di tutto il resto solleva gli occhi al cielo per trovarlo carico di nubi. Si alza pervaso da un nuovo, improvviso vigore. Il vento è cambiato, soffia da nord e sferza le chiome umido e freddo. Le gocce martellano le fronde con sempre maggiore energia, finché si tramutano in una pioggia battente che porta con sé il sapore e il profumo della nuova stagione.
Intorno a lui ogni parola è stata inghiottita dal silenzio. Gli elfi osservano e forse, sul volto di qualcuno, le lacrime si mescolano a quelle che il cielo regala loro.
Thranduil chiude gli occhi e attraverso i sensi segue il percorso che ogni goccia traccia su di lui, scivolando sui capelli mutati in una colata d’argento e allontanando dalle sue vesti la polvere e il sangue. Resta fermo, come un albero sotto la pioggia di primavera, e come un albero ritorna alla vita mentre l’acqua spegne il fuoco e lenisce il dolore.
 


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NOTE al capitolo:
Nonostante Tolkien dati la battaglia sotto gli alberi di Bosco Atro al 15 marzo 3019 T.E., in questo racconto ho ipotizzato che essa non si esaurisca al calare della sera ma che prosegua anche il giorno successivo. “Amath” (“scudo” nella lingua degli elfi dei boschi) è un personaggio di mia invenzione. Le parti in corsivo sono citazioni tratte da Il Signore degli Anelli di J. R. R. Tolkien.

(*) Rif. “Ho amato”

 
  
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