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Autore: LaniePaciock    30/03/2015    9 recensioni
Torniamo indietro nel tempo e spostiamoci di luogo: 1943, Berlino, Germania. Una storia diversa, ma forse simile ad altre. Un giovane colonnello, una ragazza in cerca della madre, un leale maggiore, una moglie combattiva, una cameriera silenziosa, una famiglia in fuga e un tipografo coraggioso. Cosa fa incrociare la vita di tutte queste persone? La Seconda Guerra Mondiale. E la voglia di ricominciare a vivere.
Genere: Guerra, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Quasi tutti | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
Capitoli:
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Cap.30 Dopo
 

20 luglio 1969 – ore 21:15

… e così, questa è la mia storia. Beh, solo una piccola parte in realtà e solo una delle tante da raccontare ambientate nella Berlino del 1943. Forse neppure la più avvincente o particolare o d’esempio o coraggiosa. D’altronde c’era poca possibilità di scelta all’epoca. Un uomo diventa ciò che è solo a causa di ciò che gli accade intorno e della sua esperienza, non importa quello che avrebbe voluto essere.
Dovete sapere che gli eroi non durano molto in guerra. Puoi correre lancia in resta contro il nemico e combattere molto coraggiosamente, ma, se non sai schivare le pallottole, allora morirai anche molto rapidamente. Per questo sono sempre i più vili a sopravvivere. Ma non sono gli unici fortunatamente. E’ qui che nasce il sottile confine tra gli eroi plateali, quelli più facili da individuare, ed gli eroi silenziosi, quelli che i primi chiamerebbero codardi perché agiscono in segreto. Eppure sono proprio i secondi quelli che salvano più vite. Gli eroi plateali sono i simboli che servono a scuotere il castello del Male, ma poi sono i silenziosi quelli che sgretolano piano piano le fondamenta.
Io non ho la pretesa di essere l’uno, né l’altro. Ma per quanto Berlino a quei tempi fosse così piena di odio, c’erano ovunque delle piccole scintille di bontà che uomini come Hitler e il nazismo non sono riusciti a estinguere. Perché se il rogo che hai creato è grande, potrai cercare quanto vuoi di contenere o anche spegnere le fiamme, ma all’interno, nascosti nella base, ci saranno sempre le braci arroventate che continueranno a dare sostentamento al fuoco.
Scusate la premessa, cari lettori, ma dovevo spiegarvi qual è stato il motivo che mi ha spinto a dare vita al libretto che ora tenete in mano. Ovvero per dare voce a quelle persone che, di quel rogo, sono state le braci, ma che non saranno mai celebrate dalla Storia.
Queste però sono per lo più le farneticazioni di un vecchio soldato che ha voglia di parlare e voi non è questo che volete sentirmi dire. Sarà il caso allora che vi racconti cosa è successo dopo i fatti narrati, quello che di solito i libri non dicono mai perché basta immaginarlo. Essendo però questa una storia vera, e avendo io bloccato il racconto a metà, mi sembra giusto informarvi di ciò che accadde in seguito.
Allora dove eravamo? Ah, giusto: i miei compagni e io eravamo riusciti a partire da Berlino su quel piccolo aereo postale. Eravamo feriti, decimati e stanchi, ma sollevati di poter ricominciare di nuovo. O meglio, di poter vivere di nuovo.
Quel semplice mezzo fu la nostra salvezza. Nonostante non sembrasse robusto, l’aeroplanino ci portò fino in Inghilterra senza sforzo. Ancora adesso ricordo come la visione delle bianche scogliere di Dover furono per noi il segno che eravamo davvero salvi.
Atterrammo nel primo aeroporto che trovammo e ovviamente fummo subito fermati da un gruppo di soldati inglesi. Fu quasi strano risentire il suono di una voce inglese che non fosse quella dei miei compagni. I miei amici si presentarono con i loro nomi falsi, non fidandosi di chi avremmo potuto incontrare. Io fui costretto a usare il mio nome vero. Anche se avessi avuto con me il documento creato da Montgomery, lasciato incautamente nella mia casa berlinese, indossavo ancora la divisa e non avrei potuto spacciarmi per altro che un soldato. Se non altro il mio nome non tedesco mi risparmiò molti problemi. Ero un disertore? Una spia tedesca? Una spia americana di ritorno in patria? Stanco e provato com’ero, l’unica cosa che riuscii a inventarmi fu la verità, ovvero che eravamo scappati dal nazismo e cercavamo di tornare in America.
Ci interrogarono per ore, me in particolare. Capii solo in un secondo momento che in realtà poco importava a quei soldati dove fossi diretto. Non mi considerarono pericoloso, forse per il fatto di essere un fuggiasco, per essere americano o forse solo perché ero ferito e indebolito. Al contrario, mi valutarono un’ottima fonte di informazioni. In fondo potevo capirli. Ero un Colonnello dell’Esercito Tedesco in piena Berlino: conoscevo perfettamente dov’erano i sistemi antiaerei, quanti erano, qual era il punto più scoperto e quello più difeso della città. Parte delle mie informazioni le conoscevano già da ricognizioni aeree, ma altre gli erano sconosciute.
Mi sentii male al pensiero delle vite che sarebbero state stroncate dalle mie parole, ma volevo che quella guerra finisse e, più di tutto, io volevo solo andarmene con Kate e i miei amici. Qualcuno potrebbe chiamarmi traditore. Forse avrebbe anche ragione. Cercate però di capire il mio punto di vista: non potevo più tornare in Germania, che nonostante tutto era stata la mia patria per anni, ed era altrettanto tempo che mi ero staccato dall’America, convinto che non ci fosse più posto lì per me. Non ero mai stato fedele al Nazismo e anzi era l’unica cosa che volevo che crollasse. Conoscevo molti berlinesi, molte brave persone coraggiose che non meritavano di essere sterminate a causa della guerra. Quindi a chi ero fedele? Alla Germania? All’America? Probabilmente a nessuna delle due. Come ho già detto, in quel momento l’unica mia preoccupazione erano i miei compagni e Kate.
Tornando a noi comunque, alla fine i soldati inglesi ci lasciarono andare. Con un po’ di fortuna riuscimmo a raggiungere un paese vicino e poi a trovare un passaggio su un furgone per Londra, dove cambiai immediatamente la divisa da soldato e il nome.
Rimanemmo lì per quasi due mesi a curarci le ferite e recuperare le forze. Fortunatamente riuscimmo quasi subito a trovarci un tetto sopra la testa in un alberghetto della città, che ci diede una grossa stanza e diversi materassi bitorzoluti per poterci accampare tutti insieme. Non avendo soldi per pagare, ognuno di noi, tranne Semir e Leandro, cercò di trovare qualche lavoretto da fare con pagamento a fine giornata. Fu meno difficile di quanto avevamo pensato. I bombardamenti infatti avevano colpito duramente Londra e, mentre a Berlino le bombe erano arrivate quasi solo nell’ultimo anno, lì le macerie erano vecchie di almeno un paio d’anni. Con tutti gli uomini al fronte, i lavori per lo sgombero e la ricostruzione erano andati avanti a rilento. Alcune zone erano state pulite e da qualche parte erano anche già comparsi dei nuovi edifici, ma molte aree erano ancora impraticabili.
Fu così che io, Kevin e Javier ci trovammo da fare. Aiutammo infatti quanto più potemmo in quel frangente, cercando di rendere di nuovo agibili le zone che man mano il nostro capo ci indicava. Per giorni rovistammo tra le rovine, scovando scheletri, resti umani e animali, scarpe, gioielli, giocattoli, fotografie. Pezzi di una vita vissuta e spezzata nel giro di un attimo. Ricordo perfettamente come certe sere avessi solo voglia di stringere Kate a me e dimenticare il resto del mondo.
Lei, Lanie e Jenny invece, nonostante la gravidanza di quest’ultima, trovarono occupazione come infermiere negli ospedali. La moglie di Javier era ancora piuttosto pratica nel lavoro e le altre due impararono in fretta quanto non sapevano. Per lo più dovettero rifasciare ferite, bloccare ossa rotte, misurare temperature o pulire gli strumenti. Capitarono però anche delle volte in cui dovettero aiutare i medici in sala operatoria. Curarono quanti più vivi poterono, donarono un’ultima speranza e conforto ai moribondi, dichiararono morti quelli senza più polso né pulsazione. Le tre donne erano forti, molto più di quanto avrei mai creduto.
Lanie era molto provata, ma era abituata alla sofferenza. Jenny ebbe degli alti e bassi d’umore, accentuati anche dallo stato della gravidanza. Kate crollò emotivamente solo una volta, quando portarono un bambino sui sei anni con buona parte del corpo ustionato in ospedale. Il medico di turno e lei tentarono qualunque cosa, ma il piccolo, George, come le disse lui stesso, morì due ore dopo il ricovero, tra atroci dolori nonostante l’iniezione di morfina mentre lei ancora gli parlava per tranquillizzarlo, promettendogli che sarebbe sopravvissuto, ben sapendo di mentire. Ma la capisco. Come si può dire a un bambino che sta per morire?
Restammo a Londra finché la piccola di Kevin e Jenny non venne alla luce. Sì, era una femminuccia, una cosina con gli occhi azzurri e una matassa di capelli biondi che all’epoca mi stava all’interno delle mani. La chiamarono Sarah Grace.
Ricordo che mi fece una strana sensazione la sua nascita. Vedevamo la morte tutti i giorni, ci stava intorno, la toccavamo con mano, eppure il solo guardare quella neonata mugolare fu come osservarla lottare contro tutta quella distruzione. Fu la prima volta che parlai a Kate di avere dei figli. Mi ero accorto che fino a quel momento avevo avuto paura di avere bambini da una qualsiasi donna perché non volevo che crescessero in quel mondo rovinato. Ma ora avevo una nuova speranza. Sarah Grace era nata senza complicazioni in un ospedale pieno di feriti che non udivano il vagito di un bambino da chissà quanto. E il sentire che pareva che la guerra stesse volgendo al termine non faceva che aumentare il mio desiderio.
Due settimane dopo la nascita della piccola, ripartimmo. In qualche modo, lavorando tutti duramente, eravamo riusciti a guadagnare abbastanza sterline da ottenere un passaggio in terza classe su un transatlantico con partenza dal porto di Southampton, a sud dell’Inghilterra, e rotta per New York. Salpammo con altre centinaia di persone (non solo inglesi, ma anche rifugiati come noi) verso la speranza di terre senza guerra, bombardamenti e città distrutte.
Fu durante la traversata che scoprii che il mio recente desiderio si era già compiuto, che sarei diventato padre. Erano diversi giorni infatti che Kate non si sentiva bene: era sempre stanca, con mal di schiena, mal di testa e, negli ultimi tempi, anche con frequenti nausee. Lei aveva cercato di non dirmi niente, ma la sera notavo quanto fosse provata. Avevamo dato la colpa al lavoro pesante, come pure il ritardo delle sue perdite di sangue, ma non avevamo collegato il tutto fino a quel momento quando, nonostante il riposo sulla nave, lei continuasse a non stare bene. Bastò un controllo di Lanie e Jenny e poi un consulto con un’altra infermiera presente sull’imbarcazione, che aveva lavorato per anni come ostetrica e che ci aveva subito preso in simpatia per via di Sarah Grace e di Leandro, per capire quale fosse il suo problema: all’epoca della traversata, Kate era incinta di circa due mesi. Quella possibilità non ci aveva sfiorato neppure per un momento, poiché le nostre ultime notti insieme risalivano ai giorni appena successivi a Capodanno (che a noi parevano ormai come appartenenti a una vita precedente). Eppure ci erano bastate quelle poche ore da amanti per creare una nuova esistenza senza che lo sapessimo.
Ricordo perfettamente come quel giorno vagai per tutta la nave con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia, dicendo a tutti quelli che incontravo che sarei diventato padre. Quando mi sentirono, tutti si congratularono, ma poi, quando seppero che Kate non era mia moglie, molti mi guardarono male. Qualcuno mi disse di affrettarmi a sposarmi a bordo, che sicuramente il capitano si sarebbe preso volentieri quell’obbligo. Ma, dopo averne parlato, io e Kate rifiutammo. Gli altri non capivano. Non era un matrimonio riparatore quello che volevamo. Avevamo pensato di aspettare fino all’arrivo in America per sposarci, insieme ai nostri amici e a mia madre e suo padre, e così decidemmo comunque di fare. A noi non importava che la notizia del nascituro, quel cosino nascosto nel grembo della mia fidanzata a cui in un attimo mi ero già affezionato, fosse arrivata prima del matrimonio. Io non avrei comunque mai lasciato nessuno dei due e lei lo sapeva. Amavo Kate con tutto me stesso. E la amo tutt’ora.
Trovai New York cambiata da come la ricordavo. Era diventata più grande, più rumorosa, più caotica. Per noi però non fu un problema quella novità. In fondo una città trafficata è una città viva ed era giusto quello è cercavamo. Inoltre nascondersi sarebbe stato molto più semplice, anche senza dover cambiare radicalmente le nostre abitudini e i nostri nomi. Tra migliaia di persone infatti tutti sono visibili, ma nessuno in realtà viene riconosciuto. Ripensandoci ora non fu una scelta sbagliata. Alla fine abitiamo ancora tutti qui nella Grande Mela.
Una volta in America la nostra nuova vita cominciò. Cambiammo i nostri cognomi, decidendo di mantenere solo i nostri veri nomi. Visto che non avevamo accenti o cadenze particolari nella voce, nessuno sarebbe stato in grado di capire che eravamo arrivati dalla Germania. Non avevamo idea se fosse stato emesso o meno un mandato di cattura nei nostri confronti dopo la morte di Dreixk o se semplicemente si fossero dimenticati di noi a causa della sconfitta imminente. Forse c’erano state delle ricerche, ma tutt’oggi nessuno è mai venuto a bussare alle nostre porte chiedendo del Colonnello Castle, del Maggiore Ryan o di qualcuno a noi collegato.
Kate ritrovò suo padre pochi giorni dopo il nostro arrivo. Ricordo che si abbracciarono a lungo, mentre io mi sentivo quasi un estraneo che ficcava il naso nell’intimità di una famiglia. Per diverso tempo provai disagio in presenza di Jim Beckett. Non era cattivo, tutt’altro. Mi accolse bene in casa sua e diede la sua benedizione al matrimonio di Kate con un sorriso emozionato. Ma il fatto era che mi sentivo ancora in colpa per aver sconvolto la vita di sua moglie e di sua figlia oltre che, di riflesso, la sua. Solo dopo una lunga chiacchierata a quattr’occhi con lui tornai in pace con me stesso.
A proposito di ricongiungimenti, quasi dimenticavo di informarvi che rintracciai mia madre un mese e mezzo dopo il nostro arrivo a New York. Successe quasi per caso. Passando davanti a uno dei teatri della città, alzai per caso gli occhi sul cartellone del nuovo spettacolo in scena e fui attirato da uno dei nomi dei commedianti: Martha Rodgers. Ricordo che rimasi senza respirare per diversi secondi, troppo stupito di poter leggere di nuovo quel nome. Aveva ripreso il suo nome da nubile, ma ero certo che fosse lei. Riabbracciai mia madre il giorno stesso.
Scoprii più tardi che era stata un’idea di Tom Jones quella di farla tornare a teatro. Dopo averla sottratta alle grinfie degli uomini di Dreixk infatti, la spia aveva accompagnato mia madre in un viaggio in treno verso una delle città costiere affacciate sul Canale della Manica. Da lì avevano preso insieme un traghetto per l’Inghilterra, quindi Jones l’aveva imbarcata sulla prima nave per gli Stati Uniti. A conti fatti, scoprii che mia madre era arrivata a New York mesi prima di noi. Lì poi, su consiglio della spia, aveva ripreso a fare teatro.
“La mia parte l’ho fatta, Colonnello.” fu la prima cosa che mi disse la spia, sempre con il suo tono di voce vagamente divertito, quando mia madre me lo passò al telefono. Martha mi aveva confidato infatti che lei e Jones si sentivano settimanalmente da quando era in America. “Ora vuoi essere così gentile da onorare il nostro patto?” Lo accontentai. Lui aveva portato mia madre in salvo e aveva fatto anche in modo che la ritrovassi prima ancora che io capissi come fare. Glielo dovevo. Così gli dissi tutto quello che voleva sapere su mio padre, sul suo diario e anche alcune informazioni su dei soldati che avevo conosciuto in Germania. Alla fine mi ringraziò e mi rivelò in più una cosa che mi tranquillizzò: non ci stavano cercando. Negli ultimi tempi le cose a Berlino stavano peggiorando e, con tutti i problemi, nessuno si era davvero preso la briga di tentare di trovare un colonnello e un maggiore spariti con le loro famiglie, per quanto si dicesse che fossero implicati nell’uccisione di un altro colonnello. Potevamo essere incolpati per diserzione e omicidio, ma con la Germania che vacillava pericolosamente, le persone che sparivano nel nulla erano all’ordine del giorno. Quando salutai Tom Jones, mi chiesi se lo avrei più risentito. A oggi non è mai accaduto.
Oltre alla spia, c’era ancora una persona che abitava in Europa e che volevo risentire, il mio ultimo contatto con la Germania: Alexis. Riuscii a rintracciare la ragazza a Norimberga da alcuni parenti, dove le avevo consigliato di rifugiarsi. Fortunatamente, con la morte di Dreixk nessuno l’aveva più cercata e lei dopo qualche tempo si era trovata un nuovo lavoro in quella città. Ricordo che le suggerii di lasciare il paese, magari di trasferirsi anche lei e sua madre negli Stati Uniti, ma Alexis rifiutò la mia proposta. Stavano bene a Norimberga mi disse, e inoltre volevano restare a vedere il nazismo cadere.
“Accadrà presto.” dichiarò convinta quando la sentii al telefono. “E quel giorno voglio essere lì, Rick. È questa la mia scelta. Non voglio andarmene proprio ora che siamo così vicini! Hai sentito, no? La Russia è ormai un ricordo, l’Africa è andata, l’Italia è stata conquistata dagli Alleati e gli americani la stanno risalendo per liberarla completamente dal fascismo e arrivare fino a noi. La Germania è circondata da ogni lato e Hitler non reggerà ancora a lungo. Quando lui sarà sconfitto, il nazismo e tutto questo incubo finirà. A quel punto dovremo pure ricominciare, giusto? Beh, io voglio essere qui quel giorno. Mio padre credeva in un futuro migliore per i tedeschi e così voglio fare anche io. Quando tutto questo sarà finito, voglio dare una mano nella ricostruzione, Rick.” Nonostante la mia paura per Alexis, sapevo che non avrebbe cambiato idea. Era sempre stata una ragazza volenterosa e testarda, esattamente come suo padre. Non cercai di dissuaderla dalla sua idea. Conoscendola, sarebbe stato un inutile spreco di forze. Se penso alla donna che è diventata oggi, a quanto abbia effettivamente aiutato nel dopo-guerra, sono quasi felice di non averla convinta a tornare ed estremamente fiero di considerarla come una figlia e io di essere come un secondo padre per lei.
Tornando a noi, quello che successe dopo fu…
 
“Rick, sei con noi?” domandò dolcemente Kate, carezzandogli piano un braccio. Richard sbatté le palpebre e si guardò intorno confuso. I suoi pensieri lo aveva portato via da sua moglie e dai suoi amici per andare a ripercorre le pagine finali del libro che aveva concluso il mese precedente e che sarebbe stato pubblicato a breve. Lo aveva intitolato Berlin, 1943. Una piccola parte della sua vita a Berlino (opportunamente modificata nelle parti più crude e in quelle più intime con Kate in modo tale che potessero leggerla anche i suoi figli) trascritta su un paio di centinaia di pagine e bloccata a metà, durante la loro fuga dalla Germania. Per non lasciare i lettori in sospeso però, su consiglio di Kate aveva scritto un capitoletto finale, posto appena prima dei Ringraziamenti e che aveva chiamato ‘Dopo’, in modo da poter raccontare in breve cosa accadde negli anni successivi. Quel libro lo aveva riportato indietro di anni, al Richard Castle che credeva scomparso per sempre, ma che era tornato solo per la stesura di quella storia, per poter ricordare sensazioni ormai perdute e persone a cui doveva molto, ma che nel tempo erano scomparse dalla sua vita, anche se mai dal suo cuore e dalla sua mente.
Rick stava ripercorrendo quelle parole nella testa per essere sicuro di non aver dimenticato nulla. Nel caso, sarebbe stato ancora in tempo forse a effettuare qualche modifica dell’ultimo minuto.
“Scusa, amore.” mormorò a Kate con un piccolo sorriso colpevole. “Mi ero perso nei miei pensieri.”
“Lo avevo notato.” replicò lei divertita. “Ma ti avverto che così ti stai perdendo lo spettacolo.” aggiunse poi ridacchiando e facendo un cenno ai suoi amici seduti davanti a loro. Javier e Lanie occupavano uno dei divani del salone mentre Kevin e Jenny l’altro. Lui e Kate, essendo i padroni di casa, si erano accontentati di un paio di sedie prese dalla cucina.
“Secondo me non ci arrivano sulla Luna.” commentò in quel momento Javier.
“Javi, sei invecchiato troppo.” replicò sbuffando Kevin. “Quelli sono già sulla Luna.”
“Mah…” borbottò l’altro, indicando la televisione accesa con un cenno della mano. “Kev non so che dirti, ma a me quello sembra uno studio televisivo…”
“Amico, fattelo dire: sei vecchio, sordo e cieco ormai.” ribatté Kevin scuotendo la testa esasperato. “Certo che quello è uno studio televisivo! Hanno appena detto che stanno aspettando che gli astronauti si preparino per scendere!”
“Ne sei certo? E se fosse solo uno scherzo e…”
“Amore, piantala.” lo bloccò alla fine Lanie con un sospiro, carezzando piano la mano di Javier. “Abbiamo visto il lancio del razzo, ti ricordi? E ora sono nello spazio. Anzi sono ormai sulla Luna. Devono solo cambiarsi e…”
“Sì, ma chi ci dice che non sia tutta una finta?” borbottò Javi imbronciato, tirandosi gli occhiali su per il naso con fare scocciato.
“Appena vedremo le immagini capirai che sono davvero sulla Luna, papà.” lo rassicurò Leandro con aria divertita ed esasperata insieme, entrando in quel momento dalla porta d’ingresso aperta con un bimbo in braccio di circa cinque anni dalla pelle scura e i fitti capelli ricci neri come gli occhi, zoppicando leggermente. Rick lo guardò con un mezzo sorriso nostalgico. Quello che nel 1943 era solo un bambino, era diventato ormai un uomo adulto di trentaquattro anni, sposato, con un figlio (il piccolino che teneva tra le braccia, chiamato Louis) e con un ottimo lavoro da avvocato. La sua idea di diventare un soldato come Rick una volta cresciuto era fortunatamente sfumata già durante l’adolescenza. Leo però aveva dovuto comunque rispondere alla chiamata alle armi del governo di qualche anno prima. Aveva scampato la Guerra in Corea perché ancora troppo giovane, ma aveva dovuto passare un anno e mezzo in Vietnam tra il ’65 e il ‘67 prima che gli sparassero a una gamba durante un’azione e potesse tornare a casa con una Purple Heart, ovvero una medaglia che lo contrassegnava come un ferito di guerra. Non era più riuscito a camminare bene da quel giorno e in realtà si era salvato per miracolo perché la pallottola che lo aveva preso aveva mancato di un soffio l’arteria femorale. 
“Sentito?” esclamò Kevin, indicando Leo. “Ascolta la voce del tuo saggio ragazzo e taci, vecchio!”
“Vecchio a me??” replicò Javier scandalizzato. “Ti ricordo che abbiamo sì e no un paio d’anni di differenza! E poi vuoi dirmi che tu, all’alba dei tuoi freschi sessant’anni, saresti più arzillo di me??”
“Nonno?” lo chiamò Louis, smettendo per un momento di giocare con il piccolo carro dei pompieri che teneva in mano. “Che vuol dire al… albillo?”
“Louis, amore del nonno, solo tu sei la mia consolazione!” replicò Javi, facendo un grosso sorriso al nipote e poi un gesto a Leandro perché gli passasse il bambino. Il piccolo quindi si trasferì dalle braccia del padre alle ginocchia del nonno. Javier a quel punto iniziò a chiacchierare con Louis, ignorando completamente e volutamente gli altri, tanto che Kevin sbuffò contrariato e tornò a guardare la TV borbottando.
Rick ridacchiò mentre le donne presenti scuotevano la testa divertite. Erano abituati a quelle scenette. Javier e Kevin ne mettevano sempre in piedi una ogni volta che le tre famiglie si riunivano insieme per qualche festività o evento importante. Con l’avanzare dell’età poi, pareva che quei due non sapessero far altro che battibeccare come due donnicciole. Era una cosa che Richard era certo non sarebbe mai cambiata ed era in qualche modo rassicurante.
“Leo, ma il resto della truppa?” chiese allora a Leandro per cambiare discorso, intendendo i suoi figli e quelli dei suoi amici. L’uomo gli indicò la porta di casa da cui era appena entrato.
“Sono ancora tutti fuori in giardino a giocare a lanciarsi la palla da rugby. E’ quasi buio, ma con questo bel tempo e la temperatura fresca sarebbe un delitto farli rientrare ora, tralasciando il fatto che soffocheremmo qui dentro tutti insieme.” aggiunse poi ridacchiando. “Comunque Lara sta controllando che non facciano danni.” Rick annuì. Lara era la moglie di Leandro, una graziosa e molto dolce ragazza di colore poco più giovane di lui.
“Semir invece?” chiese poi, ricordandosi che non era ancora arrivato. Leo alzò le spalle.
“Arriverà a momenti.” rispose. “Lo sai come è fatto, se non spunta all’ultimo non è contento.” Proprio in quel momento sentirono diverse voci provenienti dal giardino chiamare qualcuno. Leo ridacchiò e allargò le braccia. “Predico il futuro ormai! Vado ad accogliere quel ritardatario del mio fratellone.” aggiunse poi allegro, uscendo di nuovo zoppicando per andare incontro a Semir. Rick si voltò a osservare Javier e sua moglie. L’uomo era ancora troppo preso dal nipote per accorgersi del resto (gli stava soffiando sulla pancia per farlo ridere), mentre Lanie invece aveva voltato lo sguardo verso la porta con un piccolo sorriso sulle labbra.
Dopo essere scappati dalla Germania, Semir non si era più separato da Javier, Lanie e Leandro. Prima a causa delle ferite che avevano avuto costante bisogno di attenzioni, poi perché non aveva avuto altro posto dove andare. Era stato praticamente inglobato da loro senza accorgersene e, quando era stato il momento di staccarsi dalla loro famiglia, era stato troppo tardi. Non era riuscito a farlo. Si era affezionato troppo a Leo e ai suoi genitori. In fondo quella era stata l’unica famiglia che aveva avuto da quando i suoi unici parenti erano morti a Berlino. E d’altronde ormai Leandro lo considerava come un fratello e Lanie e Javier come un figlio. Così, una volta a giunti in America, avevano chiesto a Semir se sarebbe voluto restare con loro, praticamente adottato. Rick non aveva mai visto il ragazzo così felice ed emozionato come quel giorno.
All’età di quarantadue anni, Semir era ormai un uomo fatto, anche se la sua bassa statura non era cambiata dall’adolescenza. Era invecchiato forse un po’ precocemente, come dimostravano i capelli e la corta barba ormai più color sale che pepe, ma data le sue passate esperienze Rick se l’era aspettato. La sua vita però era stata imprevedibile. Contro ogni previsione infatti, il ragazzo si era arruolato nell’esercito americano appena maggiorenne e ci era rimasto per i successivi vent’anni. Aveva deciso di ritirarsi solo quando, quattro anni prima, si era innamorato di una donna vietnamita mentre era nel paese per combattere. A quel punto si era congedato dal servizio e aveva portata in America la ragazza per sposarla. Da civile, Semir si era dato al giornalista e da due anni era genitore di una splendida bimba di nome Feyza.
Richard scostò lo sguardo da Lanie, ancora intenta a fissare la porta aspettando di veder entrare Semir, e prese il suo bicchiere di whiskey dal tavolinetto posto tra di loro. Sorseggiò l’ultimo dito di liquore lentamente, mentre la sua mente riprendeva a vagare tra quei molteplici ricordi. Involontariamente mosse una spalla, sentendola pizzicare leggermente. In realtà era ormai più un gesto abituale che faceva quando era sovrappensiero, come se le due cicatrici che aveva ricevuto a Berlino, una piccola e circolare da proiettile e l’altra più lunga e frastagliata, fossero ancora in via di guarigione invece che completamente rimarginate. Dopo vent’anni erano ancora ben visibili e biancastre sulla sua spalla, così come il sottile sfregio sulla sua guancia.
Rick finì l’ultimo residuo di whiskey in un sorso, quindi sospirò dispiaciuto vedendo il fondo del bicchiere. Negli ultimi tempi aveva cominciato a bere di tanto in tanto un goccio di liquore, giusto per i giorni in cui era in compagnia o quando era particolarmente stressato. Il medico però gli aveva ordinato di limitarsi a due dita di qualsivoglia bevanda alcolica e solo per casi eccezionali. Insomma, l’uomo sulla Luna era un caso eccezionale, no?
Alla fine posò il bicchiere e si alzò dalla sedia su cui stava, maledicendo il dolore alle ginocchia che aveva iniziato a farsi sentire ultimamente ogni volta che si sforzava sulle gambe.
“Dove vai?” gli domandò Kate curiosa e sorpresa. “Pensavo non volessi perderti lo sbarco…”
“Torno subito.” la rassicurò con un sorriso, lasciandole anche un piccolo bacio sulla fronte. “Vado solo a prendermi un po’ d’acqua visto che il mio carburante è finito.” aggiunse poi, mostrandole il bicchiere vuoto. La donna lanciò un’occhiata al vetro con un sopracciglio alzato.
“Non ti avvicinare agli alcolici.” gli disse con aria severa. “Ricordi cos’ha detto il Dottor Green, vero?” Rick annuì rassegnato.
“Non lo farò, tranquilla.” replicò. “Te l’ho detto, prendo solo un po’ d’acqua e torno. E poi ti avevo avvertita prima che gli altri arrivassero…” aggiunse, abbassandosi come per sussurrarle all’orecchio. “Voglio essere in forma per quando tutti se ne saranno andati da casa nostra…” continuò il tono di voce roco e alzando le sopracciglia in un gesto allusivo. Aveva sessantaquattro anni, ma fino a quel momento non aveva mai avuto, grazie a Dio, un solo problema nelle basse regioni del bacino.
“Amico, magari sono sordo, ma non così tanto!” esclamò in quel momento Javier dal divano con una smorfia schifata, facendo sobbalzare Rick e Kate come fossero due adolescenti colti sul fatto.
“Quando si parla di certe cose hai sempre un orecchio fino, vero?” borbottò Kevin sarcastico, non esplicitando la parola ‘sesso’ per evitare domande scomode di Louis, ancora in braccio a Javier.
“Non so di che parli.” ribatté Javi sbuffando. Mentre i due ancora discutevano, Rick sospirò rassegnato, quindi fece l’occhiolino a Kate, che gli rispose con un sorriso divertito, e se ne andò in cucina.
L’improvvisa quiete di quella stanza lo colpì. Rimase immobile nella penombra del tramonto ad ascoltare i suoni esterni: sentiva il mormorio della televisione in sottofondo, le chiacchiere ovattate dei suoi amici e le urla smorzate dei ragazzi provenienti dalla finestra aperta sul giardino. Non era più abituato a una simile calma, non con i suoi figli in giro almeno, tanto che si chiese quasi se non fosse stato catapultato all’improvviso in un altro mondo.
Lentamente, senza accendere la luce per non rompere quella strana atmosfera, Richard si avvicinò al lavello e vi lasciò dentro il bicchiere vuoto. Quindi ne recuperò un altro pulito dalla credenza e lo appoggiò sul tavolo al centro della stanza prima di recuperare la bottiglia di acqua fredda in frigo. Mentre si versava da bere, gli tornò di nuovo alla mente la parte conclusiva del suo libro. In pochi attimi, i suoi pensieri tornarono a perdersi tra quelle parole che aveva usato per descrivere in breve le loro vite…
 
… Tornando a noi, quello che successe dopo fu quasi naturale. Io e Kate ci sposammo un paio di settimane dopo aver riabbracciato mia madre. Ricordo perfettamente la piccola chiesetta bianca incassata tra due alti palazzi dove venne sancita la nostra unione alla presenza di un simpatico vecchio prete, dei nostri genitori e dei nostri amici. Mi sembrò quasi assurdo che quella piccola costruzione di mattoni colorati fosse sopravvissuta ai grandi cambiamenti della città.
L’idea di sposarci lì era stata di Jim, il padre di Kate. Quella infatti era stata la stessa chiesetta in cui lui aveva preso in moglie Johanna e continuava a dire che quel posto era speciale. Capii il perché della sua convinzione solo quando Kate spuntò dal fondo della chiesa e venne avanti verso di me lungo la corta navata, sorridendo timidamente nel suo splendido vestito bianco da cui si intravedeva il piccolo rigonfiamento sulla pancia che era nostro figlio. Non dimenticherò mai quel momento. I raggi del Sole che passavano attraverso le finestre colorate creavano una luce soffusa e calda in tutta la chiesa, tranne che nel corridoio centrale. Lì infatti la luce sembrava risplendere, concentrandosi in modo da far risaltare la sposa e rendendola una visione luminosa. Per un momento mi parve quasi che Kate rifulgesse di luce propria. Rimasi a guardarla a bocca aperta per tutto il tempo, tanto che Kevin, il mio testimone di nozze, dovette darmi una gomitata al fianco perché mi riprendessi.
Se ci potemmo sposare, fu solo grazie a Jim e Martha che ci regalarono il matrimonio e la luna di miele. All’epoca infatti io e Kate non avevamo ancora scovato un lavoro stabile che ci permettesse di guadagnare abbastanza per sposarci. Fu solo quando tornammo dal nostro breve, ma intenso, viaggio di nozze che riuscimmo a trovare un’occupazione e, più o meno nello stesso periodo, anche i nostri amici.
Leggendo queste righe ora voi lettori potreste pensare che, come per le favole, ‘vissero per sempre felici e contenti’. Niente di più sbagliato. Avremmo potuto avere forse un’esistenza del genere, felice e libera di preoccupazioni, solo se non fossimo vissuti nel mondo reale. Ma il mondo (e soprattutto la Storia) andava avanti con i suoi problemi e così fummo costretti a fare anche noi.
Da spettatori osservammo sollevati la sconfitta del Nazismo, ma allo stesso tempo dovemmo anche assistere alla terribile decisione che pose fine alla guerra: l’uso della bomba atomica. Festeggiammo con l’amaro in bocca quell’agosto del 1945. Gli Alleati avevano vinto, la guerra era finita, era il tempo della pace. Ma il suo prezzo erano state migliaia di persone, per la maggior parte civili, sterminati in un battito di ciglia. Molti di voi diranno “Hitler ha fatto di peggio!”. Sicuramente, ma il mio rammarico è che non si sia riusciti a trovare una soluzione che non comprendesse il diventare dei mostri come l’uomo che stavamo cercando di combattere.
Questo all’esterno. Volgendo di nuovo lo sguardo verso l’interno, ci accorgemmo che, nonostante tutti i lati positivi del trasferirci in America, New York non fu la fine delle nostre pene come speravamo. La lontananza ci aveva fatto dimenticare una cosa importante degli Stati Uniti, ovvero quanto fossero intolleranti. Li avevamo idealizzati a tal punto che nessuno di noi aveva preso in considerazione quell’aspetto. Non per tutto ovviamente, gli Stati Uniti erano ed sono tutt’ora la patria delle Possibilità, ma questo vale solo se la tua pelle è bianca.
Javier e la sua famiglia furono purtroppo quelli che tra noi ci misero più tempo per capire come riuscire a vivere degnamente. Sopportarono molto, ma stavolta non rimasero a guardare passivamente. Avevano aspettato troppo, richiusi a Berlino, perché fossero privati di nuovo della loro libertà anche a New York. Javier rischiò due volte di finire invischiato in una guerriglia urbana, una volta quando un gruppo di ragazzini bianchi prese di mira Leandro e lui quasi li mandò via a calci, l’altra quando un uomo bianco ubriaco si permise prima di insultare e poi di toccare sua moglie poco lontano da casa e lui non si risparmiò dal prenderlo a pugni. Ricordo bene come il giorno dopo quell’episodio, infuriato, Javi si mise a inveire contro me e Kevin per un’inezia finché Lanie non lo calmò. Noi non avevamo neppure provato a fermarlo. Lo giustificavamo anzi. Javier sopportava tutto contro di lui, dagli insulti agli sputi, ma bastava che qualcuno rivolgesse una mezza parola cattiva contro la sua famiglia che subito diventava una furia. Aveva bisogno di sfogare la sua rabbia e finché lo faceva su me e Kevin, che eravamo suoi amici e capivamo benissimo la sua ira, non ci sarebbero stati problemi.
In qualche modo quell’esperienza, volenti o nolenti, ci riportò un po’ a Berlino. Certo, nel periodo in Germania il nostro amico non aveva mai avuto tali scatti di rabbia, ma la sua insofferenza per quella vita rinchiuso in casa come un animale in gabbia la ricordavamo bene. A New York era peggiorato semplicemente perché pensava che finalmente lui e la sua famiglia avrebbero potuto vivere in pace, senza timore di uscire all’aria aperta.
“Ho paura di tornare un giorno a casa la sera e non trovare più mia moglie e i miei figli.” mi aveva confidato una volta Javier con aria distrutta, dopo una delle tante, troppe, notizie al telegiornale di scontri tra bianchi e neri in mezzo alla strada.
Ovviamente quello non fu il nostro unico pensiero. Se anche voi lettori, come me, avete vissuto gli ultimi vent’anni e non siete troppo giovani per ricordare, allora conoscerete meglio di me le vicende del mondo, sia quelle che ci hanno dato speranza, sia quelle che la speranza ce l’hanno tolta brutalmente. Come un vecchio, potrei stare qui a chiacchierare di questi recenti fatti dal mio punto di vista per ore. Ad esempio potrei parlarvi dello sgomento che provai quanto eressero un muro in quella città, Berlino, che un tempo era anche la mia. Potrei narrarvi la mia rassegnazione quando iniziò la guerra in Corea e poi, qualche anno più tardi, in Vietnam. Potrei raccontarvi della mia faccia stralunata (secondo Kate) la prima volta che vidi pantaloni a zampa di elefante, capelli lunghi per gli uomini e camicie, calzoni e auto dai colori sgargianti che giravano per strada. Potrei dirvi di come il mio cuore partì a mille quando il mio Presidente annunciò al mondo di ‘essere berlinese’ e un uomo di colore dichiarò di ‘avere un sogno’. E lo stesso potrei ripertervi, ma con emozione contraria, di quando li uccisero entrambi come cani con un colpo alla testa. Potrei descrivervi le rivolte per i diritti civili dei neri e degli indiani oppure i movimenti studenteschi dell’ultimo anno. Potrei anche tentare goffamente di accennarvi delle nuove tecnologie apparse nel mondo e dei traguardi raggiunti dall’uomo che mai si sarebbero potuti neanche immaginare fino a qualche anno fa. Come l’uomo nello spazio e, fra poco, sulla Luna.
Oppure potrei parlarvi della mia gioia quando Kate mi comunicò, altre due volte, di essere incinta. Potrei narrarvi la mia angoscia quando Leandro e Semir partirono per la guerra. Potrei raccontarvi di come smisi di respirare quando mio figlio mi chiamò “papà” per la prima volta. Potrei dirvi del mio dolore quando mia madre morì. Potrei tentare di descrivervi la sensazione di tenere i miei bambini neonati in braccio. Potrei anche accennarvi alla mia perpetua amicizia con Kevin, Jenny, Javier, Lanie e le loro famiglie o al mio immutato amore per Kate, nonostante sarebbe per me quasi impossibile da illustrare. Sarebbe troppo grande, troppo profondo per poterlo spiegare a parole.
Potrei parlarvi di questo e di molto altro ancora, ma credo di avervi già annoiati abbastanza. Ora capisco perché di tanto in tanto Kate mi chiama “vecchio barbagianni”.
Vi lascio alla vostra vita, mentre io torno dalla mia splendida moglie, dai miei figli e dai miei amici. Non so cosa sarei senza di loro.
 
Pace e prosperità!
 
Richard Castle
5 giugno 1969
 
Rick ripensò divertito a quel saluto finale, riscuotendosi finalmente dai suoi pensieri. Adorava la serie Star Trek da quando era uscita la prima puntata in televisione e non aveva potuto trattenersi dal citare il saluto vulcaniano di Spock. Un attimo dopo però la sua mente fu catturata dalla firma che aveva lasciato, ‘Richard Castle’. Castle era tornato a vivere solo per la scrittura di quel libro e per quel lungo commento finale. Poi era scomparso di nuovo, stavolta definitivamente. Non sarebbe più resuscitato. Quello era stato l’ultimo addio all’uomo che era stato e che sarebbe rimasto in vita solo nella memoria dei suoi amici e del nuovo Richard, nato dalle ceneri di quel Castle che aveva vissuto a Berlino durante Hitler e il Nazismo.
Rick fece un sospiro e stava per tornare dagli altri, quando notò che c’era qualcosa di diverso in cucina. Si accorse che non sentiva più suoni dal giardino, ma che il volume e il numero delle voci in salone era aumentato. Capì che i ragazzi dovevano essere rientrati in casa.
In quel momento qualcuno accese la luce della cucina, facendolo sobbalzare.
“Oh, ciao papà!” lo salutò allegro Nicholas, sorpreso di trovarlo lì. “Che ci facevi al buio?”
“Non mi ero accorto che fosse scurito così tanto.” replicò Richard. In effetti era diventato troppo buio per vedere, ma l’uomo non se ne era neppure reso conto. Sbatté le palpebre più volte e socchiuse gli occhi, infastidito dall’improvvisa luminosità. Si accorse solo in quel momento che per tutto il tempo era rimasto con il bicchiere ancora quasi del tutto pieno d’acqua in mano, fermo a mezz’aria tra il tavolo e la sua bocca.
“C’è un po’ d’acqua anche per me?” domandò allora Nick, notando la bottiglia sul tavolo.
“Prendi un bicchiere che te la verso.” rispose il padre. Quindi osservò con la coda dell’occhio e un mezzo sorriso il suo primogenito, un ragazzone di ventiquattro anni alto quanto lui con le spalle larghe, i capelli corti castani e gli occhi blu, che si aggirava per la cucina alla ricerca di un bicchiere pulito. Dalla maglia chiazzata di sudore sulla schiena, Rick intuì che doveva essersi mosso parecchio in giardino.
“Avete finalmente deciso di rientrare?” chiese, riaprendo la bottiglia per versargli l’acqua quando Nicholas si avvicinò con il bicchiere.
“Iniziava a diventare troppo scuro per vedere il pallone volare.” replicò il figlio con una mezza alzata di spalle, ringraziando il padre con un cenno del capo. “Jamie stava quasi per colpirmi un occhio all’ultimo tiro. Inoltre zio Kevin dice che tra poco gli astronauti sbarcheranno sulla Luna.”
“Sì, l’ho sentito anche io…” dichiarò Rick ridacchiando, ripensando alla discussione precedente tra Kevin e Javier.
“NIIICK!” si sentì qualcuno urlare dal soggiorno con voce lamentosa. “Porti dell’acqua anche a noi?”
“Alzate le chiappe e venite a prendervela!” replicò il ragazzo senza battere ciglio, bevendo poi la sua acqua tutta d’un fiato.
“Dai!!” incalzò un’altra voce maschile che Rick riconobbe subito come quella del suo secondogenito, James, o Jamie, come lo chiamavano tutti. “Ha sete anche Sarah!” Nick drizzò le orecchie per un attimo, ma poi sbuffò seccato. Richard ridacchiò sotto i baffi. Sarah Grace, la bionda e bella figlia di Kevin e Jenny, era sempre stata il batticuore del suo primogenito, fin da quando lui era stato abbastanza grande per capire cosa fosse l’amore. In fondo lei era solo di un anno più grande di Nicholas ed erano cresciuti praticamente insieme. A volte Rick ripensava divertito a quanto tempo il suo ragazzo ci aveva messo a farsi avanti con Sarah per paura di una reazione negativa di Kevin. Ormai però i due stavano insieme da più di tre anni e il progetto era di sposarsi non appena entrambi avessero finito l’università. 
“Porto da bere a Sarah allora.” replicò alla fine Nick, versandosi di nuovo l’acqua tranquillo. “Voi altri invece vi arrangiate.” Ci fu un coro di proteste, interrotto solo da una risata femminile, probabilmente della stessa Sarah.
“Grazie amore!” replicò infatti la ragazza con aria divertita. Tra tutte quelle voci, ce ne fu una rassegnata che catturò subito l’orecchio di Rick.
“Tesoro…” lo chiamò Kate. Richard sapeva che si stava riferendo a lui anche senza vederla.
“…porto un bicchiere per tutti, sì.” concluse per lei con un sorriso. Adorava come quelle piccole connessioni telepatiche tra loro esistessero anche in momenti così semplici e abituali.
“Grazie.” fu infatti la risposta sollevata di sua moglie. Rick sospettò che i ragazzi non si fossero stancati del tutto in giardino. A volte si chiedeva se anche lui a vent’anni avesse avuto tutta quell’energia inesauribile in corpo.
“Prendo un vassoio?” chiese a quel punto suo figlio.
“Sì, grazie Nick.” rispose, dirigendosi intanto verso la credenza. Rick recuperò un po’ di bicchieri e li poggiò, impilati con attenzione, sul grosso vassoio che aveva preso Nicholas, aggiungendo poi due bottiglie d’acqua piene. “Vai, pure.” disse quindi al ragazzo con un sorriso, alzando piano il vassoio per trasportarlo. “Con calma ti raggiunge anche il tuo vecchio.” Nick annuì e lo precedette nel corridoio. Rick si mosse con passi lenti dietro di lui, cercando di fare attenzione a non rovesciare tutto.
Mentre procedeva, notò un movimento con la coda dell’occhio. Voltando la testa però, vide solo la sua immagine riflessa sullo specchio attaccato al muro del corridoio. Rimase per un momento immobile a fissarsi, quasi con aria stupita. Si accorse solo in quel momento di essere davvero invecchiato rispetto a tutti quei ricordi che gli erano passati per la testa nell’ultima mezz’ora. Gli anni e il lavoro sedentario lo avevano un po’ appesantito e i capelli, che per fortuna aveva ancora tutti senza cenni di cadute, gli si erano ingrigiti. Da qualche anno inoltre gli erano comparse le borse sotto gli occhi e sempre più spesso era costretto a mettersi gli occhiali per leggere. Manteneva comunque una posa eretta, come gli anni da militare gli avevano insegnato. Nel complesso il suo fisico stava bene, anche se ovviamente gli acciacchi c’erano ed erano ogni giorno più rognosi.
Richard avvicinò un poco il viso allo specchio, socchiudendo gli occhi e inclinando appena il capo. La cicatrice che aveva ricevuto a Berlino e che gli attraversava la guancia era ormai solo una sottile striscia di pelle sbiadita che iniziava a confondersi con le rughe dell’età. I suoi figli gli avevano chiesto più volte come lui e Kate si fossero procurati tutti quegli sfregi sui loro corpi, ma loro avevano sempre deviato la domanda o raccontato solo parte della storia. Con il libro che aveva scritto, e che solo Kate aveva letto in anteprima, finalmente anche i suoi ragazzi avrebbero saputo quello che era accaduto ai loro genitori negli anni in cui avevano vissuto Germania e di cui non avevano mai parlato.
Dopo qualche altro momento di contemplazione, Rick fece una smorfia al sé stesso nello specchio, quindi si avviò nuovamente verso il salone. Leandro aveva avuto ragione a dire che sarebbero soffocati nella stanza tutti insieme. Oltre a Kevin, Jenny, Javier, Lanie e Louis sui divani, Kate sulla sedia e Leandro in piedi, c’erano anche Lara, abbracciata a Leo, Semir con sua moglie Tien e la loro piccola Feyza, Sarah Grace e suo fratello Sean e i due fratelli minori di Nicholas, James e Johanna. Rick si guardò attorno spaesato, sentendo all’improvviso tutto troppo stretto. Pensò che forse la proposta che Kate gli aveva fatto la settimana prima, di cercare una casa più grande, forse non era stata del tutto azzardata.
“Ciao Rick!” lo salutò con un grosso sorriso Semir, avvicinandosi a lui. “Aspetta che ti aiuto.” si bloccò poi, vedendolo con il grande e pesante vassoio. Fece velocemente spazio sul tavolinetto centrale, liberandolo di ciotole di caramelle e noccioline e da qualche residuo di dolce della cena, e lo aiutò ad appoggiare il portavivande.
“Grazie.” replicò Richard con un sorriso sollevato. Quindi prese la mano di Semir e lo strinse poi in un abbraccio per salutarlo. Erano quasi due mesi che non avevano occasione di vedersi. Quando lo lasciò andare, notò che si stava facendo crescere baffi e basette. “E quelli che sono?” domandò divertito, indicandoglieli. Lui alzò appena le spalle, ridacchiando.
“Volevo provare.” replicò. “Che vuoi farci, sono la moda. Come gli occhiali grossi e i pantaloni a zampa di elefante.” Rick fece una smorfia a quelle parole.
“Lascia stare la moda e fammi salutare tua moglie e tua figlia.” aggiunse, facendogli cenno di scostarsi e facendo un grosso sorriso a Tien e Feyza. Quando vide la bimba, spalancò gli occhi. “Ma quanto è cresciuta??” domandò sorpreso, prendendola in braccio. Quella lanciò un gorgheggio allegro e gli lasciò un bacetto bavoso sulla guancia, aggrappandosi al suo collo. Semir alzò gli occhi al cielo.
“Che ti aspettavi?” chiese retorico. “Ha due anni, sai meglio di me che crescono come funghi a questa età.”
“Dio, già due anni…” mormorò Rick, osservando la bimba che intanto lo contraccambiava con un’occhiata curiosa, la testa appena inclinata di lato. La piccola aveva la pelle leggermente olivastra, capelli scuri e occhi nocciola con particolari pagliuzze dorate che secondo Semir erano uguali a quelli della sua madre naturale.
“Sai che l’altro giorno mi ha chiesto di te?” dichiarò Tien con un sorriso, salutando Rick con un mezzo abbraccio, per non schiacciare la piccola, e due leggeri baci sulle guance. Dopo anni negli Stati Uniti, la donna parlava un ottimo inglese, anche se aveva ancora con un vago accento vietnamita. Era qualche anno più giovane di Semir, magra, minuta, carnagione tendente al bruno, capelli neri come il carbone, e occhi a mandorla altrettanto neri. Però, come Rick aveva appreso nel tempo, tutto quello nascondeva una donna forte che non si era lasciata intimidire dalla guerra, che le aveva distrutto la famiglia e l’aveva segnata nel corpo e nella mente, e che era riuscita a ricostruirsi una vita dall’altra parte del mondo.
“Davvero?” domandò Richard felice, facendo un enorme sorriso alla bimba.
“Già.” replicò la donna ridacchiando. “Per l’esattezza mi ha chiesto di ‘Tio Lick plano’.” aggiunse, copiando i termini storpiati della piccola. Non appena sentì quelle parole, Feyza batté le manine e subito allargò le braccia urlando: “Tio Lick plano! Plano! Plano!” Rick accolse la richiesta ridendo. ‘Plano’ doveva essere un modo per indicare l’aeroplanino volante che le faceva fare ogni volta che la teneva in braccio.
“Va bene, va bene, plano!” ribatté, prendendo meglio la bambina dai fianchi. “Sei pronta Fey?” Lei urlacchiò di nuovo di gioia e allargò subito le braccia in attesa di essere trasformata in un aeroplanino volante. A quel punto Richard iniziò a muoversi in tondo, tenendo la bimba appena sopra la testa e rumoreggiando con la bocca il motore di un aereo. Feyza lo imitò nei suoni per quanto poté, ma poi si lasciò semplicemente trasportare, ridendo allegra.
“Non sei un po’ vecchio per fare ancora l’aeroplanino, papà?” domandò James, osservando il padre con un sopracciglio alzato mentre riportava la bimba in braccio a Tien con un ultimo borbottio di motore.
“Bada a come parli, ragazzino. Come ti ho creato, ti distruggo!” replicò Rick voltandosi verso il figlio con quella che voleva essere un’aria malefica.
“Rick!” lo riprese subito Kate esasperata, scuotendo la testa.
“Cosa?” ribatté il marito con fare innocente. “Ha cominciato lui! E poi tecnicamente è vero, l’abbiamo creato io e te, no?” aggiunse, lanciandole un’occhiata allusiva che fece arrossire Kate e che guadagnò diversi versi schifati. “Comunque…” continuò poi, tornando a rivolgersi a James, ma guardando la piccola Feyza per farle un ultimo sorriso e l’occhiolino. “…se tu e i tuoi fratelli non foste cresciuti tanto lo farei ancora anche con voi. Purtroppo però non mi è più possibile. Ora solo Feyza e Louis mi danno questa soddisfazione!” Jamie in risposta gli lanciò con un’occhiata seccata e rassegnata. Nonostante il ragazzo avesse ormai raggiunto i vent’anni, come dimostravano la peluria biondo scuro sotto il naso e il mento e i movimenti goffi di chi è cresciuto tanto in poco tempo, James era ancora in quella fase adolescenziale in cui non si sopporta qualsivoglia contatto fisico e psicologico con i genitori. Secondo nonno Jim non c’era da preoccuparsi. Kate aveva avuto una simile fase ‘ribelle’ alla stessa età.
Jamie non replicò, invece andò direttamente ad accasciarsi sul divano accanto a Sean, Kevin e Jenny.
“Ehi, non occuparti tutto il posto.” borbottò Sean, spingendo l’amico in un angolo. Il figlio di Kevin era più basso e di un anno più piccolo di James, ma altrettanto forte e sveglio. Con i capelli biondi, gli occhi azzurro chiaro, come anche Sarah e i suoi genitori, e i lineamenti dolci di Jenny, Sean non faceva fatica a fare strage di cuori. Nonostante fossero molto diversi, Sean e Jamie si comportavano come fratelli, dal proteggersi a vicenda, fino al combinare guai insieme (cosa in cui avevano molto talento).
“Senti chi parla.” replicò in risposta il figlio di Rick, cercando a sua volta di spingere l’amico.
“Ragazzi.” Li richiamarono contemporaneamente Jenny e Kate prima che si creasse una battaglia all’ultimo cuscino. Conoscevano bene i loro figli e volevano evitare che da un semplice attacco si generasse una guerra.
“Ancora a farsi riprendere dalla mamma, eh?” esclamò divertita Johanna, canzonando suo fratello e Sean.
“Fatti gli affari tuoi.” replicò James storcendo il naso e incrociando le braccia al petto come un bimbo imbronciato. Richard lo osservò con un sorrisetto. Erano quelli i momenti in cui capiva il senso delle parole di Kate quando diceva che lui e il suo secondogenito si somigliavano più di quanto credesse.
Johanna rise, ignorando completamente il commento del fratello, e stuzzicò di nuovo i due amici. Rick invece si perse a guardare lei, la sua bambina che ormai bambina non lo era più. A quindici anni, Johanna aveva già molte (troppe, secondo lui) delle curve femminili tipiche di una donna al posto giusto. Ogni volta che la osservava, Rick vedeva un pezzetto di sua madre: stessi capelli rossi, stessi occhi azzurri, stesso portamento elegante, anche se i lineamenti del viso erano quelli di Kate e le mancava quell’aura di attrice che tanto aveva caratterizzato Martha.
Per un attimo Richard fu preso da un momento di nostalgia. Erano quasi cinque anni che sua madre era morta, ma a volte si ritrovava ancora a chiedersi se avrebbe recitato nel prossimo spettacolo in uscita a teatro. Gli mancavano la sua allegria e la sua stravaganza, il suo modo di fare teatrale, ma anche quello serio e diretto. Soprattutto quando litigava con i suoi figli o con Kate, spesso si domandava cosa gli avrebbe detto lei, cosa avrebbe fatto o come si sarebbe comportata se fosse stata ancora viva.
Scosse la testa e si passò una mano tra i capelli, cercando di scacciare i pensieri tristi che minacciavano di sopraffarlo ogni volta che pensava a lei. Si era imposto di ricordare solo i bei momenti con sua madre, come avrebbe voluto lei, e non la lunga malattia che l’aveva stroncata. Solo la donna con il sorriso sulle labbra e la battuta sagace pronta e non quella pelle e ossa che a tratti non ricordava nemmeno di avere un figlio. A Rick era sempre sembrato un crudele scherzo del destino quella malattia: sua madre era passata dal ricordare a memoria pagine e pagine di copione, al non riconoscere più nemmeno sé stessa. Era stato devastante. Sia per lei che per loro, la sua famiglia, che erano stati costretti a osservare i suoi peggioramenti giorno dopo giorno senza poter fare nulla per impedirlo.
“Papà, sei con noi?” gli domandò all’improvviso Johanna, facendolo quasi sobbalzare e strappandolo dai suoi pensieri cupi. La ragazza era accanto a lui e lo osservava con aria dubbiosa. Non l’aveva nemmeno sentita avvicinarsi.
“Sì, scusami tesoro.” rispose alla fine con un mezzo sorriso, portando un braccio sulle sue spalle e lasciandole un bacio tra i capelli. “Mi spiace, ero sovrappensiero.”
“Me ne ero accorta.” replicò la ragazza divertita. “Ma hanno appena detto alla televisione che tra poco gli astronauti usciranno sul suolo lunare. Non volevo che ti perdessi il momento, visto che ci tenevi così tanto...” Rick la guardò un po’ sorpreso, quindi le fece un piccolo sorriso dolce. La sua bambina si preoccupava sempre per lo stato emotivo degli altri. Aveva come un radar interno che le faceva capire subito l’umore delle persone accanto a lei e faceva di tutto per migliorarlo.
“Grazie, Joha.” disse infine Rick, lasciandole un altro bacio tra i capelli. Quindi la lasciò andare in modo che potesse prendere posizione a gambe incrociate davanti alla TV. Louis la raggiunse subito e si piazzò tra le sue braccia, sdraiandosi comodamente addosso a lei.
Rick osservò con un mezzo sorriso sua figlia mugugnare contro il bambino senza davvero essere arrabbiata con lui, solo per farlo ridere. Poi pensò che in fondo, per qualche strano scherzo del destino, Johanna somigliava anche un poco non solo alla donna da cui aveva preso il nome, e di cui Kate gli aveva mostrato le foto, ma pure alla simil-figlioccia che aveva lasciato in Germania, ovvero Alexis. Si appuntò mentalmente di chiamarla in settimana. La ragazza che aveva lasciato in Europa era ormai una donna adulta attiva nella ricostruzione delle città bombardate e sposata a un soldato che era stato incarcerato per essersi opposto, appena maggiorenne, al nazismo. Era un bravo ragazzo che Richard aveva conosciuto il giorno del loro matrimonio e che fino a quel momento si era dimostrato uno con la testa sulle spalle e molto attaccato alla famiglia. Lui e Alexis erano genitori da un anno e mezzo di una splendida bimba e nel giro di sei mesi lo sarebbero diventati di nuovo. Erano quasi tre settimane che non sentiva Alexis e Rick voleva sapere come stava procedendo la gravidanza.
In quel momento le voci provenienti dalla televisione si fecero eccitate e i presenti nel salone iniziarono a zittirsi l’un l’altro per sentire. Rick approfittò dell’attimo di quiete e distrazione generale per avvicinarsi a Kate da dietro le spalle. Quindi si abbassò per abbracciarla oltre lo schienale della sedia, lasciandole un bacio sulla guancia. Lei, che aveva in qualche modo intuito la sua presenza, gli carezzò un braccio e voltò a metà il viso per ringraziarlo con un sorriso dolce.
“Avevi ragione.” mormorò lei qualche secondo dopo, tornando a guardare la televisione. Sullo schermo continuavano ad alternarsi immagini della Luna prese da un oblò e la diretta dagli studi della CBS tenuta dall’ex-astronauta Wally Schirra e dal presentatore Walter Cronkite, notoriamente molto serio, ma che durante l’allunaggio si era lasciato prendere dall’emozione tremando visibilmente. Rick osservò rapito la superficie chiara della Luna, mentre un brivido di eccitazione gli passava lungo la schiena. Il satellite pareva così vicino che sembrava poter bastare allungare un braccio per sfiorarlo.
“Ho ragione su molte cose.” replicò alla fine a bassa voce con un tono divertito, riportando l’attenzione su sua moglie. Kate roteò gli occhi con un mezzo sorriso a quella risposta. “Di cosa stiamo parlando stavolta?”
“Della Luna.” rispose lei, indicandogli con un cenno del capo la TV. “Una volta mi hai detto che l’uomo sarebbe arrivato anche là e avevi ragione.” Rick la guardò sorpreso. Lui ricordava bene quel momento davanti alla finestra del salone della sua casa di Berlino, con loro due abbracciati e la luce della Luna come sola illuminazione. Non credeva però che anche lei se ne ricordasse…
 
“Sai che un giorno l’uomo arriverà anche lassù?” domandò poi piano Rick, rompendo la quiete creatasi.
“Sulla Luna?” replicò Kate. “Credi che sia possibile?” Lui alzò appena le spalle.
“Mi sono innamorato di una donna che pensavo mi avrebbe odiato per sempre e che ora invece sto abbracciando.” rispose con un mezzo sorriso. Beckett voltò la testa un poco verso di lui, come per osservarlo con la coda dell’occhio. “Credo che tutto sia possibile.”
 
“Perché mi guardi così?” domandò la donna, squadrandolo curiosa. Lui alzò appena le spalle con un ghigno felice che non riuscì a reprimere.
“Niente.” rispose, lasciandole poi un altro piccolo bacio sulla guancia, approfittando del fatto che tutti i presenti erano ancora concentrati sulla televisione e che nessuno quindi avrebbe interrotto quel momento. “Non pensavo lo avessi ancora in testa dopo tanti anni.”
“Amore, io ricordo ogni scempiaggine da te pronunciata.” replicò lei divertita, ridacchiando davanti allo sguardo imbronciato di Rick. “Ma i tuoi momenti migliori sono impressi a fuoco nella mia mente.” aggiunse poi più dolcemente, carezzandogli piano una guancia. Richard le sorrise teneramente e strinse appena la presa sulle sue spalle prima di lasciarle un bacio a fior di labbra. Dopo anni di matrimonio, la cosa più bella era che Kate riusciva ancora stupirlo.
“Andiamo, amico!” esclamò Javier a voce alta in quel momento, rompendo il silenzio creatosi e facendo trasalire tutti. “Farete i piccioncini dopo, ora tacete che non sento i due tizi in TV.”
“Javier!” lo riprese seccata Lanie, lanciando insieme uno sguardo di scuse ai due. Richard si sciolse dall’abbraccio sbuffando, mentre gli altri ridacchiavano, ma tenne comunque un braccio sulle spalle di sua moglie, rimanendole accanto. Kate invece scosse la testa divertita e poi poggiò la nuca contro il fianco di suo marito, intrecciando le dita della mano con quella di Rick sopra di lei.
In quel momento il presentatore comunicò che i due astronauti stavano per aprire il portellone in modo da scendere dal modulo lunare. Fu così che Rick e Kate seguirono lo sbarco sulla Luna, affiancati e tenendosi per mano. E mentre Neil Armstrong percorreva lentamente i pochi pioli della scaletta che lo separavano da quella superficie chiara e irregolare, Richard pensava che forse, in un’altra vita, lui e Kate sarebbero potuti diventare altro, dall’astronauta allo scrittore, dal giornalista al detective di polizia. Sarebbero potuti diventare qualunque cosa in effetti. E forse sarebbe stata anche una vita senza guerra, senza morte, senza dolore. Ma, forse, loro non si sarebbero mai incontrati.
Rick strinse più forte la mano di Kate a quel pensiero, quasi temesse di perderla. Forse avrebbero avuto meno problemi, ma lui ne era certo: nonostante tutto, non avrebbe mai cambiato una virgola della sua vita. Perché mille vite senza Kate, non avrebbero mai potuto sostituire un’esistenza con lei.
 
“That’s one small step for man, but giant leap for mankind.”
(Questo è un piccolo passo per l’uomo, ma un grande balzo per l’umanità.) 

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Xiao! :D
E così, siamo arrivati alla fine. Se potessi rubare qualche parola di George R.R. Martin (quello de Il Trono di Spade) direi: l'ultimo capitolo è stato una cagna. Questo è stato tre cagne e un bastardo.
No, davvero non avete idea di quante volte abbia cambiato forma questo capitolo! XD Se pensate che io l'avevo già più o meno in mente dal principio (e si parla di circa un anno e mezzo fa!) allora mi crederete se vi dico che ha avuto una marea di varianti. E se non ci credete, chiedete a Katia R e Sofy_m! Sono state le prime a dirmi di scrivere questa storia e le prime a bocciarmi in buona parte il primo finale che avevo in mente! XD E le ho anche tipo fatte impazzire con le mie spiegazioni della storia che facevano letteralmente schifo perché non sapevo spiegarmi... XD (sorry <3)
Comunque, mi scuso anche con voi perché ci ho messo una vita a scrivere questo capitolo. E in generale devo ringraziarvi: io sono una delle prime che tende a non dare molta fiducia alle storie "storiche" o che comunque penso siano troppo lontane dai nostri personaggi abituali di Castle e compagnia. Invece molte di voi mi hanno dato una possibilità e spero vivamente che Berlin non abbia disatteso le vostre aspettative. In ogni caso, io mi sono divertita molto a scriverla e mi mancherà non farlo, ma ammetto di essere stavolta. XD Mi ha prosciugato in termini di fantasia, anche perché ho dovuto accantonare un sacco di altre idee. 
Anyway, mi sono accorta che ho scritto troppo! XD Me ne vado ora, giuro! E vi prometto, sul serio, che la prossima long prima la scrivo tutta (o al 98%) e poi la pubblico, così non vi faccio aspettare le ere geologiche! XD
Grazie mille ancora a chiunque abbia recensito/seguito/ricordato/favorito Berlin o anche solo a chi è arrivato fin qui! Soprattutto a quelle che hanno iniziato a leggere la storia solo recentemente e mi hanno comunicato di essersela sorbita tutta d'un fiato! Avete la mia stima. 
Alla prossima storia! :)
Lanie

ps: ah, nel caso non vi fossero chiari i rapporti di parentela (troppa gente in questo capitolo, lo so XD), chiedete e vi risponderò! ;)

pps: visto che voglio rompervi le scatole ancora un attimo, ma non ho voglia di scrivere, vi lascio il prospettino storico che mi ero fatta per questo capitolo, sia mai che qualcuno è interessato! XD Comuqnue se avete problemi con la Storia (intesa come materia), non c'è modo migliore che scrivere una storia o una ff sull'argomento! Giuro che non ho mai conosciuto tanto di Berlino durante la Seconda Guerra Mondiale! O.O
  • Uomo sulla Luna : Allunaggio 20 luglio 1969 , ore 20.18 UTC  (NY è UTC-5 [EST] quindi erano le 15.38) // Discesa di Armstrong 21 luglio , ore 02.56 UTC (a NY erano le 21.56 del giorno prima)
  • Kennedy a Berlino Ovest : 26 giugno 1963 (“Ich bin ein Berliner”)
  • Muro di Berlino : 13 agosto 1961 – 9 novembre 1989 (28 anni)
  • J.F. Kennedy (irlandese di origine) : presidente dal 20 gennaio 1961 al 22 novembre 1963 (assassinato a Dallas)
  • Guerra del Vietnam : 1960 – 30 aprile 1975 (caduta di Saigon) (americani presenti dal 1965 al 1972, con un massimo di quasi 550.000 nel 1969)
  • Martin Luther King : attivo negli anni ’50-’60 , “I have a dream” 28 agosto 1963 , assassinato il 4 aprile 1968 a Memphis (cecchino)
  • Guerra di Corea : 1950 – 1953 (Korean Conflict)
  • Movimenti per gli Indiani d’America in tutto il periodo
  
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