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Autore: Luna Viola     31/03/2015    5 recensioni
Desideravo che guardasse anche me, per una volta. Una sola. Non chiedevo altro. Questo mi teneva inchiodata lì, all’ombra di un albero, ad attendere il suo ritorno. Questa era la ragione per cui, da tre giorni a questa parte, la mia mente ripeteva ancora e ancora il breve momento del nostro incontro.
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Ovviamente io non possiedo i Moschettieri, altrimenti, oltre ad essere una persona molto felice, sarei anche Alexandre Dumas, che è morto, oppure la Bbc, e in quel caso mi darei una mossa con le riprese dei nuovi episodi, più che scrivere :)

E' solo una piccola oneshot, ma sto lavorando a una long fic e vorrei capire come me la cavo, se ne avete voglia mi lasciate un feedback? Grazie a tutti per la collaborazione, a presto!

 
 
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Probabilmente ad un uomo come lui era già capitato.
 
Difficile, del resto, non rimanere abbagliati da quello sguardo celeste ghiaccio, colore del cielo in un giorno invernale di sole, quando gli alberi sono spogli eppure, per una rara circostanza, non v’è alcuna nube a nascondere il volto della Terra.
 
Difficile non notare la piega di quelle labbra, la linea forte del mento, la fronte liscia e il modo in cui, quando non portava il cappello, i capelli scuri gli circondavano il volto. Difficile, ancora, distogliere lo sguardo dalle spalle, ampie, dalle braccia, plasmate dalla spada, e da quel torace fiero, in grado di sorreggere, come se non avessero alcun peso, onore, virtù, lealtà, coraggio. Quanto doveva essere forte un uomo in grado di incarnare un ideale? Di portare il mantello celeste, simbolo dei Moschettieri del Re, con una tale disinvoltura? E di affrontare quotidianamente il mondo con una simile impassibilità?
 
Impassibilità.
Questo era ciò che più mi aveva colpita di lui.
 
Guardavo il suo volto e, pur non venendo osservata a mia volta, mi sentivo intrappolare da quello sguardo imperturbabile, come se per lui nulla fosse troppo scioccante, troppo affascinante, troppo spaventoso. Come se tutto potesse in qualche modo essere controllato, prevedibile, sormontabile.
 
Desideravo che guardasse anche me, per una volta. Una sola. Non chiedevo altro. Questo mi teneva inchiodata lì, all’ombra di un albero, ad attendere il suo ritorno. Questa era la ragione per cui, da tre giorni a questa parte, la mia mente ripeteva ancora e ancora il breve momento del nostro incontro.
 
Era accaduto al tramonto, la sera del 21 marzo, equinozio di primavera. Mi ero attardata a sbrigare alcune faccende nella piazza del mercato, Christine che al mio fianco chiacchierava incessantemente di tessuti e merletti, e io che annuivo distratta con i pensieri che correvano senza una direzione precisa, i sensi avvolti dal profumo della sera incombente, dall’aria umida di pioggia, di terra bagnata. C’era ancora gente per strada a quell’ora, perciò non mi accorsi della direzione seguita dai miei passi finchè sul mio cammino non incontrai un ostacolo.
 
Lui, appunto.
 
Ma era così preso dall’ascoltare ciò che un giovane moschettiere suo compagno gli stava raccontando, un tipo alto, sui vent’anni, capelli scuri e occhi molto luminosi, da non rivolgermi nemmeno uno sguardo nel mormorare “chiedo perdono, madame”. Io, invece, l’avevo visto. Eccome.
 
Come la mia spalla si era scontrata con la sua mi ero sentita avvolgere da un misto di odori che ancora oggi cercavo nell’aria, una miscela di cuoio, polvere da sparo, terra e… spezie che mi aveva accattivata subito, inducendomi a desiderare d’incontrare gli occhi del proprietario di quel profumo delizioso. E non rimasi delusa.
 
Peccato che quegli occhi non avessero cercato me, in cambio.
 
Scoprire chi fosse era stato semplice. Sulla spalla che aveva urtato la mia avevo immediatamente scorto il Giglio dei Moschettieri del Re, e il giorno successivo, passando casualmente davanti alla sede del reggimento, l’avevo visto nuovamente. Con lui un giovane moro, di bell’aspetto, un sorriso in grado di conquistare una donna in pochi attimi, e un soldato di colore, alto e possente, le labbra inclinate e le braccia conserte sul torace.
 
Ma non avevo avuto il coraggio di avvicinarmi. Con quale scusa, poi? Mi avrebbero presa per una sciocca.
E tuttavia, la sera, di ritorno a casa, mi ero resa conto che la mia mente era rimasta lì, alla caserma dei Moschettieri.
E per quanto ci avessi provato, non ero riuscita più a riappropriarmene.
 
Pensare, mi dissi arricciandomi un boccolo biondo tra le dita, che non ero nemmeno il tipo da infatuarsi così velocemente… era roba da donnette, e io ero sempre stata un maschiaccio. Mia madre, quand’era in vita, si disperava ogni volta che le passavo accanto, convinta che avrei finito per condurre una vita solitaria, circondata da fiori all’interno di una casa vuota.
 
Eppure… eccomi qui, prigioniera di un sortilegio da cui non desideravo essere risvegliata.
Qui a guardare i cavalli varcare al passo l’arcata che conduceva alla corte dei Moschettieri, gli occhi appena dilatati nel rivedere lui in sella a uno di quei cavalli.
 
Ad attendere.
 
Provai una punta di scoramento quando, mezz’ora più tardi, lo vidi abbandonare, a piedi questa volta, la caserma in compagnia dei suoi fratelli d’arme. Speravo che avrei avuto l’opportunità di avvicinarlo solo, che era già abbastanza imbarazzante così. Invece…
 
Al diavolo.
Avevo atteso sin troppo.
 
Come mi passò accanto mi feci coraggio, e invece di rimanere ad osservarlo decisi di allungare la mano, una parte di me, quella più pudica, che si copriva il viso rosso fuoco all’idea della mia audacia. Ma la ignorai, limitandomi a sorridere quando lo vidi fermarsi e guardarmi interrogativo, giusto un guizzo nel celeste del suo sguardo a domandarmi chi fossi.
 
“Chiedo perdono, monsieur, posso parlarvi un momento solo? In privato?” aggiunsi, visto che anche i suoi compagni si erano fermati e ora mi guardavano curiosi.
 
Corrugò appena la fronte, perdendo un lungo momento a studiarmi in volto. Vidi i suoi occhi finalmente soffermarsi nei miei abbastanza a lungo che un guizzo mi strinse il petto, e poi scivolare oltre le labbra, fino ai miei piedi, e risalire, scrutarmi di nuovo le iridi. E poi lo vidi annuire appena, la curiosità ancora ad animare la sua espressione imperturbabile.
 
“Certo, mademoiselle” mi rispose, un brivido nel sentire la sua voce roca, profonda e oh, così sensuale. Fremetti, tendendo il corpo per impedire alle mie gote di tingersi di rosso, di tradirmi, e invece deglutii appena, nervosa, lo stomaco annodato come una corda, precedendolo vicino all’albero sotto al quale l’avevo atteso, domandandomi se non fosse una follia.
 
Voltarmi e incontrare di nuovo i suoi occhi cementificò la mia risolutezza.
La maschera d’impassibilità era nuovamente scivolata sul suo volto, il cappello che gettava un cono d’ombra che gli lambiva le labbra e la casacca in pelle scura sporca di polvere. Ma anche così era capace di togliermi il fiato. Di…
 
Era come una lenta, lunga carezza. Come se improvvisamente sentissi caldo al centro del petto, e freddo alla punta delle dita. Era come se una goccia d’acqua gelida scivolasse sulla mia pelle oltre il tessuto dell’abito che indossavo, e dove passava divenivo ipersensibile, desiderosa di… essere toccata da quelle mani grandi, e ruvide.
 
E… non potei più resistere.
Lo guardai, e le mie labbra si socchiusero senza che su di loro avessi più alcun controllo. “Posso baciarvi?”
 
Avrei voluto essere un’artista, invece che una scavezzacollo con un’insana passione per i fucili da caccia, perché ritrarre l’espressione del suo volto alla mia domanda mi avrebbe permesso di dipingere un quadro impareggiabile.
 
Una maschera d’incredulità per un momento sostituì il ghiaccio delle sue iridi, e le sue labbra si socchiusero di appena un millimetro, abbastanza da rivelare il bagliore bianco dei suoi denti. E il suo corpo, anche, reagì, bloccandosi come se non credesse davvero a ciò che aveva udito.
 
Me la godetti appieno, quella reazione, pensando distratta che poche donne dovevano essere in grado di cogliere di sorpresa un Moschettiere del Re. E lo guardavo ancora, rossa in viso e trepidante, quando l’istante successivo si sbloccò, inarcando le sopracciglia castane e spalancando appena gli occhi chiari.
“Come prego?”
 
Mi morsi un labbro, desiderando ardentemente di non dovermi ripetere. “Vi ho domandato, monsieur, se posso avere l’ardire di baciarvi” mormorai comunque, che ormai, mi dissi, non c’era modo di tornare indietro. Potevo scappare, e passare per idiota, o potevo restare, e forse sarei tornata a casa come un’idiota, sì, ma felice. Non una scelta difficile, dopotutto…
 
Ma a quanto pareva, per mia sfortuna non ero stata abbastanza chiara.
“Voi, mademoiselle, desiderate baciarmi?” ripetè il Moschettiere, portandosi il pollice al petto a scanso di ogni equivoco.
Annuii, più risoluta via via che i secondi passavano. “Se possibile, sì” confermai, iniziando a provare anche una punta di divertimento a tutta quella circostanza. Un giorno, ne ero certa, i miei nipoti avrebbero adorato quell’aneddoto…
 
Di nuovo, mi guardò senza parole. Ma fu un momento breve, un attimo solo in cui i suoi occhi percorsero ancora il mio corpo, dalla testa fino alla punta dei piedi, dai capelli biondi legati sulla nuca, all’abito blu che indossavo, grazioso ma per nulla elaborato, con un piccolo orlo in sangallo bianco e un pendente a forma di giglio.
 
E poi fu lui a cogliere di sorpresa me.
Perché prima che potessi reagire, o ripetere ancora la mia domanda, un braccio forte, molto più di quanto mi aspettassi, mi cinse i fianchi, così poco delicatamente che mi alzò sulle punte dei piedi. E come sollevai il mento per incontrare i suoi occhi perplessa, era più alto di me di venti centimetri abbondanti, ebbi solo il tempo di… inspirare. Poi le sue labbra furono sulle mie, calde, ruvide per la barba, ma anche incredibilmente dolci.
 
Mi baciò. Esattamente come avevo chiesto.
 
Ma con un impeto tale che sentii un gemito sfuggirmi di bocca, prontamente soffocato dalla sua, che si muoveva esperta sulla mia.
 
E… rimasi senza fiato. Come se un fulmine mi avesse colpita, centrata in pieno, travolta. Come se mi trovassi al centro di un fiume e un’onda anomala mi avesse sommersa, costringendomi a ruzzolare sul fondale ancora e ancora. Come se una folata d’aria gelida mi avesse privata del respiro, lasciandomi… basita. E ansante.
 
Chiusi gli occhi, e senza davvero volerlo la mia mano salì al collo della sua casacca, la strinsi, avvicinandomi di più a lui. Socchiusi le labbra, mugolando ancora quando la sua lingua si impossessò della mia, dolce, dal lieve retrogusto di vino. E lui mi strinse più forte, il suo torace contro il mio petto, e quel braccio saldo che mi teneva inchiodata dov’ero, in quel bacio così…
 
Ero senza fiato quando infine ci separammo. Lentamente, come se nessuno dei due avesse improvvisamente voglia di ritornare alla realtà. Fu quasi sgradevole, del resto, riprendere a sentire i suoni, le voci, gli odori, i colori. La bolla che ci aveva rinchiusi era scoppiata, e tutto pareva troppo rumoroso ora.
“Come vi chiamate” mormorò pacato, le sue iridi azzurre come il cielo prima del crepuscolo e le labbra appena più rosse, ancora socchiuse a incamerare aria.
“Cécile – risposi in un soffio, incapace di muovere un solo muscolo, gli occhi ancora prigionieri dei suoi – Cécile Gautier”.
 
Fremetti arrossendo quando le sue labbra si inclinarono appena, donando al suo volto una luce del tutto nuova.
 
“Lieto di conoscervi Cécile, sono Athos”. 


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