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Autore: Fissie    19/12/2008    10 recensioni
Loro non sono tuoi. Leah Clearwater lo sapeva bene che la sua stretta non sarebbe mai stata sufficientemente forte da riuscire a trattenerli, eppure non aveva smesso di sperare.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Leah Clearweater
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Breaking Dawn
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Bla...bla...bla...
Questa cosina è nata sull’onda di un’ispirazione improvvisa. Leggendo BD mi sono innamorata del personaggio di Leah, a mio avviso dalla psicologia affascinante e complessa, così non ho resistito ed ho scritto di getto. Ho persino lasciato il libro in stand-by a cento pagine dalla fine, tanto ero presa da quest’idea che mi frullava nella testa. Spero vi piaccia ^-^
P.s.: purtroppo i titoli non sono la mia specialità. Ci vorrebbe Jacob per questo XD


Fragile

Il vento infuriava impetuoso, sollevando vortici di foglie che turbinavano nell’aria. Il suo ululato tonante mi ricordò il richiamo familiare del lupo, e, come d'istinto, sentii quasi di appartenergli.
Sorrisi, le mani pigiate contro il vetro e lo sguardo color terra perso nel buio che avviluppava la foresta. Sorrisi, o almeno credetti di farlo, immaginando il mio viso contratto in una smorfia grottesca. I miei muscoli facciali non erano più abituati ad assumere quell’espressione tanto umana e mi sorprese scoprire di riuscirci ancora.
Per un attimo godetti della sensazione delle mie labbra tese sui denti scoperti e dell’assenza del ringhio rauco che ero solita associargli. Un riso gutturale gorgheggiò nella mia gola quando immaginai un viandante fermarsi esterrefatto sul sentiero che fiancheggiava la casa e pensare che fossi pazza.
Per fortuna era alquanto improbabile che qualcuno decidesse di darsi al trekking in una notte tanto fredda – o, meglio, era alquanto improbabile che un umano decidesse di darsi al trekking di notte, punto. Chiunque altro avesse deciso di passare di lì in quel momento certamente non era umano e, con buona probabilità, mi conosceva già. Perciò non si sarebbe sorpreso nel constatare che le voci poco lusinghevoli sulla mia salute mentale fossero vere.
In quel momento, una foglia secca aderì al vetro che si frapponeva tra lei e il mio naso, e il suo colore, in forza di un’associazione mentale tanto involontaria quanto vergognosa, mi ricordò il manto fulvo del mio intrepido aplha. Mio. Soltanto intrepido.
Fu impossibile soffocare l’eco dei pensieri di quel pomeriggio – i pensieri che avevo condiviso con Jacob a briglia sciolta. Non per nulla non ci riuscì e un’ondata di calore mi investì il viso. Probabilmente ero arrossita, sebbene non fossi del tutto sicura che la mia carnagione lo consentisse.
Voglio restare con te.
Scossi la testa, turbata dall’intensità di quell’affermazione, e l’imbarazzo crescente inghiottì il mio sorriso.
Santo cielo, che sdolcinata. L’alce che avevo mangiato a pranzo doveva essere una femmina nel pieno di una tempesta ormonale primaverile, sebbene fosse autunno. Sentivo ancora le farfalle nello stomaco, indice della certa indigestione che mi aveva causato.
Leah e Jacob, l’isterica cagnolina domestica e il randagio. Faceva molto Lilly e il Vagabondo, o giù di lì, e con un brivido registrai l’immagine di noi due davanti a un piatto di spaghetti con le polpette. Era abbastanza ripugnante da farmi desiderare carne cruda e ossa da spolpare.
Puah.
Caddi con un tonfo sgraziato sulla sedia accostata al davanzale e poggiai i gomiti sulle ginocchia, reggendomi la testa con le mani. Il piccolo monolocale era intriso dell’odore del legno e della pioggia, con un retrogusto di stantio del quale bisognava ringraziare la muffa – eppure, da qualche tempo, quello era il mio piccolo rifugio umano, un fazzoletto di solitudine completa che mi ero ritagliata dalla vita selvaggia del lupo. In quella squallida capanna, probabilmente occasionale asilo di escursionisti con scarso senso dell’orientamento, Leah Clearwater attendeva il lupo grigio straordinariamente piccolo rispetto ai suoi consimili, che ogni sera varcava la porta per ricongiungersi alla sua parte umana. Rasentava forse il disturbo mentale agognare tutto il giorno il momento in cui avrei potuto incontrare me stessa?
Forse. Ma era un’ironica scortesia alla coerenza che un licantropo si scandalizzasse per questo ed io non volevo offendere il mio buonsenso.
Avevo da tempo perso di vista la linea di demarcazione tra normale e assurdo, non sapevo più in quale territorio mi trovassi e nemmeno in quale avrei dovuto trovarmi.
L’unico licantropo donna, l’unica lupa del branco, l’eccezione, l’abominio tra gli abomini: riuscivo ad essere un fenomeno curioso anche quando lo stupore avrebbe dovuto lasciare il posto alla routine. Nemmeno le leggende mi contemplavano. Chi ero? Cosa ero?
Un mostro, un vicolo cieco genetico, cercai di ricordare a me stessa. Qualcosa che non è in grado di riprodursi dando seguito alla propria specie è un filo spezzato, reciso da chissà quali leggi che si opponevano – giustamente - alla mia esistenza. Nient’altro che un orrido e sterile ibrido che nessuno avrebbe mai dovuto amare. La natura lo avrebbe proibito; lo aveva già fatto.
Il tacito fantasma di Sam Uley passò attraverso i miei pensieri come un’ombra traslucida, accompagnato da un tintinnio di ricordi. Era lo spettro del mio passato, invisibile eppure sempre presente, pronto a ricordarmi ciò che avevo perso e perché.
Fui travolta dalla forza del suo ricordo impresso indelebilmente nella mia memoria. Per quanto cercassi di andare avanti, di dimenticarlo, di rompere col passato, era parte di me e lo avrei portato ovunque sarei andata, non importava quanto lontano mi avrebbero condotta le mie zampe da lupo. Avevo abbandonato il mio branco per unirmi a Jacob, avevo rinunciato a Sam, mi ero rassegnata all’idea che non mi avrebbe mai più amata – mai più amata. Come suonavano amare quelle parole. Rievocavano la realtà dolcissima che era stata la mia vita, tre anni prima, ora iniettata di un veleno inesorabile. Mai più.
Avevo sperato di cancellare le sue tracce con una zampata, e invece erano ancora lì, come impronte sul cemento.
Eppure quel pomeriggio, per la prima volta, mi era sembrato di scorgere un riverbero di speranza attraverso una fenditura nella mia corazza di odio, acredine e rancore. Jacob.
Il suo dolore era la mia àncora. Sapevo che soffriva, ma la sua ferita era tanto affine alla mia da farmi sentire meno sola. Ero un’egoista; lo sapevo io, lo sapeva lui. Un’egoista che godeva nel rievocare il dolore altrui, per il mero piacere di cancellare la gioia dal volto di chi mi stava accanto. Eppure con Jacob era diverso. Mi aggrappavo a lui come il naufrago che improvvisamente si accorge di aver bisogno del suo sventurato compagno quanto della propria zattera, per non essere inghiottito dalle acque. Avevo bisogno di lui, ma non volevo stare meglio a scapito suo. Ed era orticante come stridessero quelle parole – avevo bisogno di lui – adesso che non era più il lupo a pensarle, ma la donna dietro la bestia. Non lo volevo come capo branco, lo volevo come compagno. Di dolore, di guarigione, di solitudine. Un recesso della mia mente insinuò qualcos’altro che la mia coscienza si rifiutò di formulare razionalmente, e gliene fui grata.
Amavo Sam, lo amavo ancora come la prima volta che mi aveva baciata, con la stessa totalizzante intensità di quando fantasticavo sulla nostra vita insieme e potevo anteporre l’aggettivo mio al suo nome. Il mio amore superava l’odio che aveva rischiato di sopraffarmi quando mi aveva chiesto scusa, e tutte le volte in cui avevo riconosciuto nei suoi occhi la luce che li faceva brillare quando mi diceva ti amo, realizzando che guardava lei, non me. Lo amavo al punto da desiderare che fosse felice, anche se la sua felicità non mi includeva più come un tempo, e sapevo che non avrei mai smesso, sebbene desiderassi di poterci riuscire. In alternativa, però, avevo cominciato a sperare nel cambiamento, augurandomi di trascinare Jacob con me, lontano da Bella e dalla cricca di sanguisughe che gli stavano succhiando l’anima.
Era così sbagliato illudersi di avere una speranza? Non chiedevo niente di più. Sapevo di non poter chiedere altro.
Nessuno avrebbe potuto amarmi incondizionatamente di quell’amore irreversibile proprio delle bestie come noi, ed io non avrei potuto amare più nessuno che non mi avesse amata in quel modo. L’idea di essere ferita un’altra volta mi uccideva e probabilmente non avrei retto il colpo. Ero uno scarto della natura, lo sapevo. Eppure Jacob stuzzicava le mie speranze, con la sua noncuranza nei confronti delle leggi naturali.
Sorrisi ancora.
Io avrei rinunciato al lupo dentro di me, lui avrebbe vissuto solo come tale, ma saremmo stati per sempre legati dal filo invisibile del branco. Io il suo, lui il mio. Questo era il piano.
E chissà dove ci avrebbe portati.

* * *


Non lo seppi mai.
Renesmee Carlie Cullen nacque il giorno dopo, estirpando il bulbo acerbo delle mie fantasticherie. Povera, stupida sciocca. Qualsiasi cosa avessi cercato di costruire nella mia vita, per quanto impegno ci avessi potuto profondere, sarebbe stata pur sempre una costruzione di bambù in balìa del vento e di forze maggiori, che avrebbero potuto vanificare senza fatica il frutto dei miei sforzi.
Mi ero aggrappata a un brandello di speranza, una parte infinitesimale di Jacob che avevo osato considerare mia. E il destino, la natura, la beffarda legge della licantropia, oppure, semplicemente, quella della mia vita, era intervenuta prontamente a strapparmi anche quel misero lembo che mi arrogavo il diritto di stringere tra le dita. Era stato sorprendente avvertire la sensazione ruvida del mio acerbo sentimento scorrere sotto i polpastrelli, mentre registravo con morbosa precisione ogni increspatura e immaginavo che il mio cuore fosse rattrappito allo stesso modo – come la metà sfigurata del volto di Emily, pensai, con un cinico gusto amaro.
Sam Uley, Jacob Black… forse erano solo le prime due voci di un elenco destinato ad allungarsi, se non avessi imparato a smettere d’illudermi.
Conoscevo la sensazione di privazione e perdita; il suo abbraccio era stato come la sgradevole stretta di un amico che speravo di non incontrare mai più.
Loro non sono tuoi, mi sussurrava infida all’orecchio.
E, per quanto lo avessi saputo fin dall’inizio, stranamente faceva male lo stesso.
   
 
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