Fanfic su artisti musicali > Mika
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Autore: Flowrence    31/03/2015    4 recensioni
( AU. Storie dei protagonisti un po' stravolte, per adattarle meglio alla trama e alle mie idee.
Mirkan. / Morgan x Mika. /
Il carattere potrebbe cadere un po' nell'OOC. )
Mika è un ragazzo timido, che preferisce stare sulle sue. Un carattere che si è formato forse per tutti quegli spostamenti che, nel corso della sua vita, è stato costretto a fare. Dal Libano in Germania, dalla Germania in Olanda, in Ungheria, poi in Francia, per arrivare infine a Londra.
È intelligente, non è sciocco - ha visto il mondo, ha esperienze diverse. Ha avuto amici, ma li ha abbandonati. Sempre e comunque. Non si fida delle relazioni, sa che possono improvvisamente terminare.
Morgan è un insegnante di musica, alla scuola di Londra. Ama suonare - "se non esistesse la musica, dovrebbero inventarla". Si sente vivo solamente posando i tasti su uno strumento, o cantando.
I due s'incontreranno e Mika imparerà a conoscere la musica, a capirla, ad amarla. E a scoprire che, infondo, voler bene a qualcuno "non è poi così male".
Genere: Fluff, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Morgan
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
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– Dai, tesoro, ti troverai bene a scuola! – Mia madre cercò di rincuorarmi, sorridendomi incoraggiante e dandomi un buffetto sulla guancia.
Il mio sguardo era fisso, perso nel vuoto. Avevo paura che neanche stavolta andasse bene, ma non volevo ammetterlo ad alta voce. In ogni caso, bastava la posizione del mio corpo a far intuire i miei sentimenti: chiuso nelle spalle, mi tormentavo le mani, con le stesse dita di queste. Ero sempre stato alquanto timido, non riuscivo a stringere facilmente amicizia – e avrei iniziato al secondo anno, stavolta. Quando tutti ormai si conoscevano ed erano diventati amici. Io sarei stato la novità. E, si sa, le novità sono sempre guardate in maniera... strana. Se non ti dimostri amichevole, poi, puoi scordarti anche che qualcuno ti stia appresso. Semplicemente, perché non frega niente a nessuno di te. E te lo dimostrano gentilmente, isolandoti. Nulla di cui rimanere sorpresi. Eppure, ogni volta, in posti diversi, era quasi una tortura. Era deprimente. Ma, dovevo ammetterlo, non che io facessi molto per cambiare le carte in tavola.
– Michael, voglio vedere un sorriso su quel volto! – Mi disse, sempre mia madre, prendendomi il viso tra le sue mani affusolate, leggere. Confortanti. Mi sarei potuto facilmente perdere, tra i suoi gesti – mi fidavo ciecamente di lei.
E, seppur risultò il meno convinto del mondo, cercai di increspare le labbra in modo che apparisse un sorriso. A mia madre bastò – assottigliando lo sguardo in un'espressione dolce, comprensiva e sorridente, mi diede un altro buffetto.
Poi mi spinse delicatamente in avanti, verso l'ingresso della scuola. Il messaggio era chiaro: “coraggio, entra”.
Presi un respiro profondo, mentre il mio sguardo continuava a seguirla. Mia madre entrò in macchina e congiunse l'indice e il pollice, mostrandomi la mano, come per darmi l'“ok”. Io annuii.
E i miei piedi mi guidarono verso la scuola, proprio mentre la campanella suonava e i ragazzi cominciavano ad avviarsi. Fui sommerso dalla calca, che mi costrinse ad abituarmi alla sua velocità; quando varcai la soglia, circondato da quelle quattro mura, mi avviai in segreteria. Dovevo sapere qual era la mia classe, per la prima ora della giornata; da lì in avanti, me l'avrebbero indicata i miei compagni. O, più probabilmente, li avrei seguiti e basta – senza che me ne parlassero.
C'era un uomo, lì davanti. Parlava concitatamente, il corpo rivolto verso l'altra persona, il piede che batteva ritmicamente a terra e il braccio posato sul bancone. Il busto non era pienamente rivolto verso l'interlocutore.
Rimasi a pochi metri da lui, un po' distante, aspettando che terminasse di dialogare; riuscii a sentire solo pezzi frammentati del discorso, parole all'inizio senza senso. Sforzandomi un attimo, però, capii che parlava di una gita scolastica. A visitare Londra. Che stesse chiedendo indicazioni, oppure stesse cercando di decidere quale monumento fosse più importante? Il Big Ben. Forse.
Mh... no, sarebbe stato troppo scontato. Ecco, sarebbe stato bello andare in un museo d'arte, a vedere le opere di Turner – la cosa
sì, che si sarebbe fatta interessante.
Nell'attesa, mi permisi di osservare meglio il suo corpo. Il primo dettaglio che saltò all'occhio fu il collo, che era messo in risalto dal colletto della camicia bianca e dalla cravatta nera che indossava. Non sapevo bene il perché, ma quel lembo di pelle mi attirava. Così, rimasi incantato per quattro, forse cinque secondi, in sua totale contemplazione.
Poi, lo sguardo si spostò sulla camicia: spiegazzata, ma quell'aspetto non stonava, non dava l'idea di trasandato. Ne rimasi colpito. Anche il cravattino era allentato, pendeva dal suo collo; ma queste accortezze servivano a dargli stile. Era interessante, il fatto.
Aveva indosso anche una giacca: non abbottonata, così che la camicia potesse esser vista; era creata in modo che fosse squadrata sulle spalle e per nulla larga sulle braccia, in modo da tracciare alla perfezione le curve di queste ultime. Le maniche terminavano prima di quelle della camicia, dando un aspetto ordinato e pulito al tutto.
I jeans erano attillati, d'un grigio a tratti sporco, più scuro. Mettevano in risalto le gambe ed erano allacciati in vita con una cinta scura.
Risalendo, osservai le mani. Non erano affusolate come quelle di mia madre, o di mio padre; erano squadrate, al palmo e alle unghie – corte, come le dita. Eppure, erano grandi – per un attimo, uno solo, mi immaginai ad essere stretto da queste, in una morsa calda, sicura, salda. Poi, lasciai perdere quell'immaginazione, un po' sorpreso – non che non mi capitasse di riflettere in quel modo, ma... di solito non accadeva mai con uno sconosciuto –. Su quelle mani si potevano vedere le ossa che, da un punto imprecisato in prossimità dei polsi, giungevano fino alle nocche. Ma non sgraziavano con il suo corpo, non lo rendevano meno affascinante: erano, invece, sinonimo di virilitàLo osservai portarsi le dita della mano mancina tra i capelli, in un gesto abitudinario, tranquillo. Li plasmò, dando loro diverso aspetto. Fu in quel momento che mi concentrai su di essi; qualche ciocca era grigia, qualcun'altra più tendente al nero e ve n'erano un paio bianche. I ciuffi erano mossi, ricadevano elegantemente lungo il viso. Anch'essi avevano uno stile tutto loro.
Per non parlare di quel pizzetto...
– … a Londra. Grazie, Grace. 

Udii le ultime parole del suo discorso, riscuotendomi improvvisamente.
L'uomo – che molto probabilmente era insegnante – si voltò verso la mia direzione, con un sorriso cordiale in volto, che era indiscutibilmente rivolto verso la segretaria. Sorriso che andò scemandosi quando mi trovò a fissarlo – le sopracciglia s'alzarono verso l'alto ed egli si esibì in una microespressione sorpresa. A quanto pare, non immaginava che uno studente non avesse ancora raggiunto la propria aula. O forse non immaginava che uno studente stesse lì, a guardarlo fisso...
Io mi chiusi istintivamente tra le spalle, sentendomi a disagio. Più per avermi sorpreso a guardarlo che per altro.
– Ehi, tu – mi chiamò, invitandomi con un cenno della mano ad avvicinarmi. – Perché non sei in classe? 

Ecco, lo sapevo. Domanda lecita, dopotutto.
Mi mordicchiai il labbro inferiore, sentendomi ancora più a disagio perché, oltre all'attenzione dell'uomo, avevo attirato anche quella della segretaria. E io detestavo essere al centro dell'attenzione.
– Beh, io... sono nuovo, qui. E... – mi tormentai le mani, rifuggendo lo sguardo dell'insegnante. – dovevo sapere dove andare, in effetti – ammisi. L'espressione era sconfortata, come se fosse un dilemma irrisolvibile. Inoltre credo che le mie gote s'imporporarono, come fosse un problema di cui vergognarsi.
Non osai alzare lo sguardo sull'uomo, almeno non finché non sentii una pacca paternale sulla spalla. Quando rialzai gli occhi, lo trovai a pochi passi da me; era decisamente più alto, mi sovrastava di almeno dieci buoni centimetri. Mi rilassai di fronte a quell'espressione amichevole. – Benvenuto in questa scuola, allora! 

Rimasi per un attimo in un silenzio imbarazzante – cercando le parole giuste. Provai a formulare una qualsiasi frase, per non sembrare ritardato. – Grazie. – Ecco, almeno questo sapevo dirlo.
– Qual è la tua sezione? – Mi domandò la segretaria, trafficando con dei fogli sul bancone, alla ricerca, probabilmente, dell'orario stabilito per ogni classe. E quante ve n'erano.
– D. – Risposi, semplicemente. E attesi che m'indicasse la via, ma non fu la donna a prender parola – bensì l'insegnante, facendomi riportare perciò l'attenzione su di lui.
– Oh! Ci sono io in seconda ora, puoi aspettare con me – mi propose, inclinando il capo di lato, un sorriso in volto, e aspettando mia conferma, che non tardò ad arrivare. Anche perché non avrei potuto comportarmi diversamente, non avrei potuto rifiutare neanche volendo.
– Va bene – dissi quindi, riportando poi lo sguardo a terra. Non serviva un esperto per capire la mia timidezza, e per questo mi vergognavo ancora di più.
– Bene. Beh, ho voglia di un caffè, mi accompagni al bar? – Neanche attese mia risposta, in effetti, perché mi sorpassò, diretto verso quel luogo. Io non potei far altro che assecondarlo, adattandomi poi – inconsciamente – anche al suo passo. Era in fondo al corridoio, dopo un'aula che scoprii in seguito essere la biblioteca.
Entrammo. Mi soffermai a guardare i vari cibi esposti, disponibili; nulla di troppo elaborato. Una serie di panini e di altri sfizi, soprattutto preconfezionati, come merendine, gomme o bastoncini di zucchero colorati. Ah, e cornetti – adocchiai quello al cioccolato, promettendomi di provarlo una volta a ricreazione.
– William? – chiamò il barista, alzandosi in punta di piedi, come per riuscire a scorgere meglio la sua figura. Egli sbucò fuori da una porta, dietro la quale solo Dio sapeva cosa ci fosse – forse la cucina –, e rivolse un largo sorriso verso il mio insegnante. Era basso, grasso, ma aveva quel viso paffutello che lo rendeva simpatico, salvandolo in calcio d'angolo e non facendolo apparire come uno di quei tipi nerboruti e maneschi.
– Ehi, Morgan. – Scoprii così il nome dell'uomo. – Come stiamo? 

– Come d'autunno sugli alberi le foglie – rispose in maniera enigmatica, che mi fece corrucciare. Cosa intendeva dire?
William rise, accantonando la questione con quella bassa risata che si disperse nell'aria.
– Allora, il solito caffè? – domandò, come fosse prassi. E probabilmente lo era.
– Sì. Niente è meglio di un caffè e una sigaretta – commentò.
Notai che il barista posò lo sguardo, infine, su di me, come se avesse notato solo in quel momento la mia presenza. – E lui? – gli chiese, come se io non esistessi.
– Oh, è nuovo. Lo faccio entrare con me, in seconda ora. Credo sia meglio anche per lui, almeno conosce un viso amico. 

Quel “viso amico” era lui?
– Capisco. Beh, tu vuoi qualcosa, ragazzo? 

Ero pronto a dire di “no”, perché non mi ero portato soldi quel giorno, quando l'insegnante – Morgan, mi precedette, posando una mano sulla mia spalla, con fare paternale e confidenziale. – Offro io. 
Allora ordinai. – Un cornetto. 

***

Morgan aveva finito in pochi sorsi il suo caffè, poi mi aveva invitato a seguirlo in cortile, dove si era acceso una sigaretta. Non ero particolarmente favorevole all'atto di fumare, ma, adesso che sapevo che era il mio insegnante, non volevo mi prendesse in antipatia. Non prima che dimostrassi di essere scarso a scuola, e non per mia volontà. Quindi lo lasciai fare, tentando di tossire il meno possibile e concentrando l'attenzione sul cornetto che tenevo ancora in mano. A conti fatti, era stato anche gentile, quell'insegnante.
Il tempo era passato in silenzio.
Il suo sguardo era volto verso il cielo, verso le nubi, rincorrendo chissà quali pensieri, fantasie.
Il mio, invece, qualche volta si era posato sulla sua figura, qualche altra volta, invece, in alto, verso l'azzurro cielo; ma il più delle volte era fisso sul cioccolato che strabordava dal cornetto.
Solo dopo diverso tempo, decisi di prendere parola, schiarendomi prima la gola.
– Signor...? – non conoscevo il suo cognome, e chiamarlo per nome mi sembrava troppo spavaldo, sgarbato.
– Castoldi. – rispose, guardando verso di me, incuriosito.
– Signor Castoldi, cosa insegna lei? – Il tono mi uscì probabilmente più interessato di quanto già non fossi – rivelando così una parte di me, la curiosità. Avrei preferito che apparisse atono, neutrale.
– Oh. – Sembrò sorpreso, ma poi si aprì in un sorriso. E quel sorriso fu... caloroso. Mi riscaldò. – Musica.
Annuii, assimilando quell'informazione. Poi, posi un'altra domanda. – Qual è il suo artista preferito? – Il tono, stavolta, fu incerto. Pensai che, se avesse risposto Beethoven, sarebbe stato troppo banale.
– Johann Sebastian Bach. Complessi da eseguire, i suoi brani, ma terribilmente affascinanti da ascoltare. Era un genio. 

Lo ascoltai con attenzione, osservandolo. Occhi negli occhi, verso un primo momento – e in quegli attimi quasi credetti che potesse leggermi dentro mille segreti, che avevo tenuto, trattenuto per me –, poi spostai il mio sguardo sui suoi capelli, come ricercandovi appiglio.
– Conosci le sue opere? – mi domandò, dopo un primo momento di silenzio che, tuttavia, non era stato fonte di disagio. Strano.
Indugiai un attimo; alcuni brani li avevo ascoltati, una o due volte, ma al momento non sembravo ricordarmeli*. Così – scossi il capo, quasi rammaricato, temendo in una sua delusione – ma così non fu. Almeno, non lo dimostrò apertamente – neanche tramite i gesti, il non-detto.
Si portò la sigaretta alle labbra, prendendone un tiro, poi lasciò che il fumo si dissolvesse in una piccola nuvola grigiastra. La osservò alzarsi in alto, verso le nubi, tracciandone il percorso con lo sguardo – poi, ritornò su di me.
– Se vuoi ti presto un CD musicale, con le opere più celebri. Basta che poi tu me lo ridia. – E la seconda frase la pronunciò con un pizzico di ironia, della quale non compresi il motivo.
– Non vorrei infastidirla... – cominciai, indeciso se accettare o meno.
Ma lui scosse il capo, con fare tranquillo, pacato. – Ma no, quale disturbo! 

Accennai un sorriso, per quella risposta, e abbassai lo sguardo verso il basso. Mentre il suo, un'altra volta, si perse tra le nuvole.
– Sai che c'è una leggenda, secondo la quale dalle nubi si può capire il destino delle persone? Principalmente da cosa le persone immaginano che siano. – Le indicò, come se quel gesto potesse dar man forte alle proprie parole.
Era un argomento tirato a caso, ma me ne interessai. 
Mi mordicchiai il labbro inferiore, perdendomi tra le nubi e le varie immagini che mi vennero in mente. – Lei cosa vede in quella nuvola? – Ne indicai una a caso, ma lui parve particolarmente attento, nel seguire il mio dito. E quella premura mi riscaldò – sembrò tenerci.
– Mh, in quella? Immagino sia un gatto, che si lecca i baffi dopo aver finito di mangiare una scatola di umido. – Il tono era divertito.
– E questo cosa significa? Cosa accadrà nel suo destino? – domandai invece io, serio.
– Oh, non so, magari darò finalmente da mangiare a Bach. – L'ironia non mancò neanche stavolta.
Anche io, mio malgrado, mi ritrovai ad alzare gli angoli delle labbra verso l'alto. Immaginandomi un micio tutto nero. Quanto ne avrei voluto avere uno. E ritrovandomi a pensare che quel gatto si era chiamato “Bach” per passione del padrone. Come le ragazzine, che chiamavano il cane “Zayn” o “Sherlock”*.
Suonò la campanella, distogliendoci dai pensieri nei quali ci eravamo entrambi persi – cercai il mio insegnante con lo sguardo, aspettando che si muovesse, che mi desse indicazioni. Cosa che non tardò a fare, muovendo alcuni passi in avanti, verso l'entrata. – Seguimi.





Angolo dell'autrice.
... io lo so che mi odiate (?) perché non ho continuato più "Amandoti", ma... la verità è che non so come continuare quella storia. L'ispirazione, per il momento, non sembra presentarsi. ;^;
Per quanto riguarda questa nuova FanFiction, no, non farò in modo di pubblicare regolarmente una data precisa, tipo "ogni lunedì", "ogni venerdì" et simila. Semplicemente perché... non mi piace rispettare date di scadenza. Voglio scrivere quando voglio, come voglio e perché voglio. E quegli appuntamenti - a meno che non abbia capitoli pronti - mi sembrano... quasi una "costrizione". Non mi piace, in realtà. Quindi non so quanti capitoli farò di questa storia, non so se si fermerà ai primi tre, se continuerà fino ai dieci, addirittura fino ai venti. Non so se ci metterò un mese, due mesi, tra un capitolo e l'altro. Però... lo faccio per divertimento. Non ci ricavo nulla - se non la vostra compagnia, il condividere le mie idee con voi. Ecco perché l'ho postata, nonostante tutto. Voglio sapere cosa ne pensate, discutere con voi. Sempre se recensirete. ( fatelo, su, non sono poi così una cattiva persona ; ; /? )
E... mah, ecco, volevo dire questo.
VE LO IMMAGINATE MORGAN COME INSEGNANTE? Io vorrei averlo, sinceramente. ; ; ( Ma lui è già un maestro di vita, in realtà, per me. #anyway.~ )

Al prossimo aggiornamento!

*No, il riferimento a Sherlock BBC non è casuale. ;u;

   
 
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