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Autore: ranyare    01/04/2015    4 recensioni
"It's everything you wanted, it's everything you don't
It's one door swinging open and one door swinging closed
Some prayers find an answer, some prayers never know
We're holding on and letting go
"
Ben e Ray vivono nella loro adorata Londra, finalmente sereni. Lei studia per diventare un poliziotto, lui si sta affermando ad ogni ruolo di più come l'attore fantastico che è. Eppure, in un piovoso pomeriggio di metà estate, un passato che non ha più intenzione di essere ignorato bussa alla loro porta, ricordando ad entrambi che è impossibile fuggire da ciò che ci ha reso ciò che siamo.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Wicked & Humorous Tales'
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base capitoli HOLG

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[Ray]

Londra in estate è una delle cose più irritanti di questo mondo.

Non che io non adori questa città in ogni singolo giorno dell'anno, ma... insomma, è proprio necessario che sia tutto sempre così umido!?

D'accordo, va bene, non c'è caldo e questo è un essenziale punto a favore, ma... dannazione, non c'è un giorno in cui non piova o, peggio ancora, in cui non ci sia questa dannata umidità che ti infradicia i vestiti e ti si appiccica alla pelle, rendendo difficoltoso persino il respiro.

Sospiro, riemergendo dalla mia enorme borsa con in pugno – dopo almeno cinque minuti di forsennata ricerca – le chiavi di casa. Lancio un'occhiata al vialetto laterale e vedo l'auto di Ben parcheggiata al solito posto, accanto alla moto che, dato che oggi sembrava essere una bella giornata, avevo deciso di non utilizzare, preferendo andare al corso in metropolitana... e, ovviamente, la bella giornata è diventata una giornata di pioggerelline e continue schiarite, col risultato di rendere ancora più difficoltosa la mia traversata della città e intasata di persone la metro.

Le lezioni che sto seguendo sono interessanti e meritano lo sforzo, è vero, ma le trecento ore di corso che devo seguire su tutto ciò che un bobby – un rinomato membro della Metropolitan Police Service, meglio conosciuta come Scotland Yard – dovrebbe sapere stanno diventando eterne.

Mi infilo in casa con un gemito di sollievo: l'aria condizionata e deumidificata mi accoglie in una bolla dove, finalmente, riesco a riempirmi i polmoni senza l'impressione di star respirando attraverso una spugna bagnata.

-Ben? Sei a casa?- chiamo, abbandonando disordinatamente la borsa, la felpa madida di pioggia e le scarpe nell'ingresso.

-Sì.-

Qualcosa non va.

Vivendo al suo fianco tanto a lungo ho imparato a riconoscere ogni singola sfumatura della voce di Ben, ogni inflessione del suo accento ricercato, ogni traccia di turbamento nelle sue parole... e, in quel “”, c'era una tensione tale da far irrigidire ogni singolo muscolo del mio corpo, improvvisamente pronto a scattare o, per quanto ne so, a ricevere un colpo.

Ben appare sulla soglia del salotto e, nel suo volto, riesco a riconoscere il medesimo nervosismo che ho ravvisato nella sua risposta.

-Abbiamo un ospite.- mi annuncia, rivolgendomi uno strano sguardo dispiaciuto che non riesco proprio a comprendere. Chi mai potrebbe essere venuto a casa nostra per ridurre Ben in questo stato?

-Chi...- comincio, avvicinandomi a lui per sbirciare oltre la sua spalla; ma, per appena un istante, Ben mi trattiene contro di sé, quasi come se volesse impedirmi di capire, di vedere – per proteggermi, realizzo, nello stesso attimo in cui il volto di una persona che non ho mai potuto dimenticare si presenta davanti a me.

Mi sembra che il tempo rallenti e si fermi in questo preciso momento, nel secondo stesso in cui i miei occhi incrociano quelli dell'uomo di mezz'età rigidamente seduto sul divano.

Tutto si blocca come per un qualche sadico gioco di magia, congelandosi in quella faccia, in quella persona, nelle rughe di preoccupazione che gli solcano la fronte e le guance.

-Papà.-

Questa parola sembra così sbagliata, sulle mie labbra... la sento stridere fra i denti, sulla lingua, e ne avverto il saporaccio metallico – lo stesso sapore che ha il sangue.

-Ciao, Ray.- anche il mio nome sembra strano, detto da lui. Non lo sentivo da almeno quattro anni.

Mio padre si alza e, stranamente, mi sembra meno alto e imponente di quanto fossi in grado di ricordare, ma forse sono io ad essere cresciuta. Ho ereditato da lui la mia altezza fuori dalla media femminile, la forma degli occhi, il colore dei capelli... eppure, nonostante le somiglianze fra noi, lui mi sembra talmente alieno – qui, in casa mia, nel mio salotto, sul mio divano – da stridere con tutto ciò che lo circonda – da stridere con me.

-Sei__- comincia, incerto, ma io scosto bruscamente Ben e faccio un passo avanti, senza nemmeno accorgermi delle sue dita che mi sfiorano le braccia e poi scivolano via, rinunciando anche soltanto all'idea di trattenermi.

-Viva.- lo interrompo, avvertendo il familiare brivido freddo che preannuncia un'incazzatura spettacolare scorrermi dal collo alla base della schiena. -E non certo per merito tuo.- aggiungo, cercando di mantenermi calma e controllata nonostante io senta le mani tremare dalla rabbia.

Todd Cooper si passa una mano fra gli ormai radi capelli bianchi, a disagio.

-Ray, sono qui per__-

-Non mi interessa.- sbotto, piantando le unghie nei palmi delle mani per tentare di arginare il gelo che mi sta riempiendo l'anima, annegandomi in un mare di ricordi che speravo di aver represso abbastanza in fondo perché non tornassero più a tormentarmi.

-Lascia che__-

Qualcosa si spezza nello stesso attimo in cui vedo la supplica nei suoi occhi.

-Non voglio ascoltarti.- il tocco di Ben – freddo al confronto con la mia pelle che scotta, ma bollente rispetto al ghiaccio che mi sta divorando dentro – mi fa capire di aver rivolto a mio padre qualcosa che assomiglia più ad un ringhio che ad un tono normale. -Puoi anche andartene, perché non ho nemmeno nulla da dirti.-

Tutto ciò che avrei potuto dirgli è morto, dentro di me, troppi anni fa.

-Ray...- mormora, ma non capisce che continuare a dire il mio nome non fa altro che farmi infuriare sempre di più: quale diritto ha, lui, di parlarmi, di guardarmi, di chiamarmi con quel nome che speravo avesse dimenticato!? -...mi dispiace.-

Ben mi serra la mano sulla spalla nel momento stesso in cui sento gli argini in cui stavo cercando di trattenere la mia rabbia, il mio dolore, spaccarsi.

-Ti dispiace?- sibilo, liberandomi bruscamente dal tocco di Ben e avanzando verso mio padre fino a trovarmi ad un soffio da lui; è ancora più alto di me, di almeno una spanna, ma non mi intimorisce più – ha smesso di intimorirmi da molto, molto tempo. -A te dispiace, papà?-

-Avrei dovuto cercarti molto tempo fa, solo che__-

Non ci vedo più.

-Tu saresti dovuto venire a prendermi quando lei mi ha cacciata via!- mi rendo conto di aver urlato solo quando lo vedo tremare sotto il peso delle mie parole.

Sarebbe dovuto venire a prendermi. Avrebbe dovuto proteggermi.

-Saresti dovuto venire quella sera e invece no, tu sei rimasto là, tu mi hai lasciata sola e ora vieni qui con la faccia tosta di volermi porgere le tue scuse?-

Avrebbe dovuto salvarmi. Avrebbe dovuto.

-Ra__-

-Io ti ho aspettato, quella sera. Ti ho aspettato per tutta la notte, seduta su quella pensilina, mentre sentivo l'umidità arrivarmi fino alle ossa.- per la prima volta nella mia vita desidero ardentemente fare del male a qualcuno – a lui. Gli punto l'indice contro il petto, stringendo le labbra e assottigliando le palpebre. -Io speravo che tu mi proteggessi, papà, che risolvessi le cose. E invece non sei venuto.-

Invece mi ha abbandonata.

-Quando ho visto l'alba, dopo tutte quelle ore, ho capito che non saresti arrivato. E mi sono arrangiata.-

Invece mi ha lasciata sola.

La rabbia scema nello stesso momento in cui la sua espressione sembra spaccarsi a metà, ridursi in briciole: nonostante tutto, nonostante io sappia che lui merita tutto questo, continua a non piacermi fare del male. Non a qualcuno a cui ho voluto bene. -Ora, per favore, vattene.- sospiro, lasciando cadere il braccio lungo il fianco e voltandomi – perché non posso più sopportare di guardarlo, di vedere il mio passato scritto in quello sguardo pieno di senso di colpa.

-Non vuoi nemmeno sapere perché sono venuto qui?- mi chiede, ma quando lo sento fare un passo verso di me mi ritraggo come se avessi ricevuto uno schiaffo.

-A meno che non riguardi mia sorella, no.-

Posso quasi vedere Ben trasalire: lui non sapeva che io avessi una sorella. Anzi, a dir la verità lui non sapeva nemmeno che io avessi ancora un padre... -Shirley sta bene?- chiedo, stancamente, allontanandomi ancora e accostandomi alla finestra: ha ricominciato a piovere.

-Sì.- quella risposta è tutto ciò che mi basta per sentire la morsa rilasciare un poco la sua presa sul mio cuore.

-Bene. Fuori.-

Questa volta, per fortuna, mio padre mi dà retta e se ne va, lasciandomi sola con Ben e con dei demoni che credevo di aver seppellito dentro di me.

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[Ben]

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Il silenzio cala come una cappa di fumo nello stesso momento in cui la porta si richiude dietro la figura piegata dal dolore di Todd Cooper.

Non so come sentirmi nei confronti di quell'uomo: vedere una persona in quel modo non è un bello spettacolo, e scorgere il tormento che lo ha dilaniato ogni volta che ha guardato sua figlia in faccia mi renderebbe molto più partecipe e solidale nei suoi confronti – se solo sua figlia non fosse Ray.

Ray è una delle persone più pazienti che abbia mai conosciuto, nonostante il suo carattere focoso. È raro che alzi la voce, che si arrabbi tanto da tremare, che esploda così come ha fatto pochi istanti fa: è questo, più delle parole piene di sofferenza che ha sputato in faccia a suo padre, a confondermi e a trattenere la compassione che, se non fosse coinvolta lei, proverei di certo per il signor Cooper.

Torno in salotto in tempo per vederla accucciarsi, come un animale braccato, nel suo angolo preferito del divano: stringe le braccia intorno alle ginocchia e fissa il nulla davanti a lei con gli occhi spalancati, vitrei.

-Non ho fatto in tempo ad avvertirti.- mormoro, col cuore pieno d'angoscia nel riconoscere quell'atteggiamento che ho già visto, in lei – che avevo sperato, dopo la lunga convalescenza che ha attraversato dopo l'incidente d'auto, di non rivedere mai più sul volto della donna che amo.

-Non è colpa tua.- mormora, talmente piano che debbo avvicinarmi a lei per sentire le sue flebili parole.

Mi spaventa questa sua voce sottile, vacua. Ray non permetterebbe mai alla creaturina lacerata e traumatizzata che ho davanti agli occhi di prendere il sopravvento sul suo carattere energico, sulla sua intensa voglia di vivere – non vorrebbe che la ragazzina spezzata che è stata riaffiorasse in questo modo, sfuggendo alle maglie del suo autocontrollo.

-Non è stato un bello spettacolo, vero?- mi chiede quando mi siedo accanto a lei senza, però, sfiorarla, rispettando il suo bisogno di spazio.

-Direi che “illuminante” sia il termine adatto.- la correggo, e lei annuisce in risposta, debolmente.

La conosco abbastanza bene da sapere che cos'è che il suo sguardo vuoto mi sta silenziosamente chiedendo: se la lasciassi in pace, se non insistessi per sapere che cosa è successo fra lei, suo padre e probabilmente la sua intera famiglia, Ray si chiuderebbe in se stessa e lascerebbe che il tormento la divorasse da dentro, strappandole ogni oncia di serenità fino a lasciare, di lei, solamente un guscio vuoto.

Vuole parlare, io lo so... ma so anche che ogni fibra del suo autocontrollo sta lottando, adesso, per tornare a schiacciare i ricordi ed il passato sul fondo di quel pozzo infinito che è la sua anima, complessa e splendente in tutti i suoi rattoppi, le sue cuciture, i suoi rammendi.

-Ray, io ti ho raccontato molte cose sul mio passato. Ti ho raccontato di Tamsin, ti ho raccontato della scuola, dei miei genitori, del college.- comincio, con tutta la delicatezza e il savoir faire di cui sono in possesso: so che, se esagerassi appena un poco di più, Ray si rifugerebbe in se stessa, spaventata anche solo dal pensiero di aprirsi. -Tu, invece, sembri essere nata nel momento in cui ti ho incontrata in quel locale.- aggiungo, dolcemente, allungando con cautela una mano per sfiorarle un ricciolo che, dispettoso, è sfuggito alla coda disordinata in cui raccoglie i capelli d'estate.

-Non volevo raccontarti nulla del mio passato.- mugugna, allungandosi un poco per cercare il tocco delle mie dita, socchiudendo gli occhi quando le accarezzo una tempia. -Non fa più parte di me da molto tempo.-

-Permettimi di dissentire.- scuoto la testa, inarcando un sopracciglio in risposta alla sua espressione perplessa. -Vedere tuo padre ti ha ridotta in briciole.-

La bellezza del rapporto che Ray ed io abbiamo costruito, negli anni, permette ad entrambi di essere sinceri e diretti come, credo, non siamo mai stati nei confronti di nessun altro: è una sensazione incredibilmente rassicurante quella che trasmette la consapevolezza che, nella tua vita, esiste una persona davanti a cui non devi fingere mai nulla, con cui puoi essere semplicemente te stesso, con cui non devi soppesare le parole per timore di essere frainteso.

-Già.- sbuffa, roteando gli occhi verso il soffitto prima che, con uno di quei movimenti fluidi ma repentini che ho imparato ad aspettarmi, si sciolga dalla rigida posizione in cui si era raccolta per accostarsi a me, rifugiandosi fra le mie braccia.

Il sollievo che provo nel poterla stringere finalmente a me dev'essere pari solo a quello che, a giudicare dal profondo respiro che la sento prendere, a pieni polmoni, sta probabilmente provando anche la mia Ray, che si rilassa fra le mie braccia mentre King, che era fuggito a nascondersi sotto il letto – non apprezza gli ospiti, proprio come la sua mamma umana –, ci raggiunge e salta sul divano, appoggiando la testolina bionda sulla coscia di Ray fino a che lei non si allunga per grattarlo dietro un orecchio.

-Presumo di doverti una spiegazione.- mugugna lei, dopo un po', sfregando il viso sulla mia maglietta. Scuoto la testa, chinandomi per baciarla sulla fronte.

-Tu non mi devi né mi dovrai mai nulla, Ray.-

___

-Fuori da casa mia!-

La voce di mia madre è piena d’odio, di rabbia, di rancore. Per l’ennesima volta provo a ricordarmi che non è lei che parla, è la sua malattia, è il dolore che la attanaglia, ma… non ci riesco più.

Il veleno nelle sue parole mi penetra le orecchie ed il cervello, trafiggendomi e piantandosi lì, da dove non credo riuscirò più ad estrarlo.

-Non la voglio una puttana in casa mia!-

Non so bene dove la vedi la puttana in me, mamma, ma non fa niente. Ho smesso di cercare una spiegazione ai tuoi insulti senza senso, al tuo odio senza ragione, alla tua rabbia immotivata.

Tu, papà, non dici niente.

Ti limiti a tenerla indietro per evitare che si scagli su di me o, più probabilmente, si faccia del male da sola nel tentativo di picchiare me. Sento mia sorella piangere, al piano di sopra, e mi strazia il cuore il pensiero di doverla lasciare qui…

-Fuori! Prendi le tue stronzate e vattene da qui!-

Mia madre mi tira addosso libri, vestiti, scarpe. Con le lacrime che mi rigano le guance, costringendomi però a rimanere in silenzio, ficco tutto il possibile in uno zaino, ripromettendomi di venire a prendere il resto non appena lei sarà fuori di casa; in un lampo di lucidità, infatti, ho infilato anche le chiavi della porta sul retro sotto tutto il resto, e lei non se n'è accorta.

-Non voglio più vederti!-

per la prima volta da tanto tempo, mamma, sono d’accordo con te.

Eppure vorrei non andarmene, vorrei restare e prenderti a calci perché davvero non se ne può più di te, del tuo odio che riversi sull’unica persona che non è più disposta ad essere il tuo scorticatoio morale e che, per questo, nella tua distorta visione del mondo va allontanata e cancellata al più presto per riportare la tua supremazia al predominio incontrastato.

Vorrei restare, vorrei lottare per la bambina che ho cresciuto come se fosse mia mentre tu facevi carriera e, dopo, mentre ti lasciavi sprofondare nella malattia che covi dentro da chissà quanto tempo, ma ho solamente sedici anni e non posso portarla via con me. Non esiste legge che me lo permetterebbe.

Vorrei almeno riuscire a dirle addio, ad abbracciarla un’ultima volta.

Ma tu non me lo permetti. Mi spingi fuori di casa con veemenza, ignorando le urla di quel padre che solamente ora sta cercando di rimediare ad un danno che non può più essere aggiustato, ed io cado per terra, scorticandomi le ginocchia ed i palmi delle mani.

Vorrei restare, mamma, ma non posso farlo.

Se tu ci fossi ancora, là dentro, da qualche parte in quel cancro di rabbia e di sofferenza che ti è cresciuto nell’anima e ti ha divorata, rimarrei. Lotterei per avere indietro la mia mamma, fino all’ultimo.

Ma tu non ci sei più, mi dico, mentre mi rialzo e mi allontano lungo il vialetto di quella che non è più casa mia.

Non ci sei più.

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-Mia madre era malata.-

Rimango in silenzio, cercando d'impedire che il mio intero corpo s'irrigidisca per la tensione che sento scuotermi dentro mentre Ray continua a raccontare, incapace di fermarsi, incapace di trattenere i ricordi che, come il contenuto del vaso di Pandora, una volta liberi d'imperversare sembrano impossibili da rinchiudere una seconda volta.

-Ha cominciato a soffrire di depressione quando aveva appena otto anni ed aveva appena iniziato un ciclo di chemioterapia...- sospira, e sento la sua voce incrinarsi e riempirsi di malinconia e di una densa, pesante ironia che probabilmente, una volta, è stata rancore. -...certo, questo non significa che avesse il diritto di ridurre anche me e mia sorella in quello stato.-

-Quanti anni ha?- le domando, accarezzando lentamente la pelle morbida del suo braccio. -Shirley.- preciso, in risposta alla sua espressione confusa; lei sorride, mesta, abbassando lo sguardo.

-Ne farà quindici il mese prossimo.-

La tenerezza che vedo lampeggiare nello sguardo di Ray mi stringe il cuore: non mi ha mai parlato di sua sorella, non mi ha mai nemmeno detto di avere una sorella, ma la dolcezza e l'affetto che traspare dalle sue parole e dai suoi gesti quando si riferisce a lei sono quasi palpabili.

Chissà quanto le manca.

Sono molto affezionato a mio fratello Jack: siamo cresciuti insieme e non saprei immaginare la mia vita senza di lui... non voglio nemmeno provare ad immaginare la sofferenza che Ray ha provato, e probabilmente prova tuttora, nell'essere tanto lontana dalla sua sorellina.

-Le scrivo tutte le settimane e lei mi risponde dopo appena un'ora al massimo, mi scrive delle mail lunghissime per raccontarmi tutto quello che le succede e tutti i pensieri che le girano in testa...- sorride lievemente e tira su col naso, stringendosi ancor di più a me. -Aveva undici anni quando mia madre mi ha cacciata.- aggiunge, cupa, abbassando lo sguardo.

Istintivamente la stringo ancora più forte, perché i pezzi in cui si sta riducendo nel parlare di tutto questo hanno bisogno di essere tenuti insieme – e lo sa anche lei, perché si arrotola contro il mio petto e appoggia la fronte nell'incavo della mia spalla, respirando diverse volte per recuperare l'autocontrollo.

-Perché lo ha fatto?- le chiedo, infine, quando sento il suo corpo rilassarsi un poco.

-Ufficialmente, perché volevo uscire con un ragazzo.- risponde, con uno sbuffo che vorrebbe essere divertito ma che, ai miei occhi, appare soltanto infinitamente triste. -Avevo sedici anni e un ragazzo mi aveva invitata ad uscire con lui, era un ragazzo gentile e molto timido, voleva solo offrirmi un cinema e una pizza...- si rannicchia un po' di più, nascondendo il viso fra le ginocchia e lasciando che solo la sua arruffata massa di riccioli biondi e i suoi occhi blu spuntino da sopra le sue braccia incrociate. -Non riesco nemmeno più ad odiarla, ora. Se ripenso a come si era ridotta provo solo una gran pena...-

Annuisco, capendo il significato delle sue parole: i miei genitori mi hanno insegnato a non odiare nessuno, per quanto male gli altri possano fare, perché nove volte su dieci il dolore che infliggono non è che una minima parte di ciò che hanno subito loro... tuttavia, nonostante questa mia convinzione, so che per Ray dev'essere stato difficile lasciar andare il livore che ha sicuramente provato nei confronti di sua madre.

-Invece sei ancora arrabbiata con tuo padre.-

-Oh, sì.- annuisce, e la rabbia lampeggia nuovamente fra le sue parole e nei suoi occhi. -Lui è un vigliacco.-

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-Papà?-

La mia voce trema mentre serro le dita sulla cornetta del telefono pubblico – incredibile eppure vero, esistono ancora i telefoni pubblici –, spaventata all'idea che non sia mio padre ad aver risposto al telefono o, ancora peggio, che sia lui ma che non abbia intenzione di parlare con me.

-Ray!- il sollievo che mi riempie quando sento l'esclamazione rasserenata di mio padre è enorme. -Stai bene? Dove sei?-

-Sono... alla fermata degli autobus. Papà...-

Non devo piangere, non devo piangere, non devo piangere. No, no, no, respira, prendi fiato, calmati e stai tranquilla: andrà tutto bene. Papà sistemerà le cose, ha sempre sistemato le cose, vedrai che andrà tutto bene... non piangere, Ray.

-...papà, vieni a prendermi.-

-Arrivo appena posso.-

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-E non è mai arrivato?- le chiedo, ma conosco già la risposta.

-Mai.-

Come può, un padre, fare una cosa del genere ad una figlia?

Non sono un illuso, so che sono fin troppe le cronache di padri violenti che abusano delle figlie, di genitori senza un briciolo di moralità che le sfruttano, le maltrattano e, purtroppo, le uccidono... ma ciò che mi sta raccontando Ray è comunque inconcepibile, perché sono cresciuto in una famiglia in cui tutti mi hanno sempre amato e incoraggiato a diventare la persona migliore che io potessi essere: per me è difficile, se non quasi impossibile, pensare a come dev'essere stato essere seduti là, alla fermata di un autobus, aspettando un padre che non era mai arrivato.

-Passai la notte all'addiaccio. Era primavera, ma di notte faceva ancora molto freddo... a volte mi sento ancora quel gelo dentro.- continua, e rabbrividisce nonostante l'afa estiva che permea l'aria – ecco perché odia così tanto sentirsi l'umidità addosso, realizzo.

-Al mattino, quando riuscii a smettere di piangere, presi il primo autobus e andai da mia nonna. Le spiegai che cosa era successo e lei mi disse che dovevo andare via, che dovevo scappare ora che ne avevo la possibilità. Io però non volevo lasciare Shirley in balia di mia madre...- la voce di Ray scema e muore nello stesso momento in cui i suoi pugni si serrano.

-Così chiamai i servizi sociali.-

Il tono incolore con cui pronuncia queste poche parole mi fa accapponare la pelle.

Dev'essere stato orrendo, per Ray, affrontare la consapevolezza di aver strappato sua sorella ai genitori, di aver sicuramente ferito quel padre e quella madre che, in fondo, aveva amato, di aver probabilmente traumatizzato quella bambina che stava solo cercando di proteggere...

-Portarono via mia sorella due giorni dopo che io avevo lasciato quella casa.- prosegue, animata da un'urgenza febbrile che posso spiegarmi solo con un bruciante desiderio di buttare fuori tutto, di liberarsi di quel fardello che ha portato nascosto dentro di sé per tanti anni – sa che nulla di ciò che mi sta dicendo mi farà mai cambiare opinione su di lei, ma sbaglia: la stima che provo nei suoi confronti è appena aumentata considerevolmente.

A sedici anni Ray ha compiuto una scelta difficile e drammatica, che la maggior parte degli adulti prega, in segreto, di non dover mai affrontare... ed è stata l'unica scelta possibile per assicurare a sua sorella Shirley un futuro sereno.

-La affidarono alla nonna, diffidando mia madre dall'avvicinarsi... io però non potevo restare lì.- ammette, ed un sorriso triste le si disegna in volto. -Io non ero sotto la tutela di nessuno, non__-

-Perché?- la interrompo, perplesso, ma qualcosa mi dice che potrei già conoscere anche questa risposta. -Perché non hai chiesto il loro aiuto?-

Ray mi rivolge quella che vorrebbe essere una smorfia divertita ma che, purtroppo, assomiglia molto di più all'espressione perennemente contratta ed angosciata di un veterano di guerra... ed un veterano lei lo è davvero, realizzo, perché la battaglia che ha combattuto – contro sua madre, contro se stessa – le ha lasciato dentro molte più cicatrici di quante se ne possano contare.

-Volevo andare via.- afferma, semplicemente, e c'è talmente tanta tristezza in quelle sillabe che anche King, che è rimasto silenzioso e fermo fino ad ora, si rianima per avvicinarsi a noi, sfregando la testa contro il fianco di Ray per confortarla, per trasmetterle tutto l'amore che prova nei suoi confronti.

-Amavo mia madre, nonostante tutto. Sapevo che non sarei stata in grado di stare lontana da lei se fossi rimasta in città, sapevo che sarebbe tornato tutto come prima... ma avevo fatto un passo troppo grande nel toglierle mia sorella e sapevo che mi avrebbe solamente odiata e, probabilmente, fatto anche del male.-

La calma con cui Ray pronuncia queste frasi è agghiacciante.

Mi accorgo di averla quasi soffocata nella mia stretta quando lei, comprensiva, mi accarezza il dorso di una mano e intreccia le dita alle mie, che si sono serrate sulla sua spalla con tanta forza da far sbiancare le nocche.

Non riesco ad affrontare l'idea che qualcuno – sua madre! possa aver desiderato di farle del male. Non posso, è più forte di me: soltanto il pensiero mi manda il sangue agli occhi, mi offusca la vista, e la rabbia mi allaga i pensieri annebbiando il mio giudizio.

Ray, che di sicuro ha capito cosa mi stia passando per la testa, scuote i riccioli e si sporge per lasciarmi un soffice bacio sul mento irruvidito dalla barba.

-Mia nonna, quando avevo dieci anni, mi regalò un corso di scherma per principianti... io ne feci una passione e, più tardi, un vero e proprio talento.- continua, sapendo che solo la sua voce ed il suo racconto potranno distogliermi dall'orrida consapevolezza che la sua stessa madre, la donna che avrebbe dovuto amarla e proteggerla da ogni bruttura, abbia desiderato di ferirla e di vendicarsi per un affronto che, in realtà, non è mai esistito. -Il mio insegnante era un amico di nonna e lei mi riferì che di lì a qualche mese ci sarebbe stato un concorso per un posto di apprendista a New York in una palestra in cui insegnano tuttora la scherma e le arti marziali agli attori famosi.-

Ray riesce nel suo intento di distrarmi, me ne accorgo nello stesso momento in cui ricollego i fatti di cui mi sta parlando e quelli di cui, invece, ero già a conoscenza: Ray ha conosciuto Will proprio durante l'allenamento del suddetto biondo a New York, nella pausa fra i due film di Narnia...

-Era l'unica possibilità che avevo.- ammette, ed una luce conosciuta rianima quegli occhi blu che tanto adoro.

-Mia nonna mi diede tutto quello che aveva e mi raccomandò di stare attenta. Abbracciai mia sorella e presi il primo autobus per New York.-

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My space

Salve a tutti!

L'avevo detto o no che sarei tornata su questa coppia e su questa storia? Ed eccomi qui, con una mini-long che durerà 4 capitoli contati (che sono già scritti, quindi non temete, gli aggiornamenti saranno regolari e sicuri!) e che, finalmente, mostrerà ai lettori e al povero Ben quello che Ray ha attraversato prima, in America, quando ha conosciuto William.

In questo primo capitolo possiamo vedere una sedicenne Ray molto diversa da quella che abbiamo conosciuto nelle precedenti storie che ho scritto su di lei: a sedici anni si è turbolenti, inquieti e si ha la testa calda, ed è così che lei si comporta: scappa da una situazione familiare molto difficile e si butta in un'avventura assurda e senza garanzie di successo, fuggendo da una vita che non le appartiene per poter cercare un posto dove imparare ad essere libera. Chi non l'ha desiderato, a sedici anni, di fuggire? Vi confesso che io ci penso anche adesso, a volte.

Spero che questo progetto vi entusiasmi come ha entusiasmato, emozionato e fatto soffrire anche me. Devo dire che tengo molto a questi quattro capitoli, e il finale sarà una gradita sorpresa un po' per tutti, spero :)

Questa storia è ambientata nel 2010, mentre Ben stava per cominciare a lavorare per Killing Bono. Ho fatto una faticaccia immane per far quadrare i conti temporali, sappiatelo. Ed è tutta colpa di Ben che non sta mai buono.

Mi sono presa una piccola licenza poetica: William Moseley non ha seguito i corsi di scherma (e di recitazione) a New York ma a Los Angeles, dove attualmente risiede. I bobby sono i poliziotti inglesi e le informazioni che ho citato nel capitolo, relative alle modalità di entrata in questo corpo di polizia, sono state prese da Google. Il titolo e la citazione presente nell'introduzione della storia vengono dalla canzone Holding on and letting go di Ross Copperman., mentre il titolo del capitolo è quello dell'omonima canzone degli Imagine Dragons, Lost cause.

Questa è la tabella degli aggiornamenti: sarò puntualissima, promesso.

NB: per chi segue "Leggi per me", ho avuto qualche problema con il capitolo VI ma, promesso, arriverà in tempi brevi anche quello!

CAPITOLO DATA
I. Lost Cause 01/04/2015
II. Kiss the rain 11/04/2015
III. Broken 23/04/2015
IV. Let it go 05/05/2015

E niente, ho finito di sproloquiare! Spero vogliate farmi sapere che cosa ne pensate :)

Un grandissimo saluto,

B

   
 
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