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Autore: moonwhisper    20/12/2008    2 recensioni
Un rantolo sommesso le passa tra i denti, ed è come ascoltare un albero secolare spezzarsi in due, colpito da un fulmine.
Ma gli occhi. Gli occhi mi segano a metà.
Si coprono di un velo di lacrime, e sono tanto profondi da cascarci dentro e non riemergerne più.
E’ come affacciarsi su un buco nero. Sull’inconcepibile immensità del vuoto.
E cado dentro il nulla.
Mi ingoia, interamente.
E qui, dentro di lei, la sento parlare.
Il suo cuore pulsa violento, accanto al mio.
E siamo lo stesso ventre, lo stesso dolore.
Genere: Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Così sei arrivato a chiedermi perché, vero? Sei arrivato a chiedermi perché… -

Ha gli occhi troppo grandi. Espressivi come quelli di un bambino. Occhi pericolosi. Quegli occhi che quando sente qualcosa, basta che ti guardi e lo stesso suo sentimento ti invade. Ti si abbatte addosso con violenza, soffocandoti. Lei deve esserne consapevole, perché appena un tremito le scuote le spalle, come fossero ali di una farfalla morente, abbassa lo sguardo e sprofonda in un buio sconosciuto.

- Siediti, non riesco a guardarti in viso – mormora con quella sua voce roca. Obbedisco rigidamente. Scosto la sedia dal tavolo circolare, e prendo posto, lentamente, quasi imbarazzato. Un imbarazzo che puzza di paura. Chissà se anche lei riesce a percepire quest’odore di bruciato.

Sollevo la testa, ma non la guardo, non ancora. Ho bisogno di respirare un po’ d’aria, sapere di avere i polmoni pieni, di riuscire a controllare il battito del cuore.

Sono venuto per avere una risposta, ma la temo. Mi sono preparato per vent’anni, ma non è servito a nulla. Adesso essere qui è come fingere di aver raggiunto una meta.

Oltre lei, oltre questo suo mondo oscuro e nascosto, c’è una finestra. La tapparella abbassata a metà, e fuori il sole accecante sui muri bianchi delle case. La vita che palpita nelle vie strette del centro storico, l’odore di sudore dei manovali che lavorano nel cantiere qui accanto, i capelli candidi di una vecchietta seduta fuori dalla porta minuscola della sua casa. Un altro universo. Lontano. Lontano da lei, che è lontana da qui. Ancora un istante perso ad osservare la tenda bianca muoversi appena. E sento il terrore scivolarmi in gola assieme alla saliva che butto giù, in un colpo solo. Sudore freddo lungo la schiena.

Lei ha i capelli neri, disordinati. Le ricadono sulle braccia in lunghi tentacoli, la accarezzano la pelle con le punte ondulate. Quando si accorge che finalmente la guardo abbassa di nuovo gli occhi, avvicina con un gesto incerto il posacenere a se ed accende la sigaretta con cui ha giocato distrattamente fino ad ora, rigirandosela tra le dita magre. Le tremano un po’ le mani ed anche solo ad accorgermene sento un pugno nello stomaco.

Una sottile linea di fumo si leva, perdendosi nel silenzio.

- Cos’è che posso dirti? Vuoi sapere com’è stata la mia vita? Com’è la mia vita adesso? E di che aiuto ti sarebbe? – una domanda dopo l’altra, con la voce tenuta bassa, per controllarla meglio – Troppi punti interrogativi, vero? – aggiunge un secondo dopo, senza darmi il tempo di rispondere. Accenna una risatina amara che le raschia la gola.

- Forse ho aspettato questo momento per troppo tempo. E perdonami se questo rancore che ho dentro ti spaventerà, ma non ho nient’altro da darti. Se speravi in parole di conforto, preghiere di perdono, suppongo tu sia giunto nel luogo sbagliato. Posso raccontarti solo quello che sono, e nulla di più. Non puoi chiedermi altro, lo capisci? –

Si interrompe. Fa un tiro. Si aggrappa alla sigaretta con un’insistenza disperata. E le sue mani non hanno ancora smesso di tremare.

- Ho tentato di costruirmi la parvenza di un futuro. Uno di quelli veri, sai. Quelli con un lavoro, e con una casa che non puzza di cadavere, come questa. Un futuro con un bambino da tenere per mano e da baciare sulle guance. Un uomo a cui donare quello che avevo. Vedi niente di tutto questo? Io no… credo di essere diventata cieca. Corri questo rischio, se vivi da reclusa. Le cose perdono i colori, ed anche gli odori alla fine sono sempre gli stessi. I sapori, poi, sono i primi a dissolversi. Fumo troppe sigarette, ma è tutto completamente inutile. Ne accendo una con il mozzicone dell’altra, e tutto così, fino alla notte, fino all’insonnia, fino alle occhiaie della mattina dopo. E discuto da me, piango da me, mi odio da me. Non credo esista donna più indipendente –

Ecco. Daccapo un tremito. E le ali che sbattono una contro l’altra, nell’ennesimo tentativo fallito di spiccare il volo. Ma non trovo le parole. E so di non dover dire niente, ma non trovo le parole.

- Ma lo sai che aspetto ancora? Aspetto ancora una voce. Le stesse braccia di un secolo passato… In attesa di tutto. In attesa di nulla. E in alcune sere, quando la strada è illuminata d’arancione, mi sembra di vederlo girare l’angolo e scapparmi di nuovo via. Abbandonarmi di nuovo nello stesso luogo, una borsetta di perline fragili tra le mani. Mi sembra di indossare di nuovo lo stesso vestito blu, e di avere i capelli più corti. Fa male come allora, ma i dottori le chiamano allucinazioni –

Socchiude le labbra e mi cattura nella trappola dei suoi occhi. Ha la bocca arrossata, la pelle tirata. Un rantolo sommesso le passa tra i denti, ed è come ascoltare un albero secolare spezzarsi in due, colpito da un fulmine. Ma gli occhi. Gli occhi mi segano a metà. Si coprono di un velo di lacrime, e sono tanto profondi da cascarci dentro e non riemergerne più. Il dolore mi brucia, attraverso quegli occhi, e ne assaporo solo una fiammata gelida. Ma quale inferno deve esserci, la dentro. Quale inferno. E’ come affacciarsi su un buco nero. Sull’inconcepibile immensità del vuoto. E sono io ad abbassare gli occhi, perché il coraggio mi manca. Mancherebbe a chiunque, ma provo ugualmente vergogna per averla abbandonata così, alla sua sofferenza, senza riuscire a condividerne nemmeno una briciola.

La sento respirare a stento. Graffia il tavolo con le unghie, e nuovi solchi si aggiungono a quelli antichi. Quando ritorna il silenzio temo che sia morta, ma non riesco a guardarla. Non riesco più a guardarla. E se non avesse abbassato lo sguardo?

- Alla fine si dimenticano tutti di te – mormora, e capisco che mi osserva ancora, come per punirmi della mia codardia – Le promesse sono solo parole che si disperdono nel vento, e i desideri mutano. Il ricordo delle risate, e il ricordo dei baci, delle mani che si incontrano per caso, tutto insieme, in un coro di voci assillanti, che ti rincorrono nei sogni. Fino a che chiudere gli occhi diventa impossibile, perché il terrore dei sogni è ancora più grande di quello della realtà. Perché i sogni fanno male. Oh… fanno così male. E’ come essere calpestati da Dio. Ogni osso, ogni centimetro di te scricchiola, si sbriciola. E tutti dimenticano. Non vengono più a cercarti, ti allontanano discretamente, come un lebbroso –

Avverto un movimento. La sento cambiare posizione sulla sedia. Il fruscio del vestito nero che indossa e qualcos’altro, come se attaccato a lei ci fosse uno spirito malvagio. La temo anche io, ed anche io vorrei permettermi il lusso di allontanarla, discretamente. Impossibile.

Respira piano. Immagino il suo petto alzarsi ed abbassarsi ritmicamente, affaticato. Forse è malata, ormai. E’ troppo tardi.

- Sai, ci sono dei giorni in cui credo di poter provare ad uccidermi. Morire. Ma non ci riesco mai, una volta in piedi. Forse dovrei uccidermi stesa nel letto, tra le coperte con i buchi. Lo sai perché? Guardami –

Lo ordina. Ed ha una voce sovrumana, come se dentro di lei esistesse un esercito di guerrieri.

No, mai. No. Non posso guardarla. No, gli occhi, di nuovo, no.

Dita di ferro si serrano sul mio polso. Non l’ho sentita sporgersi verso di me, non l’ho sentita chinarsi sul tavolo e scivolare fino al mio braccio. Ha le mani gelide. Le mani di una morta.

- Lo sai perché? Guardami – ripete, e la sua voce torna debole, quasi supplichevole. Una supplica nell’agonia.

Con orrore, alzo gli occhi. E cado dentro il nulla. Mi ingoia, interamente. E qui, dentro di lei, la sento parlare. Il suo cuore pulsa violento, accanto al mio. E siamo lo stesso ventre, lo stesso dolore.

- Perché? – chiedo, con un urlo, agghiacciato. Le tempie ci pulsano. A me, a lei. Non lo so più.

- Perché io lo aspetto. Lo aspetto ancora. E la paura di morire e perdermi il suo ritorno è troppo grande. E l’ingenuità di credere in un suo ritorno è troppo grande. E l’amore, rinchiuso in questo corpo, è troppo grande –

Chiude gli occhi.

Qualcosa mi spinge lontano, fuori da lei. E senza sapere perché mi ritrovo sotto il sole. Mi abbaglia e cado a terra, privo di forze.

E credo di sapere che non vedrò mai più gli occhi di una madre.

Il vuoto di una madre. Il nulla di una madre.

E sento ancora la sua voce nella mente. Come un corpo estraneo conficcato nei pensieri.

“Così sei arrivato a chiedermi perché, vero? Sei arrivato a chiedermi perché… ”

  
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