Anime & Manga > Deadman Wonderland
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Autore: Alice_nyan    04/04/2015    4 recensioni
{Eventi precedenti sia al manga che all’anime, giusto per colmare qualche lacuna; riferimenti stretti all’OVA}{Progetto di (forse) otto capitoli} {Di ispirazione verista (?) e di impianto giallo non convinto (?)} {in realtà ho aggiunto fluff, azione, nonsense e Senji poliziotto}{frasi filosofiche dopo battutine random, interrogatori improbabili e colpi di scena}
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Lui squadrò con attenzione tutto il perimetro, alla ricerca di qualcuno. Quando ormai si era convinto di aver sbagliato stanza, i suoi occhi si posarono sopra un esserino rannicchiato in un angolo. Era una bambina piccola, fragile e misera, che cingeva le gambe con le braccia e che teneva il capo appoggiato alle ginocchia.
[…]“Cosa puoi mai aver fatto di male per finire qua?!”

Alice_nyan
Genere: Fluff, Mistero, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Kiyomasa Senji, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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*|/ Dedico questa fan fiction alla mia Hime, che rappresenta in tutto e per tutto Miori Kyoku, la mia OC. Spero che anche Sa-kun leggerà questa fan fiction, che ho tardato a pubblicare e che ho praticamente progettato con lei.
I personaggi non sono i miei, ma appartengono all'autore della storia originale, il manga Deadman Wonderland.
Gradirei ricevere delle recensioni. |/*

Storia di un Corvo di pece e dell' Angelo di zucchero filato

 “Hey, hai sentito?” un uomo magro dai capelli neri con una divisa da poliziotto si stava rivolgendo ad un suo compagno. Portava degli occhialini rotondi che gli cadevano continuamente dal naso, e tentava di reggerli. Siccome stava elaborando dei dati sul computer e aveva bisogno di entrambe le mani per scrivere, alternava le funzioni della sinistra: una parola e poi gli occhiali, gli occhiali e poi una parola. Era seduto su una seggiola di metallo, davanti ad una scrivania in legno massello lunga un paio di metri, piena di fogli sparsi.
“Sentito cosa?” domandò l’altro irritato, ma allo stesso tempo incuriosito. Lui aveva una corporatura più robusta, dei capelli castani chiari e gli occhi dello stesso colore. Era seduto lì vicino, e stava leggendo dei fogli mentre fumava una sigaretta e sorseggiava un caldo caffè.
“Che, non lo sai? Ci sono stati una serie di omicidi, che vengono attribuiti ad una bambina” disse a voce bassa coprendosi la bocca con una mano, per farlo sembrare un segreto, fingendo di aver paura.
L’altro avvicinandosi gli tirò un lieve pugno sulla spalla, scherzando, per farlo smettere. Non sopportava le prese in giro e quella sembrava proprio una situazione simile. “Ma smettila. Non credo a queste cose, Kan” affermò con estrema serietà, mentre l’altro rideva divertito. Prese la sigaretta ormai finita e la buttò a terra, schiacciandola con un piede.
“però è arrivata una bimba che è stata ritrovata nel luogo di un delitto” lo informò Kan “la devono ancora interrogare, e qualcuno deve badare a lei”
L’altro uomo si alzò e prese il bicchiere di carta che conteneva il caffè. Guardò al suo interno, vide che rimaneva ancora qualche goccia e finì la bevanda. Poi accartocciò la confezione e la lanciò dentro il cestino dall’altra parte della stanza. “Mi sa che ci andrai tu, perché il mio turno è finito proprio ora”
“no, non ci penso neanche. Non mi puoi abbandonare in questo modo!” sbottò il compagno ancora seduto. L’altro sorrise maliziosamente e fece spallucce. Poi ci rifletté un momento e disse: “so io cosa puoi fare! Già che ci siamo affida il compito a quell’altro bambino: Senji!”
In quel preciso istante entrò nella stanza il diretto interessato, sbattendo la porta seccato come al solito. Era un giovane di circa vent’anni, dalla carnagione abbronzata e i capelli neri che teneva sempre scompigliati.
“senti senti, si parla del diavolo ed ecco che compare” disse Kan facendo una smorfia.
Senji gli sorrise come per rispondere al saluto accogliente “Fuori da qui, ora è il mio turno” lo scacciò con arroganza accentuando la parola “mio” come se stesse parlando del proprio territorio di caccia. Aveva sicuramente un carattere impulsivo e irruento, che lo facevano sembrare una bestia feroce da non provocare. Fece cenno di andarsene all’agente già in piedi, che dopo qualche impreco prese una giacca e uscì frettolosamente dall’edificio.
“Eh? Cosa dovei fare?”
“Te l’ho detto! Devi andare davanti alla sala numero due e aspettare finché non vengono! Devi semplicemente guardare cosa fa la bambina, senza entrare nella stanza o altr-…”
Senji si era già allontanato, lasciano parlare a vanvera Kan, che lo riempì di accidenti.
Il corvino attraversò un lungo corridoio spoglio, senza nemmeno un mobile che lo arredasse. In realtà rispecchiava alla perfezione sia l’edificio che le persone che vi si trovavano all’interno. Erano tutti vuoti, trascinavano attaccate ai polsi e alle caviglie delle lunghe catene di metallo, che sbattevano ad ogni movimento e facevano male ad ogni passo.
Tutte sciocchezze!
Scosse la testa per allontanare quelle riflessioni troppo filosofiche e campate per aria. Aveva da fare.
Però ammirava moltissimo i suoi compagni, anche se non lo faceva notare. Per lui erano degli esempi: gli avevano fatto capire che non bisogna mai arrendersi e che finché c’è speranza c’è vita. Non che avesse mai capito cosa significassero le loro stesse parole, non che gli interessasse più di tanto, ma avevano mosso qualcosa nel suo cuore. Loro avevano sempre i loro diverbi, certo, ma se non fosse stato così, dove sarebbe stato tutto il divertimento?
Passò davanti ad una stanza con la porta aperta e le luci accese. Entrò lì per chiuderla e si trovò riflesso sulla superficie liscia della finestra. Trapassò la propria immagine, e si limitò a guardare il paesaggio esterno. Le luci che risplendevano nel buio di Tokyo erano bellissime, anche se erano esigue. Una volta c’era un’infinità di lumini, che brillavano come lucciole nella città, ma dopo quell’avvenimento era cambiato tutto. Si rattristò e strinse più forte che poteva il pugno della mano destra, come per farsi forza. Scacciò subito via quel pensiero, spense le luci e chiuse la porta della stanza. Attraversò il corridoio e si fermò davanti ad una delle ultime sale.
Entrò, chiudendo delicatamente la porta dietro di sé.
La stanza aveva le pareti bianche e delle mattonelle nere lucidissime. Non la pulivano spesso, ma dovevano averlo fatto di recente, perché ci si poteva facilmente specchiare. Al centro c’era un tavolo in metallo, a cui erano affiancate delle sedie dello stesso materiale, e attaccate direttamente alle pareti c’erano delle panche.
Lui squadrò con attenzione tutto il perimetro, alla ricerca di qualcuno. Quando ormai si era convinto di aver sbagliato stanza, i suoi occhi si posarono sopra un esserino rannicchiato in un angolo. Era una bambina piccola, fragile e misera, che cingeva le gambe con le braccia e che teneva il capo appoggiato alle ginocchia. Lei non si muoveva e non parlava. Aveva gli occhi chiusi e la bocca semiaperta, sembrava stesse dormendo, ma aveva un respiro irregolare e non smetteva di piangere e singhiozzare. Le lacrime cadevano lentamente a terra, facendosi strada sul suo volto pallido, attraversando le dolci guance.
Quando lei si accorse di aver avuto visite, sobbalzò un momento un po’ stordita e fissò seduta a terra l’ospite inaspettato. Lui la guardò allo stesso modo, finché non si mise una mano tra i capelli e sorrise.
“Cosa puoi mai aver fatto di male per finire qua?!”
Lei si asciugò le lacrime che stagnavano sotto i suoi occhi, sorrise e si alzò felicissima. Saltellò un po’ intorno all’agente, muovendo il suo vestito bianco. Un abito leggero che si posava delicatamente sulle sue piccole spalle, che svolazzava ad ogni suo movimento, proprio come le ali di una leggiadra farfalla. Le arrivava alle ginocchia, piene di graffi e con qualche sbucciatura. La bambina aveva due codine bionde che le scendevano fino a metà schiena, ornate da due elastici bianchi che richiamavano il vestito e le bende che le coprivano le mani, fasciate.
“Sei venuto a farmi compagnia!” all’inizio doveva essere una domanda, ma la sua voce allegra e squillante la fece sembrare un’affermazione “Sei un generale!”
“Mi chiamo Senji e sono un poliziotto. Si dice agente Senji” le spiegò sorridendo. Non aveva mai pensato alla possibilità di diventare un generale o robe simili.
“Ok, sergente Senji!”  lo salutò portando una mano alla fronte, mimando il saluto dei soldati. Per la spontaneità del gesto l’uomo si mise a ridere, e così anche la bimba.
“Piuttosto, tu come ti chiami?”
Questa domanda la lasciò un po’ perplessa.  “Eh? Io? Mi chiamo...” ci rifletté un momento, perché proprio non ricordava il proprio nome. Dopo un paio di secondi di riflessione rispose tutta contenta “Miori!”
Lui si sedette su una panchina, accomodandosi per bene contro il muro. Fece cenno anche a lei di sedersi, ma rimase ferma.
 “Posso sedermi sulle tue ginocchia?” chiese gentilmente. Non aveva neanche riflettuto a quello che aveva detto, ma quando lo fece si rese conto dell’assurdità della richiesta.
Ormai però gliel’aveva chiesto e non poteva di certo ritirarlo! Prima che potesse arrossire al pensiero di aver fatto qualcosa di irrimediabile, si sentì sollevare delicatamente ed atterrò sulle sue robuste gambe.
“Ah, così va bene?” le chiese lui sorridendo spontaneamente. Lei si girò verso l’uomo, gli donò un enorme sorriso e lo abbracciò. Senji rimase spiazzato per un momento, poi, anche lui allegro, le diede qualche pacca sulla schiena.
“Ora ti devono interrogare” cercò di informarla rispetto a ciò che avrebbe dovuto fare “sai che significa?”
La biondina, dubbiosa, gli chiese in cosa consistesse questa pratica che le era ignota. Le incuteva un po’ di timore, ma venne subito tranquillizzata
“Devi solo rispondere a quello che ti viene chiesto. Senza mentire”
“M-mentire?” cercò conferma “ma io non faccio queste cose orribili! Lo sanno tutti che non bisogna dire le bugie” affermò infastidita al solo pensiero che l’avesse paragonata, seppur lontanamente, ad una bugiarda.
Lui le appoggiò una mano sulla testa. “So bene che non mentirai, ma non tutti sanno bene come te che è una cosa brutta”

 

 
 
C’era una volta un corvo che viveva in una fitta foresta.
Era un bosco pieno di animali e di alberi di specie diverse. C’erano molte risorse e molta armonia, che vigeva indisturbata, non essendoci cacciatori o predatori che la spezzassero.
In realtà c’era bisogno di predatori, e in questa categoria ricadeva anche quel corvo.
Era grande e forte, bello e nel pieno delle forze. Aveva un piumaggio perfetto: le piume erano tinte di un lucido nero pece; il becco era appuntito e le zampe gagliarde.
Ogni giorno aveva bisogno di mangiare molto per continuare ad essere così vivace e attivo, ma arrivò un anno senza frutti.
Fino a quel momento era stato un animale terribile. Aveva mangiato altri uccelli, rovinando intere famiglie felici, ed ora loro lo ripagavano non condividendo con lui il poco cibo che riuscivano a reperire. Senza accorgersene era stato emarginato e allontanato, malvisto e considerato una minaccia. La punizione, seppur dettata da una natura spietata, era severa ma giusta.
Il corvo non capiva. Si riteneva solo offeso e pensava che gli altri uccelli fossero degli ingrati approfittatori.
Non aveva tempo per indugiare ulteriormente, rischiando di morire di fame, perciò, credendosi importante e nel giusto, si diresse deciso verso il nido di un usignolo, pronto a rubare tutto quello che sarebbe riuscito a trovare.
Nel nido c’era un usignolo, che covava cinque uova (era probabilmente la madre), mentre il padre era andato in cerca di cibo.
Aspettò il momento giusto per uscire allo scoperto, ma spinto dalla fame fu costretto ad accelerare i tempi. Avrebbe voluto rubare le uova di nascosto e senza essere visto, così da sentirsi meno in colpa per il terribile gesto.
“Ti prego, lasciaci in pace!” gridò la madre, che proteggeva dietro di sé le piccole ed indifese uova, che agli occhi del corvo erano solo cibo. La mamma piangendo e gridando cercò di richiamare l’attenzione del padre che, però, essendo molto lontano, non arrivò.
Venne sbattuta fuori dal nido e cadde a terra dall’alto albero. Era ancora in grado di volare e di difendersi  ma, temendo il predatore, fuggì senza pensarci due volte, abbandonando al loro destino i pulcini non ancora nati. 
   
 
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