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Autore: FCq    05/04/2015    3 recensioni
“Tu sei...”, urlai contro Edward, seduto sul bordo del letto, lo sguardo chino a terra e le mani dietro la nuca.
Mi fissò.
“Tu sei... un idiota. Tu sei incomprensibile e lunatico...
______________
“Perché non capisci”, sussurrò.
“Cosa? Cosa dovrei capire?”.
“Che ho sbagliato. Ho sbagliato tutto”.
“Cosa vuoi da me Edward?”, gli chiesi, .
“Io non voglio niente da te...”, mi rispose. L'intensità nella sua voce solleticò ogni nervo del mio corpo. Con lo stesso vigore mi strinse il viso fra le mani.
“Io non voglio niente da te”, ripeté, “io voglio te”.
Allora si avventò sulle mie labbra.
Genere: Azione, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: New Moon
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Buonasera! E buona Pasqua! Sono le 11:30 e io ho appena deciso di postare la mia nuova storia. L'ho pensata diverso tempo fa, ma non ho avuto il tempo di scrivere, fino ad ora. E' una storia che ha molto di me. Naturalmente questo è soltanto un prologo, che mi permette di costruire le basi per la storia. Mi auguro, spero davvero con tutto il cuore che possa interessarvi. Bene, detto questo ( se doveste trovarla orrenda date la colpa a Masini, non dovrei ascoltarlo a quest'ora perché mi fa male : ) ) vi lascio alla storia. Fatevi sentire!

 

Prologo

 

Avevo undici anni quando mia madre ebbe il suo primo attacco di panico. Ricordo ogni particolare di quell'episodio con sorprendente lucidità: il fattore scatenante, il suo decorso e in particolare la sua inquietante conclusione. Ricordo che accadde un giorno di febbraio non particolarmente caldo, nonostante abitassimo a Phoenix, nell'assolata Arizona, e io, una bimbetta minuta con i capelli a caschetto, iniziavo a interessarmi ai classici e ai romanzi d'amore, tanto che portavo sempre con me un'edizione tascabile di Romeo e Giulietta. Ricordo Renée, seduta immobile intorno al tavolo circolare color ebano al centro della nostra piccola cucina. Ricordo di aver notato, nel freezer quasi completamente vuoto, un barattolo di burro d'arachide che inizialmente mi era sfuggito, di averlo afferrato soddisfatta, e, prese due fette di pane dalla dispensa, le ultime, di aver iniziato a spalmarvi la soffice cremina, che poi tanto soffice non era. Ricordo che, dopo aver addentato il primo morso, percepì un sapore acido sulla lingua, ritrovandomi a sputacchiare di qua e di là, attirando l'attenzione di mia madre che mi guardò come se mi vedesse per la prima volta, come si guarda un estraneo che si ferma improvvisamente per strada a parlarti. Ricordo che osservò il barattolo con un'espressione imperturbabile sul volto, prima di scaraventarlo a terra, producendo centinaia di schegge e un rumore stridulo che ancora oggi mi risuona nella mente. Ricordo che sia io, sia mia madre restammo immobili a fissare i frammenti di vetro che tintinnavano sul pavimento come stessimo assistendo alla scena dall'esterno, anziché esserne protagoniste. Renée osservò i palmi delle proprie mani come se non le appartenessero e a un tratto sembrò riprendere coscienza di se stessa perché il suo volto si deformò in una smorfia atroce e immerse le dita tra i capelli, stringendoli tanto che pareva volesse strapparli dal cranio come se fossero l'origine del suo dolore, così come si tirano le erbacce da un bel giardino fiorito. La stanza si colmò dei suoi lamenti, mentre il suo corpo scosso dai tremori si accasciava al suolo e mia madre si raggomitolava su se stessa facendosi sempre più piccola, come se avesse paura, forse di quella stanza che era diventata improvvisamente molto grande. Ricordo di aver desiderato che qualcuno aiutasse mia madre e proteggesse me da ciò che stava accadendo, magari Charlie, con la sua uniforme e i suoi baffi lucidi. Compresi di star trattenendo il respiro quando due braccia tremanti si aggrapparono alle mie caviglie e due enormi occhi blu come il mare d'inverno mi fissarono dal basso, pregandomi silenziosamente di essere quella persona. Ricordo di aver posato le mia mani ancora un po' paffute sulle guance di mia madre, accarezzandole il volto sfigurato e di aver poggiato il capo sulla sua testa. Tuttavia non ricordo, o più probabilmente non seppi mai, quanto tempo trascorremmo strette l'una all'altra, ma è sufficiente che chiuda gli occhi per percepire nuovamente la consistenza dei suoi capelli biondi tra le mie mani e il suo buon profumo. Dopo un tempo che mi parve infinito, Renée si sollevò da terra e scomparve dalla stanza, per ritornare qualche istante dopo con una scopa tra le mani e ripulire il disastro di schegge e burro d'arachide del pavimento, un'espressione serena sul viso. Mia madre si voltò nella mia direzione, sorridendomi con gli occhi accesi di buon umore e mi strinse una mano tra le sue: “Andiamo a fare la spesa e a comprare i cereali che ti piacciono tanto”.

Soltanto qualche anno più tardi scoprì che da quel giorno Renée prese a partecipare settimanalmente ad alcuni incontri con un noto psicanalista del posto. A volte i suoi occhi si incupivano ancora, il suo respiro accelerava e i suoi movimenti diventavano d'improvviso caotici e disordinati, come fosse un animale in trappola. L'incontro con Phil fu provvidenziale, con lui in casa il frigo era sempre pieno e a mia madre bastava aggrapparsi alle sue ampie spalle per smettere di tremare. Mi ero presa cura di lei per così tanto tempo, stringendo con Renée un legame che andava ben oltre quello filiale. Mia madre era mia amica. Non tanto perché non sapesse essere autoritaria o saggia, all'occorrenza, ma per la sua voglia di essere per sempre giovane. Ironico che fossi stata io, il suo opposto, ad incontrare i Cullen.

 

Non un solo giorno, tra quelli trascorsi a bruciare fissando ininterrottamente la finestra della mia piccola stanza a Forks nell'attesa di vederlo al di là del vetro, maledissi la mia scelta di lasciare l'Arizona e trasferirmi nella piovosa penisola Olimpica, in modo tale da permettere a mia madre di seguire Phil, il suo unico rimedio alla paura che l'attanagliava e al bisogno di attenzioni che la ossessionava. Non un solo giorno, neanche quando respirare divenne difficile come smettere di farlo o quando il ricordo del passato, delle promesse fatte e non mantenute, della speranza per il futuro, si trasformò in un tormento insostenibile. Non un solo giorno, nonostante il dolore di mio padre non accennasse a diventare rassegnazione senza che potessi in alcun modo reagire per ripagarlo e la paura di mia madre fosse tornata a sconvolgerle l'espressione, senza che esistesse per essa alcuna cura. Non un solo giorno, fino ad oggi.

Guardavo mia madre piegata su se stessa, tra le braccia di un Charlie sconvolto e mi sembrava di essere tornata bambina, mentre le sue dita stringevano rabbiosamente le ciocche bionde, ancora come se qualcosa la tormentasse dal profondo della sua mente, un luogo che nessuno avrebbe potuto raggiungere, un oceano di dolore da cui non avrei potuto trarla in salvo. Erano state le sue urla agghiaccianti ad attrarre la mia attenzione, mentre, come ogni giorno negli ultimi mesi, trascorrevo le ore pomeridiane a leggere libri su libri scolastici. Ma fu la sua espressione a risvegliarmi definitivamente dallo stato catatonico in cui versavo da quando i Cullen avevano lasciato Forks, una casa vuota e una ragazza sola. Ero stata risucchiata dalla mia spirale di dolore così a lungo, da non accorgermi che il mondo di mia madre cadeva a pezzi sotto i miei occhi. Ignorai il mio corpo che tremava, malfermo sulle gambe e la raggiunsi a grandi falcate, sostituendo le braccia di mio padre e affondando il volto nei suoi capelli. Con delicatezza le strinsi entrambe le mani, accarezzando prima uno, poi l'altro dorso con la punta dei pollici. Solo allora sollevai lo sguardo, incrociando quello sconvolto di mio padre, ma fui immediatamente richiamata dalle urla di Renée. Feci appello a tutta la mia forza, per quanto non mangiassi e non dormissi davvero da settimane, forzando le sue braccia ad allentare la presa sui suoi capelli e costringendola a sfiorare il mio sguardo con i suoi occhi vuoti.

 

“Mamma... respira. Parlami... mamma. Che cosa è successo?”, le chiesi annaspando, mentre adagiava quasi tutto il peso del suo corpo sulle mie braccia.

 

Le sue urla cessarono d'improvviso e le sue labbra si schiusero appena a pronunciare il nome dell'uomo che da due anni era il suo unico appiglio alla realtà: “Phil”

 

“Dov'è Phil?”, le chiesi, scandendo ogni parola, temendo che, nello stato confusionale in cui versava, non riuscisse a capirmi.

 

“E' andato via”, disse.

 

Il mio corpo, all'udir quelle parole, divenne di pietra. Per un istante di troppo, che, in circostanze meno fortuite avrebbe potuto esserle fatale. Reneé scivolò via dalle mie braccia, divincolandosi selvaggiamente, mettendo un piede in fallo. La vidi precipitare al suolo e mi fiondai su di lei, tentando di evitare che sbattesse la testa, ma senza riuscirci. Fu quando vidi il sangue di mia madre tra le mie dita, l'odore di ruggine e sale, che mi ritornò alla mente la notte del mio diciottesimo compleanno. Capì allora di essere rimasta per mesi nella casa nel bosco, nell'attesa di comprendere quale fosse stato l'istante esatto, fra un suo sorriso e un altro, in cui il mondo aveva iniziato a sgretolarsi. La vista di quel sangue fu come un fulmine a ciel sereno, come se ogni albero che circondava la casa nel bosco stesse improvvisamente cadendo, costringendomi a lasciare la villa, sepolta da un mare di foglie verdi.

 

“Charlie”, urlai, ma mio padre si era già precipitato ad afferrare il telefono per comporre il numero dell'ospedale di Forks, per poi correre al mio fianco, mentre tastavo convulsamente il polso di mia madre, verificando che vi fosse battito, anche se irregolare.

 

….......

 

Guardavo mia madre al di là del vetro, senza poter distogliere lo sguardo. Sembrava così piccola, in quel letto così grande.

Paradossale che fosse lei a giacere in un letto d'ospedale, lei che amava la vita, mentre io, che per mesi( dal momento in cui avevo incrociato gli occhi di Edward Cullen) avevo desiderato la morte, ora per rinascere ora per smettere di soffrire, fossi lì ad osservarla combattere per restare viva.

Charlie, a pochi passi da me, discuteva con il dottor. Harris delle condizioni di Renée.

 

“Bella”, mi chiamò con delicatezza il meico, primario di chirurgia da quando il facoltoso dottor. Cullen aveva dovuto lasciare la città. “Renée si rimetterà in fretta, il colpo non è stato violento, ma l'attacco l'ha spossata. Avrà bisogno di essere seguita per superare il trauma... e credo che, indispensabile alla sua guarigione, sia la tua”.

 

Annuì. “Me ne rendo conto, dottor. Harris”, dissi. Evidentemente le mie parole lo lasciarono interdetto, perché per qualche istante non seppe come proseguire. “Ottimo”aggiunse, mentre si apriva in un sorriso comprensivo. “Perché non vai a prendere qualcosa da bere al bar giù di sotto, sei qui da ore e tua madre non si risveglierà prima di domani mattina, per via dei farmaci che le abbiamo somministrato”.

Distolsi lo sguardo dai suoi occhi chiari, per posarlo nuovamente sul corpo addormentato di mia madre, faticando immensamente a lasciarlo andare.

“Penso che lo farò, solo un... secondo”.

Il dottor. Harris annuì, prima di voltarsi e sparire lungo il corridoio della corsia.

“Non la perderò mai più di vista”, sospirò Charlie, accostandosi al mio fianco. Il volto cupo, gli occhi tristi e il peso del mondo sulle spalle, d'improvviso sembrò molto più vecchio di quanto fosse in realtà. Mi ricordò Billy Black: aveva in viso l'espressione di un uomo improvvisamente consapevole di aver perso qualcosa di importante.

Mi strinsi al suo braccio, adagiando il capo sulla sua spalla: “Lei è il sole”. Charlie, seppur stupito dalla mia inattesa vicinanza fisica, mi accarezzò dolcemente i capelli. “Tu sei il nostro sole. Sei responsabile di entrambi... anche se Renée potrebbe mostrare di averne più bisogno. Perché senza di te né io né tua madre siamo... niente. Capisci quello che ti sto dicendo, Bella?”, mi chiese dolcemente, pregandomi con lo sguardo.

Annuì, tuttavia l'emozione che provai nel parlare così apertamente a mio padre non riuscì a superare la barriera, il fiume non straripò oltre gli argini e io non piansi, non arrossì, non ebbi alcuna reazione fisica.

Però avevo capito.

“Ti porto un caffè”, mi limitai a dire.

Nonostante la mia naturale avversione per gli ospedali, i medici, le medicine e il sangue, non potei evitarmi di guardare a quell'ambiente asettico, così bianco e ordinato con curiosità oltre che scetticismo. Qualche camice mi sfilò davanti e percepì un odore particolare, simile alla vaniglia, alla plastica e alla menta insieme. Il silenzio che regnava in ospedale e che spesso mi era parso inquietante, era in vero estremamente rassicurante. Tuttavia durò poco, il tempo di assaporarne l'intensità, che un nugolo di medici accorse al suono di un bip prolungato, a pochi metri di distanza da me. Mi avvicinai con cautela, mentre i camici, che si confondevano l'uno con l'altro, si scambiavano parole affrettate. Intravidi soltanto una bambina e il suo pigiama giallo, il vuoto a circondarle il viso sottile e gli occhi spalancati, mentre il respiro le usciva a stento dalle labbra. Ero arrivata, senza accorgermene, nel reparto di pediatria infantile. E l'odore di vaniglia, plastica e menta fu sostituito da qualcosa di di diverso, che non seppi riconoscere. Le voci, seppur concitate, erano al contempo coordinate fra loro, come una sorta di melodia. Non c'era paura né incertezza nel volto di quella donna in bianco, mentre si curvava sulla bambina quasi incosciente, soltanto concentrazione, metodicità e forza. Cosa spingesse qualcuno a mettere l'altrui vita nelle proprie mani, a sopportare il dolore, la morte, il sangue, la pressione era sempre stato un mistero per me. Eppure quella donna si muoveva in tutto ciò come fosse nel proprio elemento, come un pesce nell'acqua o una farfalla in cielo. E il sollievo e la soddisfazione che le si dipinsero sul volto quando la bimba riprese a respirare regolarmente fu la risposta alla mia domanda inespressa. Qualunque cose fosse accaduta quel giorno a quella donna, non avrebbe in alcun modo potuto oscurare quell'attimo. Perché in quell'attimo, fra un respiro e l'altro della bambina con il pigiama giallo, lei era stata e aveva fatto.

E per quell'attimo io la invidiai, perché avrei voluto possedere la sua stessa forza e sicurezza. Avrei voluto che qualcosa colmasse il vuoto che mi divorava.

 

Qualcuno diceva che, chiusa una porta, si apre un portone. Avevo scelto di morire, di porre fine ai miei giorni in modo tale da renderli infiniti. Avevo deciso di appartenere

a un mondo in cui la scelta dell'indirizzo universitario era soltanto un vezzo, un'apparenza, un modo per ingannare il tempo. Avevo scelto di amare. D'improvviso, però, come una bolla di sapone troppo grande o come un sogno troppo bello, ogni mia scelta era esplosa, sfumata ed io ero stata catapultata nel mondo reale, ancora diciottenne, a dover decidere cosa fare della mia vita. E quel giorno, di fronte all'idea della morte definitiva e immutabile, in quanto nessun vampiro avrebbe potuto modificarne il corso, capì a cosa avrei destinato i miei giorni.

Capì che avrei sposato la medicina, per regalare la vita a coloro che non avevano scelto di morire. Eppure morivano.

  
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