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Autore: The Writer Of The Stars    06/04/2015    6 recensioni
"Aveva ragione Christopher Cross nel dire che quando arrivi a New York ti ritrovi incastrato tra le luci della città e la luna, perché a New York ti sembra di essere davvero più vicino alla sfera bianca del cielo ..."
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"... Magari non è vero che non ne esci mai. Forse dal team A si poteva uscire. Con tanta fatica, si poteva ricominciare a vivere ..."
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AU - Austin/Ally | Ispirata a "The A team" di Ed Sheeran.|
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ally Dawson, Austin Moon
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Nota:Ispirata dalla canzone “The A Team” di Ed Sheeran. Consiglio di ascoltarla, poiché oltre ad essere inerente alla storia è davvero bellissima.
 
"It's too cold outside for angels to fly ..."


Aveva ragione Christopher Cross nel dire che quando arrivi a New York ti ritrovi incastrato tra le luci della città e la luna, perché a New York ti sembra di essere davvero più vicino alla sfera bianca del cielo. Non che il satellite sia davvero più vicino, no no, però non so come, ma quando arrivi qui sei quasi certo che la luna sia un po’ meno distante da come l’avevi vista sino ad allora dalla finestra della tua cameretta azzurra di Miami. E non lo nascondo, quando ormai un anno fa sono partito dalla mia calda Miami per cercare qualcosa, che non so nemmeno io come chiamare, a New York, ci avevo creduto veramente alla storia della luna. Poi sono arrivato qui e la luna l’ho vista, e davvero, sembra un po’ più vicina. Forse è per colpa del frastuono assordante dei cabs e delle auto per le vie tremendamente affollate, o forse sono quelle luci stratosferiche che illuminano ogni angolo di questo piccolo mondo a parte fatto di taxi gialli e fast food, che ti confondono così tanto da farti credere di essere vicino così dallo sfiorare la superficie lunare. Sinceramente non l’ho mai capito ma non m’importa, perché a dirla tutta mi piace illudermi di essere tanto speciale da poter toccare quel terreno roccioso dove ormai quarantasei anni prima avevano messo piede Armstrong e …

“Austin!” sobbalzai violentemente, trattenendo a malapena un mezzo grido. Ecco cosa succede a fissare troppo la luna. Ti incanti, dimenticandoti del resto del mondo intorno a te. A me succede sempre. Anche adesso, fermo in un angolo di un gelido marciapiede della Grande Mela, la luna mi aveva incatenato a sé, trasportandomi nel mio mondo colmo di riflessioni e aforismi altamente astratti.

“Eh? S –si?” balbettai tornando con i piedi per terra. Dez mi squadrò con occhio critico, appuntando le mani ai fianchi in un gesto che mi ricordò velatamente mia madre.

“Sei ancora tra noi?” mi chiese serio, cosa assurda per lui. Avevo conosciuto Dez un anno prima ormai, in concomitanza con il mio arrivo a New York. La prima volta che me lo ero ritrovato in giro per il mio appartamento in accappatoi e ciabatte un istinto omicida si era impossessato di me, solitamente tranquillo e pacato, e ci era mancato davvero poco che gli spaccasi il primo vaso di fiori capitatomi tra le mani contro quella testa rossiccia. Poi però lui mi aveva fermato prontamente, spiegandomi con due mani tremanti davanti a lui che era solo il mio nuovo coinquilino e non un maniaco pronto a stuprarmi. Sebbene inizialmente riluttante, avevo comunque accettato Dez come compagno d’appartamento, anche perché il proprietario non aveva voluto sentire discussioni, e col tempo avevo scoperto che infondo non era poi così male. Eravamo diventati amici, piano piano migliori amici, e se c’era una persona di cui mi posso fidare era sicuramente lui.

“S – si. Scusa, mi ero distratto.” Risposi frastornato, scuotendo un po’ la testa.

“Mi preoccupi quando fai così.” Disse, per poi sorridere apertamente, come sempre. Gli sorrisi anche io, solo un po’ più piano.

“Comunque, hai finito di distribuire i volantini?” annuii, lanciando un’occhiata alla mia mano vuota. Dez faceva parte di un gruppo di volontari che aiutano i tossicodipendenti e cercano di prevenire l’uso di sostanze e quant’altro con i loro consigli e sostegno. Una specie di cricca di Freud dei poveri, insomma. Ammiravo questa loro iniziativa, ma non mi ero mai interessato più di tanto alla loro attività. Poi però due giorni fa Dez mi aveva supplicato di aiutarlo quest’oggi per un concerto di beneficenza organizzato in un pub in centro per raccogliere fondi per la loro associazione. Suono, tra i vari strumenti, la chitarra e canto, perciò quando si è quasi inginocchiato ai miei piedi pregandomi di aiutarli non me la sono sentita di dirgli di no. Così ci sono andato. Il pub era stranamente pieno, e a dire il vero non so se considerarlo o meno un successo, dal momento che era un buco di quattro metri quadri di cui tre erano occupati dal minuscolo palchetto sul quale mi sono esibito. Però secondo Dez era andato bene, e ora mi aveva costretto a distribuire insieme a lui volantini pubblicitari sul loro gruppo di aspiranti psicologi.


Parliamone insieme!” c’era scritto in alto a caratteri cubitali e la cosa mi aveva fatto sorridere sconsolato, perché se c’è una cosa che i drogati non vogliono di certo fare è parlare dei loro problemi. Specialmente con qualcuno. Però era stato zitto e avevo distribuito i volantini a tutti i passanti, dispensando sorrisetti stanchi e osservando la gente accartocciare il foglio e gettarlo per terra dopo aver aggirato i cinque metri del mio campo visivo. Ma io non potevo di certo farci nulla, ognuno è responsabile delle proprie scelte.
 

“Bene. Grazie mille per il tuo aiuto stasera, non so come farò a sdebitarmi.” Mi disse con un sospiro e io alzai le spalle indifferente, con aria impassibile.

“Nessun problema, è stato un …”


“BUTTATE VIA QUESTA ROBA! SONO TUTTE STRONZATE, STRONZATE VI DICO!” non riuscii a terminare la frase, perché altre parole urlate per la via mi giunsero alle orecchie, sospinte dal vento. Mossi il capo incerto, alla ricerca di quella voce alta e infuriata. Sicuramente apparteneva ad una donna. Dall’altro lato della strada scorsi allora una ragazzina mora aggredire alcuni dei passanti, strappando dalle loro mani alcuni fogli e gettandoli per terra, gridando rabbiosa che erano tutte stronzate. La guardai allibito, immaginando Dez nelle mie stesse condizioni. La ragazza intanto si era fermata a riprendere fiato, respirando pesantemente, per poi strappare con forza il foglio rubato dalle mani dell’uomo dinanzi a lei. Non appena alcuni dei pezzetti di carta toccarono terra riuscii da lontano a scorgere un “parliam” scritto con quel fastidioso rosso sgargiante, e riconobbi il foglio come il volantino da noi distribuito.

“Ma chi è?” chiesi quasi senza rendermene conto, fissando ancora la moretta dagli abiti decisamente troppo leggeri per una notte gelida come quella.

“Si chiama Ally.” Sobbalzai all’udire la voce di Dez. Già, Dez. Mi ero dimenticato di lui.

“La conosci?” chiesi curioso, aggrottando le sopracciglia.

“So chi è. È famosa nel gruppo.” Mi spiegò con serietà, rimanendo ambiguo.

“E perché è famosa?” chiesi, sentendomi come un dentista nel dover cavare le parole di bocca da quel benedetto rossastro. Dez sorrise sghembo, furbetto.

“Beh, guardala; fa sempre così.”

“Così come?”

“Ogni volta che distribuiamo i volantini del gruppo di supporto lei si avventa sulla gente strappandoglieli dalle mani e stracciandoli, gridando che sono stronzate inutili.”

“Ma è una …”

“Sì, si droga.”

“Oh.” Rimasi stupito, confuso. Stetti in silenzio per diversi secondi, osservando la ragazza sedersi malamente su una panchina abbandonata, borbottando qualcosa tra se e se dopo aver terminato la sua sfuriata.

“E che tipo di droga?” chiesi allora, senza una ragione precisa in realtà. Ero semplicemente curioso.

“Classe A. Eroina, robe così … fa parte del Team A.”

“Il team A?”

“Si, lo chiamiamo così. I drogati che si fanno di roba di classe A. A  team.” Annuii tra me, fissando la ragazzina che non mostrava più di vent’anni portarsi le ginocchia al petto, abbassando il capo su di esse.

“E non ce l’ha una casa, un posto dove stare …”

“E` quella la sua casa.” Disse Dez, indicando la panchina fredda e arrugginita.

“I suoi l’hanno cacciata di casa quando hanno scoperto che si faceva, così da quando ha diciotto anni vive lì.”

“E come fa a pagarsi …”

“La roba? Fa la prostituta.” Rimasi allibito,  senza sapere cosa dire. La storia di quella ragazza era a dir poco surreale, triste e mi aveva messo addosso un doloroso senso di frustrazione.

“Non hai idea di cosa la gente possa arrivare a fare per un paio di grammi di roba … impazziscono tutti, prima o poi.” Mi spiegò Dez con tono rassegnato.

“Ci abbiamo provato a portarla alle riunioni e agli incontri d’aiuto … ma si è sempre rifiutata, urlando e scappando via al primo tentativo di fuga.” Continuò.

“E` un peccato però … dicono che suonava il piano divinamente … sarebbe potuta diventare una pianista eccezionale.” Concluse Dez, prima di darmi un’amichevole pacca sulla spalla.

“Io torno dentro. Ci vediamo dopo, e grazie.” Mi disse prima di allontanarsi. Rimasi immobile per diversi istanti, boccheggiando sconvolto. Non conoscevo nemmeno quella tipa e non mi sarebbe neanche dovuto importare di lei, ma non so come la sua storia mi era entrato dentro, incidendosi nella pelle. Non seppi nemmeno io perché, con la chitarra chiusa nella custodia sulla mia spalla e la mia camminata un po’ claudicante, mi avvicinai alla panchina dall’altra parte della strada, sedendomi su quel ferro vecchio.


“Ti ho visto prima … eri arrabbiata?” dissi e la ragazza al mio fianco sobbalzò violentemente, accorgendosi della mia presenza. Mi squadrò stranita, distogliendo poi lo sguardo dalla mia figura.

“E tu chi sei? Che vuoi da me?” fece dura, quasi intimidita in verità.

“Anche io non ci credo tanto a quelle cose … comunque mi chiamo Austin.” Risposi senza guardarla. Lei mi lanciò un’occhiata veloce, sospettosa.

“Senti, sono pulita, non ho nie …” disse subito, parando due mani davanti a se. La guardai un confuso, scuotendo un po’ il capo.

“Oh no no, io non faccio parte degli strizzacervelli.” Spiegai con un piccolo sorriso rassicurante. Lei mi guardò seria, incerta se credermi o meno.

“Come ti chiami?” le chiesi allora a bruciapelo, anche se in realtà conoscevo già il suo nome. Per diversi attimi restammo entrambi in silenzio, ascoltando il vociare indistinto dei passanti e il frastuono insopportabile delle auto.

“Ally.” Rispose infine atona, fissando un punto della strada dinanzi a se.

“Ma Ally così oppure è l’abbreviazione di Alyson?” chiesi.

“Abbreviazione.” Rispose fredda, disinteressata.

“Oh, quindi come Alyson Hanningan di quella sitcom divertente, o come Alyson …”

“Alyson come Alyson e basta.” Mi interruppe subito, stanca di tutti di quei giri di parole. Allora rimasi in silenzio, attendendo che fosse lei a parlare.

“Ma detesto quel nome, perciò sono Ally e basta.” Tagliò diretta dopo svariati secondi.

“Okay, Ally e basta.” Dissi nel tentativo di fare ironia. Probabilmente avrebbe voluto ammazzarmi all’istante da come le tremavano le mani, ma poi mi ricordai di ciò che avevo letto per caso su un opuscolo informativo dell’associazione di Dez, dove si diceva che un segno dell’astinenza è il tremolio convulso e incontrollato degli arti. Probabilmente non aveva ancora assunto la sua dose giornaliera. Ally invece non disse nulla, limitandosi a lanciarmi un’occhiataccia. Per sbaglio i suoi occhi saettarono alla custodia della mia chitarra e vidi una strana luce brillare nei suoi occhioni scuri, che ora che li guardavo meglio erano dello stesso colore del cioccolato. Caldi e profondi.

“Suoni la chitarra?” chiese cercando di nascondere la curiosità, tornando a fissare il vuoto dinanzi a se.

“Già. Beh, non solo la chitarra ma … diciamo che fondamentalmente è il mio strumento. E tu? Suoni qualcosa?” le chiesi facendo finta di non essere a conoscenza delle informazioni fornitemi da Dez. Osservai il profilo di Ally tremare un secondo, destabilizzata dalla mia domanda.

“Suonavo.” Rispose frettolosa, come a voler sviare l’argomento.

“La chitarra?”

“No, il pianoforte.” Mi rispose, mentre percepii il suo tono addolcirsi quasi al nome del suo strumento. Annuii tra me.

“E come mai hai smesso?” insistetti, cercando d cacciarle le parole di bocca.

“Senti, ma si può sapere che vuoi da me?!” sbottò arrabbiata Ally, voltandosi di scatto. In quel momento ci trovammo faccia a faccia e per la prima volta da quei sette minuti in cui avevamo parlato potei osservare bene il suo volto. Aveva i lineamenti delicati, dolci e dalla pelle diafane, di cui solo le gote avevano una timida sfumatura di rosso. Il nasino piccolo e all’insù, come quello di una vera signora e la bocca carnosa ma secca, come se non bevesse da tempo. Le braccia lasciate nude da quel vestitino senza maniche erano scheletriche e osservando anche il resto del suo corpo mi resi conto che era davvero malnutrita, senza forze. Mi incantai a fissare i suoi occhi e perso in quelle iridi color cioccolata mi chiesi cosa affettivamente volessi da quella ragazza. Non mi sarebbe dovuto importare nulla di lei, andiamo era solo una drogata, che c’entravo io? Però non so perché, ma avevo sentito il dovere di avvicinarmi alla ragazza abbandonata sulla panchina, di parlare e di conoscere quella Ally che non voleva l’aiuto di nessuno per uscire dalla sua dipendenza e che era arrivata a vendere il suo corpo fragile e onirico per un paio di grammi. Una scarica elettrica mi attraversò la schiena ed improvvisamente, nonostante il freddo, mi sentii avvampare.

“N – niente.” Riuscii finalmente a rispondere, balbettando come un deficiente. Ally staccò veloce lo sguardo dal mio viso, interrompendo così bruscamente quel contatto visivo. Osservai le sue manine screpolate e rosse per il freddo poggiarsi sulla panchina ormai rotta, e le sue piccole unghie rovinate presero a grattare  via nervosamente la vernice scrostata. Mi concentrai su quel “cra cra” mentre abbassando gli occhi giunsi le mie mani nude a coppa, alitando su di loro nel tentativo di scaldarle. Come facesse Ally ad indossare solo quel vestitino senza maniche e le calze scure strappate era un mistero della medicina. Ad un certo punto Ally si alzò di scatto, facendomi spaventare. Alzai lo sguardo osservando la sua minuta figura ritta in piedi, scorrendo con gli occhi per la strada meno trafficata. Lanciai uno sguardo al mio orologio da polso. Le 2.00. Accidenti, era davvero tardi. Mi ero talmente perso nelle mie elucubrazioni su come avrei fatto ad alzarmi la mattina seguente che non mi resi conto che Ally aveva preso a camminare spedita, allontanandosi dalla panchina.

“Aspetta!” gridai non appena me ne accorsi, scattando in piedi e correndo per raggiungerla. Ally si fermò, voltandosi piano, chiedendomi con gli occhi cosa volessi. Mi sfilai il pesante giubbetto di dosso, poggiandolo così sulle spalle nude di Ally. Lei mi guardò incredula, osservando quel giubbetto enorme per lei coprirle le esili membra provate dal freddo e dalla fame. Fece per sfilarsi la giacca ma fermai prontamente il suo tentativo di restituirmela, bloccandola con un gesto della mano.

“No, no, tienila tu. A me non serve … e poi …” mi bloccai, lanciando uno sguardo al cielo, dove la luna svettava imponente, incurante anche lei come Ally del freddo.

“Stanotte fa troppo freddo fuori perché gli angeli possano volare … ne hai bisogno tu.”  Dissi a mezza voce, con un timido sorrisetto in volto. Ally mi guardò sconvolta, ringraziandomi con gli occhi.

“Ci vediamo …” le sussurrai con un occhiolino, prima di voltarmi e prendere a camminare in direzione della metropolitana. Ficcai le mani nelle tasche dei jeans, affondandole più che potevo nel tessuto nel tentativo di ignorare il freddo ora ancora più terribile senza il mio giubbetto, sentendo la chitarra alle mie spalle agitarsi al  ritmo dei miei passi. Però mentre scendevo le scalinate deserte e squallidamente illuminate della metropolitana, un sorriso dolce e di speranza si impossessò delle mie labbra, al pensiero che nella tasca interna della giacca in cui Ally si stava ora stringendo, vi era un bigliettino con il mio numero di telefono. Dio solo da quanto sperai che quella notte avrebbe usato qualche spicciolo dei suoi guadagni per chiamarmi da un misero telefono pubblico, chiusa in una cabina telefonica, anziché rovinarsi la vita con un paio di grammi. Magari non è vero che non ne esci mai. Forse dal team A si poteva uscire. Con tanta fatica, si poteva ricominciare a vivere.
 
   
 
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