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Autore: hay_ley    08/04/2015    0 recensioni
Mi affacciai incerta su tutto ciò che il destino mi aveva riservato.
Il vetro opaco non mi permetteva di guardare al di là della luce.
Nessuna sagoma si interponeva tra me e lei, nessuna ombra si proiettava sul pavimento. Riuscivo a sentire il battito regolare del suo cuore. Mentre mi avvicinavo, l’intensità del nostro legame si accresceva, nutrito dal mio amore incondizionato.
Esitai mentre sfioravo la maniglia fredda.
Avrebbe resistito ancora il mio cuore ormai silenzioso già da un po’? Cosa c’era ad attendermi dall’altra parte? Mi vestii di tutto il coraggio che possedessi per affrontare le mie paure e lui mi strinse la mano, pronto a sostenermi in qualsiasi situazione.
Incapace di trattenermi ancora, sfidai la sorte…incontrando tutto ciò che avrebbe segnato indelebilmente il nostro futuro.
"Dedicata ad una persona che non potrò mai avere la possibilità di conoscere."
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Alice/Jasper, Bella/Edward, Carlisle/Esme, Charlie/Renèe, Emmett/Rosalie
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Successivo alla saga
Capitoli:
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Casualità

«Come mai tutto questo traffico?» chiesi tamburellando con le dita sul cruscotto.
«Non saprei proprio…» fece spallucce.
«Uffa, non è possibile…» mi lasciai cadere sul sedile.
«Dai, magari fra poco si sistema tutto…» mi consolò Edward.
«Si, come no!» lanciai un’occhiata fuori al finestrino. La fila interminabile di auto si snodava lungo tutta la strada. Sospirai, prendendo il cellulare dalla tasca. Erano le undici passate. Cercai tra la rubrica il numero di Angela e composi il numero. Squillava a vuoto. Stavo per riagganciare quando rispose.
«Ehi, Bella!».
«Angela, purtroppo temo che non potremo vederci stamattina…sono fuori città» mi scusai.
«Ah, capisco…quando torni?» chiese, dispiaciuta.
«Per l’ora di pranzo sarò a casa» o almeno, lo speravo.
«Se ti va e non hai altri impegni, puoi passare da me dopo pranzo. Oggi sono sola perché la mia famiglia ha organizzato un picnic grazie alla bella giornata e Ben è stato invitato da Austin» propose.
Guardai Edward in attesa di una sua risposta. Sarebbe stato un problema per lui se mi fossi allontanata dopo pranzo?
«Non ci sono problemi» sussurrò, avendo sentito la conversazione.
«Okay, va bene. Ci vediamo dopo, allora» risposi.
«Perfetto! A dopo, Bella» mi salutò lei.
Riagganciai, soddisfatta di aver risolto tutto.
«Finalmente!» esclamai quando l’interminabile fila di auto davanti a noi inizio a muoversi, anche se a passo umano.
Edward ridacchiò.
Dopo tanto giungemmo a casa. Parcheggiò nel vialetto e scese velocemente per aprire la mia portella ma era troppo tardi: ero già scesa da sola. Sapevo che ci teneva ad essere il solito gentiluomo ma ero abbastanza innervosita dalla lunga fila ingiustificata.
Fece in tempo a prendermi per mano prima che ci venissero ad aprire.
«Mamma!» gridò Renesmee, venendomi incontro.
«Tesoro mio, come stai?» la presi in braccio e la strinsi a me.
«Sono felice di vedervi, mamma! Mi siete mancati tanto!» posò il piccolo viso nell’incavo del collo e i miei capelli le coprirono il viso. Li spostai per darle un bacino sulla guancia.
«Anche tu ci sei mancata tantissimo, piccola mia» inspirai a fondo il suo odore. A differenza di quello umano, non mi era mai costata alcuna fatica starle vicina. Il suo profumo era buonissimo ma non era la sete a farmi provare quella sensazione…era un sentimento molto diverso. Ero esattamente una madre come tutte le altre: amavo follemente mia figlia e se avessi saputo che non l’avrei vista per tanto tempo (il tempo era relativo ormai e anche poche ore senza di lei sembravano un’eternità), avrei portato con me qualsiasi cosa che mi ricordasse lei.
«Ehi Edward! Deduco che vi siate divertiti molto stanotte…avete un’aria stanca!» Emmett credeva di essere spiritoso con le sue battute decisamente fuori luogo, soprattutto quando c’era anche Renesmee.
«Certamente molto più di quanto ti sia divertito tu in settantadue anni, Emmett» gli rispose soddisfatto e io li guardai imbarazzata. Emmett scosse la testa incredulo e tornò a guardare la partita di baseball.
«Ma non vale! Era home run! Nemmeno un vampiro sarebbe stato in grado di prendere la palla!» inveì.
Edward accarezzò i capelli di Renesmee e si avvicinò per baciarla sulla fronte. Lei gli si gettò in braccio e io dovetti lasciarla andare, rassegnata. Immaginai che un giorno l’avrei dovuta lasciar andare via per davvero…e non tra le braccia di Edward ma tra quelle di Jacob. Mi sentii inevitabilmente ferita: volevo bene a Jacob ma non riuscivo ancora a capacitarmi del fatto che avesse avuto l’imprinting con mia figlia. Un licantropo con una mezza vampira. Era totalmente innaturale. Nonostante tutto non potei fare a meno di arrendermi a quella situazione; dopotutto c’erano anche dei lati positivi: conoscevo benissimo Jacob e sapevo che non le avrebbe mai fatto del male; Renesmee, inoltre, sarebbe potuta essere sempre sé stessa.
Edward fece oscillare le chiavi della sua macchina davanti ai miei occhi, come il pendolo di Chevreul, distraendomi dai miei pensieri.
«Amore, ti sei incantata?» rise. Io lo guardai colpevole e risi anche io.
«Devo ricordarti che hai un appuntamento, signora Cullen?» inclinò la testa, divertito.
«Certo, certo! Hai pienamente ragione!» corsi verso la porta. Poi tornai indietro per riprendere le chiavi che mi ero dimenticata nella fretta, nonostante Edward le tenesse ancora in mano, davanti i miei occhi. Lui stava ancora ridendo.
«Ti amo!» lo baciai delicatamente e salutai anche Renesmee.
Non ero in ritardo però se avessi perso tempo, avrei finito per esserlo. Guidai con un certo nervosismo ingiustificato. O forse era rivedere Angela a mettermi ansia? Scovai nei luoghi nascosti del mio cervello per trovare una spiegazione: mi ritrovai senza alcun motivo e davanti ad un semaforo rosso. Mi fermai di colpo. Non volevo infrangere il codice della strada! Attesi con ansia che scattasse il verde ma proprio mentre stavo per partire feci spegnere la macchina.
«Fantastico!» dissi a me stessa. Per fortuna, era ancora ora di pranzo e non c’era nessuno nel raggio di due chilometri. Chissà per quanto avrebbe riso Edward se fosse stato lì accanto a me! A volte mi chiedevo se fossi una vampira mal riuscita, in quanto avevo ancora piccoli problemi con le faccende umane. In realtà, dopo la trasformazione mi sentivo finalmente a mio agio nel mondo, come se finalmente avessi trovato il mio posto. Mi piaceva paragonare la mia vita alla storia del brutto anatroccolo. In fondo, era molto più simile di quanto sembrasse. Quando vivevo a Phoenix ero insignificante, come lo ero sempre stata prima di giungere a Forks. Non avevo mai vantato una vita sociale degna di considerazione, né avevo mai pensato di entrare in qualche club dopo la scuola o peggio, diventare una cheerlader come sognavano le altre ragazze. Passavo il mio tempo a leggere e a studiare. Eppure nemmeno in quello ero la numero uno. Mi sentivo esattamente come il povero anatroccolo che tutti vedevano come brutto e impacciato in qualsiasi cosa facesse. Per me era esattamente così…come se tutti mi considerassero un reietto della loro specie, io ero quella sbagliata. Quando finalmente il brutto anatroccolo si trasforma in un fantastico cigno, tutti si rendono conto della sua immane bellezza, di come lui sia davvero estraneo al loro mondo perché destinato a qualcosa di superiore. Sembrava fosse proprio questo il mio destino, come quello del brutto anatroccolo.
Mi concentrai sulla guida, evitando altri errori di concentrazione. Dopotutto, non era stata colpa dei mancati riflessi da vampiro: avevo dimenticato io di inserire la prima, pretendendo di partire con la terza. Praticamente un genio!
Quando arrivai a casa di Angela, mi aspettava vicino alla porta con una coperta avvolta intorno alle spalle e una tazza di tè fumante tra le mani. Doveva essere tè verde dall'odore. Appena mi vide, mi salutò con un cenno, e quando le fui vicina mi strinse la mano e si illuminò in un sorriso che si spense subito, lasciando sul suo volto un'espressione di tristezza. La guardai dispiaciuta. Mi invitò ad accomodarmi sul divano e mi chiese se gradissi del tè o del caffè. Rifiutai, ringraziandola. Lei sospirò, sedendosi sulla poltrona di fronte e nascondendosi il viso tra le mani. Era calato un silenzio snervante, interrotto poi dal suo pianto. Mi osservò con lo sguardo di una persona innocente che era stata appena condannata a morte, così stanca da essere pronta a farsi carico di una colpa, senza avere nemmeno più la forza di controbattere.
«Angela...che hai? C'è qualcosa che ti non va? E' per via di Ben?» chiesi preoccupata.
«No...anzi. Con Ben va tutto alla grande» La guardai, in attesa che continuasse.
«Bella... tu sei l'unica persona con cui posso confidarmi in questo momento difficile. Non avevo intenzione di parlarne con nessuno ma quando ti ho rivista ieri, sapevo che saresti stata l'unica che avrebbe potuto capirmi» cercava le parole. Non riuscivo ad immaginare cosa potesse tormentare una povera ragazza come Angela, sempre discreta, educata e dolce.
«Che succede?» dissi con voce quasi strozzata.
«Io non so come dirlo perché…» non riuscì a finire la frase.
«Ehi» mi avvicinai a lei. «Sul serio…cosa c’è che non va?» le mie parole risuonarono nel vuoto. Angela aveva ancora il volto devastato e non accennava parola.
Non sapevo se insistere o lasciar perdere. Cosa voleva dirmi di così brutto da non trovare le parole? La guardai confusa e disorientata.
«Forse ho sbagliato a chiederti di vederci» concluse poi. Io ero dispiaciuta perché non volevo fosse triste ma non sapevo cosa dirle poiché non ero a conoscenza della causa della sua tristezza. Avrei voluto ci fosse Edward in momenti come questi! Se le avesse letto nel pensiero, avrei saputo cosa dirle per consolarla. Invece no: buio completo.
«E’ per l’università? Ci sono problemi?» mi muovevo ceca tra le sue parole.
Angela scosse la testa senza aggiungere nemmeno un piccolo dettaglio. Rendeva le cose estremamente complicate!
«Io non capisco…e non ti sono nemmeno d’aiuto» sospirai.
«Lo so, Bella. E’ solo che…non è semplice» cercò di spiegare.
«Provaci» la incitai.
Il suo sorriso forzato contrastava lo sguardo perso e disilluso di Angela. Pensai fosse sul punto di piangere quando i suoi occhi divennero lucidi però non dissi nulla: restai in attesa che parlasse.
«Sono molto malata e mi restano a malapena sei mesi di vita. E' una malattia rara che porto con me dalla nascita ma l'ho scoperta poco tempo fa. Incurabile. Smetterà di esistere quando io...morirò» le lacrime segnavano il suo volto. Se avessi potuto, avrei pianto anche io. Istintivamente, forse più veloce di quanto avrei dovuto mi avvicinai e la abbracciai, ignorando la differenza di temperatura tra il mio corpo e il suo.
«Ti voglio bene, Bella...mi mancherai» sussurrò a voce debole.
«No, non dire così...ti prego! Troveremo un modo, tornerà tutto come prima» pregai che esistesse davvero un modo per salvarle la vita.
«Lo vorrei tanto. Non so nemmeno come dirlo a Ben...non voglio che mi guardi morire, non voglio che soffra...» il suo sguardo era spento. Nessuno avrebbe mai voluto veder soffrire la persona che ama...soprattutto quando la causa della sua sofferenza era proprio lei. L'avrei aiutata o almeno ci avrei provato. L'unica cosa che potessi fare era portarla da Carlisle. Ci avrebbe aiutato.
«Hai con te gli esami?» chiesi, afflitta.
«Si, certo...li porto sempre con me per evitare che Ben o qualcun altro li trovi...» spiegò.
«Vieni con me» le dissi senza aggiungere altro.
Salimmo in macchina e avvisai Carlisle che sarei arrivata con una mia amica, così poteva avvisare Edward per tenere lontana Renesmee. Mi fidavo di Angela però preferivo che rimanesse all’oscuro di certe realtà.
Guidai osservandola di tanto in tanto; guardava fuori dal finestrino, come rapita da un totale sgomento che si era insediato insieme alla sconfitta. Non doveva mollare: se c’era una soluzione, avrei fatto di tutto per impedire che si arrendesse.
                                                                      Quando arrivammo vicino casa, lo stupore segnò il suo volto.
«Non sei mai stata a casa nostra?» chiesi, pensando alla festa del diploma organizzata da Alice e cercando di ricordare se lei ci fosse o meno.
«Si, alla festa del diploma» rispose.
Alzai le spalle, cercando di capire la ragione di tanta meraviglia. Carlisle venne ad aprire la porta e ci invitò a seguirlo nel suo studio. Lasciai che Angela mi precedesse salendo le scale.                                                                                     
«Carlisle, scusa se ti disturbo...» iniziai ma lui mi interruppe.
«Figurati, Bella...che succede?» chiese preoccupato.
«Lei è Angela, una nostra compagna di scuola» la presentai.
«Salve dottor Cullen» salutò lei educatamente mentre io già gli passavo gli esami.
Lui ci mise un attimo per leggere e mi guardò sconvolto.
«E' così grave?» chiesi disperata.
«Bella, lei sa già tutto?» mi guardò prima di parlare. Annuii.
«So che non mi resta tanto tempo...e so anche che non ci sono cure. Bella spera ci sia una soluzione...e non vuole che mi arrenda» mi sorrise.
«Tipico di Bella, no?» l'aria era così cupa da bruciare gli occhi.
«Già...» concordò lei.
«Quello che tu dici è vero...però devo anche dirti la verità. Ci sono delle cure sperimentali ancora non brevettate che forse potrebbero farti guarire almeno in parte. Ma potrebbero anche far peggiorare la situazione irreparabilmente e...» non concluse ma avevamo capito.
«Voglio provarci, dottore. La prego. D'altronde cosa avrei da perdere?» lo implorò.              Carlisle la guardò incerto, poi acconsentì. Angela aveva ragione: cosa aveva da perdere? Se non ci avesse provato sarebbe morta lo stesso, invece lottando, sapeva di aver fatto anche l’impossibile. Il mio motto era: “Voglio provarci. E se fallirò, sarà perché non sono abbastanza capace, non perché non abbia lottato con tutta me stessa!” Lottare contro le cose sovrannaturali e sfiorare il confine con la morte era diventata quasi un’abitudine per me.
«Va bene. Ti inserisco nella lista con la massima urgenza. Domattina ci vediamo in ospedale. Devo fare un giro di chiamate e chiedere ad altri colleghi più esperti del settore» fece un sorriso forzato. Non avevo realmente capito che malattia avesse però sapere che c'era una speranza mi rendeva felice. Carlisle salutò Angela e la pregò di stare a riposo.
Mentre riaccompagnavo Angela a casa, il silenzio si materializzò nell’aria tesa e irrespirabile. Non sapevo come aiutarla o cosa dirle per farla stare un po’ meglio. La guardai sospirando: era a pezzi. Parcheggiai vicino casa sua e spensi il motore.
«Ehi Bella!» ruppe il silenzio.
«Dimmi!» forzai un sorriso.
«Mi prometti che non racconterai nulla nè a Ben nè e ai miei? Non voglio che stiano male...ti prego.» supplicò.
«Dovresti dirglielo tu! Non è giusto tenerli all'oscuro di tutto. Pensi che non soffrirebbero se...» sospirai. Non riuscivo a finire la frase. «Hai sentito Carlisle...» conclusi.
«Ti prego, Bella» mi guardò e non potetti fare a meno di acconsentire a quella stupida promessa.
Mentre scendeva dalla macchina, le ricordai di stare a riposo e di non preoccuparsi di nulla. Lei accennò un sorriso e mi ringrazio di tutto. Aspettai che girasse la chiave all’interno della serratura ed entrasse in casa. Quando mi assicurai che tutto fosse tranquillo, sparii a bordo della volvo metallizzata di Edward.
Tornai da Carlisle per capire qualcosa di più sulla situazione di Angela.
«Posso?» bussai dolcemente alla porta.
«Ehi, Bella...entra!» stava sistemando dei libri in un alto scaffale.
«Carlisle...cos'ha Angela? Non ci ho capito molto...»
«Ha una malattia rara che solidifica i muscoli in ossa e li rende un'unica cosa...impedendole di vivere... e procede velocemente. Non sarà facile e nemmeno una cura leggera per lei...dovrai starle vicino insieme ai suoi genitori. Avrà bisogno di te» mi guardò con compassione. Io mi morsi un labbro.
«Carlisle... lei non vuole che gli altri sappiano di questa storia. Ben e la sua famiglia sono all'oscuro di tutto...e mi ha fatto promettere di non dire nulla» ammisi.
«Un bel problema...» sospirò. «Non importa...cambierà idea. Gli umani sono così» sorrise e poi riprese le sue ricerche sui libri. Lo salutai Carlisle e uscii dallo studio. Sopraggiunse Edward seguito da Renesmee.
«Mamma! Dov'eri finita?» chiese, saltandomi in braccio.
«La mamma era con un amica...perché non vai a giocare con Jacob?» Le suggerii Edward, notando la mia espressione distrutta.
«Jacob è giù in soggiorno? Quando è arrivato? Non mi avete detto niente!» si lamentò ma sgattaiolò via prima che qualcuno potesse risponderle. Ridemmo.
«E' pazza di quel ragazzo, eh?» la guardai correre da Jacob.
«Dovrei odiarlo...» sospirò Edward.
«Perché?» chiesi perplessa e in risposta Edward mi guardò come se gli avessi posto la domanda più ovvia di tutto il mondo.
«Perché oltre ad aver tentato di rubare la mia ragazza, ora cerca di ammaliare anche mia figlia» mi cinse dal fianco mentre scendevamo le scale.
«Sei il solito petulante, sai?» risi.
«Beh, non mi avresti sposato se non lo fossi stato, no?» fece il suo solito sorriso sghembo che amavo tanto. Scossi la testa consapevole che in un modo o nell'altro avrebbe sempre avuto ragione lui.
«Mi dispiace per Angela...» disse serio. Aveva già saputo, probabilmente da Carlisle. Sospirai.
«Già. Sapevo di dover fare i conti con una cosa del genere prima o poi...solo che l'unica cosa che riesco a pensare è: non lei. E' così giovane ed è sempre stata una ragazza matura e responsabile. Non merita di soffrire tanto…» non riuscivo a capacitarmi che ad una ragazzina dolce ed esile come lei, potesse accadere una cosa simile.
«Non sempre ognuno di noi ha quel che merita davvero, lo sai...e purtroppo non si può sempre salvare tutti in ogni circostanza...non siamo supereroi, Bella. Ricordalo, sempre» concluse macabro. Non mi andava di sopportare il suo ennesimo monologo riguardo l'avermi privato dell'anima per una non-esistenza. Non riusciva proprio a vedere come tutto fosse perfetto!?!Lo tirai dal braccio verso le scale. In soggiorno Jacob e Renesmee giocavano ancora a scacchi. Erano settimane che lei tentava invano di fargli capire come dovessero muoversi le pedine. Lui proprio non riusciva a capirlo. La mente dei licantropi, probabilmente, era di gran lunga inferiore a quella dei vampiri. Renesmee portò la mano destra alla fronte, scuotendo la testa. Chissà se Jacob avrebbe davvero imparato un giorno o l'altro!
«No, non è così! Sarà la centesima volta che te lo ripeto! Il re non può muoversi ora» disse scocciata. «Muovi questa pedina» gli indicò con la mano la pedina dall'altra parte della scacchiera.
Risi e spinsi Edward fuori dalla porta.
«Ehi che modi!» si voltò quasi offeso ma io lo ignorai.
«Seguimi se ne sei capace!» iniziai a correre e lo seminai con facilità. Quando mi fermai per controllare dove fosse, qualcosa mi afferrò da dietro.
«Presa, amore mio» sussurrò all' orecchio.
«Non vale» mi lamentai.
«Sorpresa!» esclamò e sparì prima che mi voltassi.
Mi sedetti a terra incrociando le ginocchia. Poi sospirai. Mi comparve accanto all'improvviso.
«Non sei dell'umore, vero?» mi abbracciò e poi mi girò verso di lui, a pochi centimetri dal suo viso. Io, in risposta mi sedetti in braccio a lui, mentre dolcemente mi dondolava.
«In tutta la mia vita, oltre i ricordi legati alla mia malattia e alla gente che vedevo morire, non mi è mai capitato di dovermi sentire così. Un conto è vedere gente versata per strada...» si interruppe, forse per non turbarmi con i suoi ricordi. «Un altro conto è veder morire una persona che conosci e sentirti così...impotente. Non è nella mia natura» sorrise illustrandomi il suo punto di vista.
«Già. Sei abituato ad essere perfetto in tutto» sospirai.
«E dai, Bella! Capisco che da umana mi vedevi così, è normale...siamo attraenti per le nostre vittime. Ma adesso che sei come me, non dirmi che mi vedi nello stesso modo» rise.
«Non capisci...adesso è pure peggio. Se prima sembravi il fratello minore di Zeus, adesso sei proprio Zeus in carne ed ossa...con tutta la sua bellezza e il suo splendore» ammisi. Intrecciò la mano alla mia e mi spinse a terra.
«Sai, quasi non mi dispiace aver dannato la tua anima» sogghignò.
«Edward Cullen, da quando hai cambiato idea?» lo accusai, prendendolo in giro.
«Da adesso» chiuse gli occhi. «Però non credere che non me ne penta. Ogni giorno penso a come sarebbe andata diversamente per te. Avresti potuto avere una vita normale, frequentare un college a Jacksonville e vivere con tua madre...» iniziò ma io lo interruppi.
«Non mica starai dicendo sul serio! Il mio posto è qui con te! E poi lo sai, gli altri ragazzi...» mi guardava preso dal mio discorso. «...uomini...» mi corressi «...sono inutili e deludenti. Gli esseri umani sono troppo stupidi e incerti sui loro desideri...guarda Phil, era pazzo di mia madre e adesso è scappato non si sa dove, non si sa con chi» gli ricordai.
«Vero! E' stato carino da parte di Charlie andarla a trovare questi giorni a Jacksonville» commentò­.
«Pensavo sarebbe stato felice con Sue. In fondo però, sapevo che era ancora innamorato di mia madre. Sono rimasta molto sorpresa quando mi ha chiesto il "permesso" per andare da lei. Figurati! E' lui il padre e chiede a me se può andare» risi.
«E comunque signorino...» ripresi il discorso ma lui mi interruppe.
«Signorino proprio non mi si addice dato che in teoria potrei essere tuo nonno. Se lo scoprisse Charlie ricorrerebbe sicuramente a misure cautelari per rinchiudermi per pedofilia e stalking» sogghignò malefico. Alzai gli occhi al cielo.
«Edward...insomma. Mi lasci parlare?» sbottai, offesa.
«Okay, scusami» si avvicinò per farsi perdonare.
«Sai come la penso riguardo l'anima...ce l'abbiamo ancora e non puoi negarlo. Riflettici...» dissi prima che mi interrompesse di nuovo. E sapevo l'avrebbe fatto.
«Come ti sentivi ogni volta che ci vedevamo a scuola, o quando sapevi che ci saremmo visti?» chiesi, già immaginando di sapere la risposta.
«Non so se riuscirei a descriverlo esattamente. Ero al settimo cielo...come se non fosse potuto accadere nulla di più bello in quel momento. Anche se ci fosse stata un'apocalisse io non me ne sarei accorto. C'eravamo solo io e te. E basta» sorrise, giocando con i miei capelli.
«Un essere senz'anima potrebbe mai provare una cosa simile?» lo guardai sottecchi.
«Bè, no...però...» iniziò ma lo interruppi io stavolta.
«E ti ricordi come trattavi Mike Newton? Bastava anche che Charlie lo nominasse soltanto per infastidirti! L'avresti ucciso volentieri...e non penso che l'avresti fatto per sete di sangue» risi io, consapevole che stavolta non avrebbe vinto lui.
«No, nessuna sete. Non avrei mai bevuto il suo sangue, nemmeno se fossi digiuno da una vita. Lo odiavo...senza ombra di dubbio. Ma tranquilla, anche lui mi odiava a morte» ricordò.
«Credo si chiami gelosia, sai?» lo canzonai.
«Credo di averlo letto nei libri...ho passato anni nelle cantine a leggere i sentimenti provati dai personaggi senza mai provarli davvero» spiegò.
«Perché eri chiuso...in cantina? A leggere?» chiesi sorpresa e lui rise.
«Guarda la nostra famiglia...prima del tuo arrivo» non riuscivo a capire così continuò.
«Carlisle aveva Esme, Emmett Rosalie e Alice Jasper. Ognuno di loro aveva ovviamente bisogno della propria privacy ogni tanto e leggere nel pensiero non mi aiutava affatto. Il fatto che fossero lontani da me non significava che io non…sentissi. Allora mi sforzavo di tenere la mente occupata sui discorsi e sui sentimenti dei personaggi dei libri. Ho anche preso in considerazione l'idea di andarmene. Per loro non sono mai stato un peso, però io mi sentivo così» non avevo mai immaginato la vita di Edward prima che ci conoscessimo ed era davvero triste.
«Ti amo, lo sai? E sono contenta di averti qui...ora e sempre. Spero tu abbia letto abbastanza libri...perché d' ora in poi non ne avrai più tempo...né per leggere né per nasconderti giù in cantina» mi avvicinai e gli misi le mani intorno al collo. Ero io quella più forte... e quella che avrebbe dovuto proteggerlo, anche se non ce ne sarebbe mai stato bisogno. La pace sarebbe stata eterna.
«Ti amo anch'io» mi baciò.
«E comunque, ti sono grata per essere stato tu a trasformarmi» sussurrai e lui mi guardò confuso.
«E' grazie al tuo veleno se adesso sono così. Appartengo a te e a nessun altro» spiegai.
«La logica dei tuoi pensieri mi stupisce ancora. Nonostante dovessi esserne abituato, ormai» rise. Mi sedetti in braccio a lui e poggiando la testa sul suo petto, chiusi gli occhi. Il nostro odore si univa a quello dell’erba umida, come se avesse appena piovuto.


La mattina dopo mi presentai puntuale per accompagnare Angela in ospedale. Renesmee ancora dormiva e Edward restava a guardarla. Lo facevo spesso anche io, tenendola per mano per vedere i suoi sogni. Solitamente riguardavano sempre me o Edward e inevitabilmente Jacob. Mentre aspettavo Angela, accesi la radio. Solo musica caotica e confusionaria, probabilmente era uno stratagemma per svegliare coloro che si recavano al lavoro in macchina di prima mattina. Angela aprì lo sportello, agitata.
«Ciao, Angela, come stai?» la salutai.
«Non ho chiuso occhio tutta la notte…e Ben è preoccupato perché ha notato che c’è qualcosa di strano in me. Gli ho mentito, Bella…gli ho detto che sono preoccupata per via dell’università. Voglio che lui continui gli studi mentre io rimango qui per le cure» spiegò il suo piano.
«Pensi davvero che lui acconsentirà a lasciarti qui senza esitazione?» era assurdo; conoscevo abbastanza Ben da sapere che non l’avrebbe mai lasciata qui. Probabilmente non sarebbe stato così testardo e determinato come Edward, ma non era stupido.
«E’ ciò che mi auguro faccia…» si giustificò.
«Bè, io non credo proprio lo farà» risposi. Mi dispiaceva vederla in quelle condizioni. Sapevo cosa significasse far soffrire le persone che ami perché ne avevo avuta più di un’occasione: avevo fatto soffrire Charlie, Jacob, mia madre e…Edward. Ricordavo benissimo il tormento e la disperazione sul suo volto mentre Renesmee era ancora nella mia pancia. Eppure, nonostante Edward all’inizio non mi appoggiasse, era bastato un po’ di tempo per fargli cambiare idea, o ero stata forse io, a non lasciargli altra scelta?
Per Angela era diverso. Non capivo di cosa avesse davvero paura. Solo di farlo soffrire? O non si fidava abbastanza?
«Bella…» disse con voce tremante. Mi voltai a guardarla.
«Io penso che dovrei…lasciare Ben. Sarebbe meglio» il suo viso si riempì di lacrime.
«Cosa? No! Sei impazzita?» ragionava persino peggio di me. Cosa la spingeva ad una simile conclusione? Era davvero così difficile mostrarsi deboli davanti alla persona che si ama? Pensai alle “clausole” matrimoniali: in amore e in malattia. Ben e Angela non erano sposati però erano fidanzati da qualche mese in meno di me ed Edward…Ben si sarebbe preso cura di lei. Anzi, avrebbe finalmente smesso di chiedersi la ragione dello strano comportamento di Angela. Se lei l’avesse lasciato sarebbe stato solo peggio per entrambi. No, non gliel’avrei permesso.
«Perché mai dovresti fare una cosa simile?» chiesi, scioccata.
«Perché sto morendo, Bella!» quasi urlò. «Ogni singolo giorno che passa è uno in meno di quelli che ho a disposizione. Più il tempo passa e più la situazione si complica. E se Ben tornasse al college, trovasse un’altra ragazza e mi dimenticasse…» scoppiò a piangere.
«Andrà tutto bene» la consolai, accarezzandole la spalla. Speravo davvero che andasse tutto bene. In ogni caso, avrei parlato io con Ben impedendole di commettere una sciocchezza…e tanti bei cari saluti alla promessa.
Entrammo in ospedale e raggiunsi Carlisle che ci aspettava con altri dottori.
«Lei è la signorina Weber, vero?» disse quello più basso e anziano. Lei annuì con la testa.
L’altro dottore più giovane, aveva l’aria di un intellettuale e teneva in mano dei fogli disordinati, mentre con gli occhiali sul naso leggeva impassibile. Poi alzò gli occhi, guardando Angela.
«Salve, ora le illustreremo tutto il procedimento sperimentale da seguire» spiegò.
Guardai Carlisle. 
«Va tutto bene, non preoccuparti» disse. Il silenzio era calato: Angela aveva dato gli esami agli altri dottori che ne leggevano con cura ogni minimo dettaglio.
«Io sto fuori» sussurrai a Carlisle.
Mi voltai verso la porta ma Angela mi trattenne dal braccio.
«Te ne vai?» chiese, preoccupata.
«No, ti aspetto fuori» le sorrisi.
Lasciai Carlisle e gli altri al loro lavoro e attesi nel corridoio dell’ospedale. Tutto era calmo e tranquillo; ogni tanto passava qualche infermiere che si trascinava annoiato attraverso il corridoio. Non si poteva dire che le altre persone amassero il loro lavoro quanto Carlisle! Camminavo avanti e indietro cercando un passatempo. Contai i passi che mi dividevano dalla hall dell’ospedale e dall’ufficio di Carlisle. Anche nella hall non c’era quasi nessuno: c’era solo una signora che parlava al telefono mentre altri dottori entravano ed uscivano dai loro uffici. Sospirando, mi sedetti su una di quelle piccole poltroncine nel corridoio. Erano attaccate le une alle altre, di colore blu notte. Presi il cellulare e chiamai Edward.
«Amore! Tutto bene?» rispose al primo squillo.
«Si, tutto bene, credo. Angela è dentro con Carlisle e gli altri dottori. Io sono uscita fuori già da un po’ e l’attesa è snervante» confessai.
«Eh, immagino. Vuoi che venga lì a tenerti compagnia?» propose.
«No, tranquillo… non importa. Aspetto ancora un po’» dissi e lo salutai.
Giocherellavo con il cellulare tra le mani quando la porta si aprì e io balzai in piedi.
«Bella, ho da fare alcuni esami di accertamento adesso…mi hanno detto che ci vorrà molto. Se vuoi andare non preoccuparti, tanto sono in buone mani» spiegò Angela, guardando Carlisle.
«Okay, va bene. Però quando finisci chiamami che ti riaccompagno a casa» risposi in fretta. Salutai anche Carlisle e presi la borsa. Cercai di ricordarmi dove avessi messo la macchina. Dannazione, ma come potevo essere così sbadata? Risi da sola. Poi ricordai dove l’avevo parcheggiata e mi diressi a passo lento.
«Bella!» Alice mi venne incontro, aprendo la porta di casa.
«Ehi, Alice!» la guardai sospettosa. I suoi occhi erano illuminati il che poteva significare una cosa sola: aveva in mente qualcosa che a me sicuramente non sarebbe piaciuto.
«Bella…ti prego non dire di no, ti prego!» mi implorò con le mani giunte.
«Cosa c’è?» sospirai.
«Io e Renesmee abbiamo pensato di andare a fare shopping a Port Angeles oggi!» disse esultante.
«Tu…e Renesmee?» la guardai sottecchi. Mia figlia impazziva per la piccola zia così ossessionata dalla moda, ma voler andare fino a Port Angeles sicuramente non era un’idea sua. Non sapeva nemmeno esistesse una città di nome Port Angeles!
«Bè…in realtà io l’ho proposto e lei ha accettato» confessò. Tipico di Alice! Non potetti fare a meno di sorridere. Cosa voleva? Il mio permesso per portare Renesmee con lei? Non ne aveva bisogno, sicuramente l’aveva già chiesto a Edward.
«Fantastico! Certo che potete andare! Basta che ti ricordi di farla mangiare e di non tornare troppo tardi» dettai le mie esili e prevedibili condizioni.
«No…non è questo che volevo dire» aggiunse.
«E allora cosa c’è?» mi innervosiva quando faceva tanti giri di parole.
«Ecco…ho convinto Edward a venire con noi…». Io risi. Ecco cosa c’era sotto.
«…però lui viene a condizione che venga anche tu» concluse.
La guardai sorridendo. Eh, la mia cara sorellina adottiva non si smentiva mai! Aveva ragione Edward quando diceva che non esisteva in tutto il mondo una creatura così piccola e così fastidiosa.
«E va bene» acconsentì. «Quando partiamo?».
Alice mi guardò al settimo cielo.
«Davvero vieni con noi?» il suo sguardo era identico a quello di un bambino che ha appena ricevuto qualcosa che non si sarebbe mai immaginato di avere.
«Certo…perché hai cambiato idea?» scherzai.
«No, no! Assolutamente! E’ solo che… non mi aspettavo che saresti venuta» l’avevo sorpresa. Ovviamente, l’avversione contro la moda c’era ancora, nascosta da qualche parte. Ero diventata molto più accondiscendente su tante cose…e la moda era decisamente una di queste. C’era un limite, però. Ad esempio, non riuscivo ad accettare quelle scarpe strane che avevano spopolato tra tutte le ragazze. Grazie a Dio, anche Alice era d’accordo con me. Quello stile proprio non si addiceva ai vampiri…e a me in particolare! Erano piccoli effetti collaterali di avere un marito del 1918.
Alice mi abbracciò e corse via, contenta.
Edward mi raggiunse appena lei sparì dalla mia vista.
«Hai sentito tutto vero?» risi.
«Esattamente…e mi fa piacere che ci uniamo anche noi ad Alice e a nostra figlia» disse veramente felice.
«Già, anche a me. Però Alice non mi ha risposto…quando andiamo?» ripetei.
«Credo dopo che Renesmee avrà mangiato. E’ già mezzogiorno e Esme sta cucinando per lei. E penso che…dovrà cucinare anche per Jacob» volò ad aprire la porta.
«Ciao papà!» esclamò Jacob, simulando un’entrata scenica.
Io scoppiai a ridergli in faccia mentre Edward lo guardò scandalizzato
«Sei diventato più deficiente del solito, Jacob Black?» chiese retorico Edward.
«Dai, Edward…è stato carino!» risi ancora di più.
«Cos’è un complotto? Lo difendi pure?» incrociò le braccia contrariato.
Mi avvicinai e mi abbracciai a Edward, continuando a ridere.
«Era uno scherzo, Edward!» rise Jacob.
«Di pessimo gusto!» commentò lui.
«Un giorno o l’altro ti chiamerò per davvero papà» disse minaccioso Jacob.
«Ecco…forse un giorno. E sarà molto molto ma molto lontano» rispose Edward tra i denti, mentre chiudeva la porta dietro di noi.
«Dov’è la mia Nessie?» Jacob si sedette sul divano, come se fosse a casa sua.
Né io né Edward avemmo il tempo di rispondere.
«E’ qui, le sto preparando il pranzo. Gradisci anche tu qualcosa da mangiare?» gridò Esme dalla cucina.
«Si, grazie Esme» si alzò, dirigendosi verso la cucina e noi lo seguimmo.
Renesmee saltò agilmente sulla sedia. Era così piccola ed esile! Ma anche già così alta da arrivare quasi al tavolo.
«Cosa stai cucinando, nonna?» giocherellava con le posate. Ricordai quando da piccola aveva distrutto un intero set di posate di Esme.
«Nessie, lascia stare le posate! Potresti farti male!» le sfilò dalle mani la forchetta e il coltello. Perché l’unico sentimento che provavo quando Jacob si comportava così era odio e voglia di picchiarlo? “Sei ridicola, Bella” pensai.
Renesmee lo guardò male quando prese lui le sue posate.
«Non mi faccio male…ci sto giocando. Ridammele» aveva un tono minaccioso.
«Non ci penso neanche, Renesmee…niente da fare» rispose perentorio Jacob. L’aveva chiamata con il nome intero, quasi per dare solennità alle sue parole.
Mi chiesi se fosse il caso di intervenire, prima che si mettesse a piangere, incrociasse le braccia infastidita, sbattesse i piedi o chiedesse aiuto a Edward. Invece lei mi sorprese.
Scese di colpo dalla sedia e balzò in un secondo di fronte a Jacob, sedendosi sul tavolo. Poi gli sfilò le posate di mano e prima che lui potesse rendersene conto, era già seduta al suo posto, con aria di superiorità. E superiore a Jacob lo era davvero. Lui la guardò stupita. Io risi, vedendo la mia piccola brontolona sconfiggere con maturità il suo tanto amato Jacob. L’avevo sottovalutata, attribuendole degli atteggiamenti infantili che avrebbe dovuto assumere e che invece non le erano nemmeno passati per la testa.
«Allora non hai capito…E’ pericoloso! Non l’avrai vinta» si alzò e le sfilò di nuovo le posate, stavolta mettendole via. Ma Renesmee non si perse d’animo. Si alzò, si diresse verso il tiretto delle posate e ne prese un’altra. Era ridicolo vederla in punta di piedi mentre con la mano cercava di prendere la prima cosa che riusciva a raggiungere alla cieca.
«Quando fa così mi ricorda te» mi sussurrò Edward, senza che gli altri potessero sentirci.
«Sei assurda! Okay, hai vinto tu! Sappi che sei peggio di tua madre!» sbottò Jacob.
Renesmee lo guardò dispiaciuta; si avvicinò a lui, guardando il cucchiaio che aveva in mano. Poi lo poggiò sul tavolo davanti a Jacob e incrociando le braccia dietro la schiena, si sedette composta alla sedia.
«Così va bene» si compiacque Jacob mentre Renesmee alzò gli occhi al cielo, proprio come faceva Edward.
«Guarda che l’ha fatto solo per non sopportarti ancora» Edward cercò di non ridere mentre parlava.
«Ora basta a parlare! E’ ora di pranzo» li interruppe Esme.
Aveva preparato un panino per Jacob e una pizza per Renesmee.
«Evvai! Grazie nonna!» la pizza era uno dei suoi cibi preferiti. Come tutti i bambini, preferiva di gran lunga le caramelle, pizza, patatine e tutte le schifezze varie. Carlisle ed Esme riuscivano tuttavia, a farle mangiare anche le verdure, la frutta e tutto ciò di cui aveva bisogno.
«Mamma…» disse mentre tirava un morso alla pizza. Ebbi un déjà-vu abbastanza stupido, tuttavia volli mostrarlo a Edward e lasciai che lo scudo scivolasse oltre di lui. Ricordai la volta in cui in aula mensa, riempì il suo vassoio dicendo che metà era per lui. All’inizio pensai che scherzasse, ma quando lo vidi mangiare la pizza mi sorprese. Ricordai esattamente l’istante in cui allungò la mano disinvolto verso il trancio di pizza e lo morse cercando di nascondere il suo disgusto. Edward si voltò con un riflesso involontario verso di me, come se l’avessi chiamato. Non era abituato a sentire i miei pensieri e mi guardò gioioso.
«Già, ricordo anch’io» ridacchiò.
«Ha detto zia Alice che venite anche voi con noi a Port Angeles. E’ vero?» continuò Renesmee. Persa nei miei pensieri com’ero, avevo dimenticato che mi stava parlando.
«Si, tesoro. Quando finisci di mangiare andiamo» le confermai.
«Andate a Port Angeles? Quando? A fare cosa?» chiese subito Jacob.
«Shoooopping!» rispose Renesmee al settimo cielo. Poi pensò curiosa.
«Certo che può…se vuole!» rise Edward, leggendo i suoi pensieri.
«Mamma…può venire anche Jake con noi?» chiese il permesso anche a me.
«Vuoi venire con noi, Jake?» domandai a lui.
«Non saprei…» guardò Renesmee incerto.
«Dai, ti prego, vieni, vieni con noi!» lo implorò abbracciandolo. Era finita: non poteva resistere alle richieste di Renesmee.
«E va bene, piccola!» acconsentì.
All’improvviso vibrò il cellulare nella tasca. Era Angela.
«Scusatemi un secondo» dissi, spostandomi verso la porta.
«Angela, dimmi» risposi.
«Ehi, Bella. Va tutto bene. Ora ho finito le visite e i risultati sono buoni: posso sostenere le cure sperimentali!» il suo tono era un po’ più felice.
«Fantastico! Comunque dammi due minuti e sono da te».
«No, tranquilla. Mi riaccompagna il dottor Carlisle, se non è un problema per te» anche lei chiedeva il mio permesso?
«No, figurati! Non ci sono problemi! Allora ci sentiamo presto. Per qualsiasi cosa fammi sapere».
«Okay, grazie Bella. A presto!» mi salutò e riagganciai.
«Allora…» esordii tornando dagli altri. «Siete pronti?» chiesi abbracciando Renesmee.
«Certo!!!» gridò felicissima.
Prendemmo la macchina di Edward. Io mi sedetti avanti insieme a lui mentre Alice, Renesmee e Jacob si sedettero dietro. Dall’espressione di Alice dedussi che non fu entusiasta come Renesmee della presenza di Jacob. Nonostante tutto non si perse d’animo.
«Sei pronta per comprare tantissime cose nuove?» chiese a Renesmee.
«Si!! Non vedo l’ora» sorrise, mettendo in mostra i piccoli dentini bianchi.
«Papà, siamo arrivati?» si lamentò poco dopo, per l’ennesima volta.
«Ci siamo quasi» Edward rise della sua impazienza.
«Uffa, non arriviamo mai!» poggiò la testa sulle mani.
«L’impazienza l’ha presa da te senza ombra di dubbio» mi sussurrò, divertito e risi anche io.
In realtà ci avevamo impiegato appena un’ora eppure Renesmee già si stava annoiando.
Quando finalmente arrivammo, Alice propose di dividerci. “Ma che idea geniale!” pensai ironicamente.
«Io, Jacob e Renesmee andiamo di qua, voi andate per conto vostro» il tono di Alice non ammetteva repliche. Renesmee diede una mano a Jacob e l’altra a Alice e iniziarono ad incamminarsi. Io e Edward rimanemmo immobili mentre li guardavamo andare via. Renesmee si voltò e corse verso di noi. Aveva cambiato idea? Alice e Jacob la raggiunsero.
«Hai cambiato idea?» le chiese Edward.
«Veramente no…» allungò una mano verso di lui. Quando capii cosa intendesse scoppiai a ridere. Edward la guardò scioccato ma non poté far altro che assecondare la sua richiesta.  Prese il suo portafoglio e uscì le carte di credito.
«Scegli…quale vuoi?» gliele mostrò tutte. Caspita se erano tante! Lo guardai contrariata. Ricordai le lunghe passeggiate con mia madre, quando compravo i gelati per tutte e due e lei mi dava i soldi, giusto qualche dollaro. Edward invece le stava dando direttamente la carta di credito.
«Questa» indicò quella dorata.
«Okay» Edward gliela passò. Poi si abbassò per sussurrare il codice all’orecchio.
 Renesmee guardò la carta che stringeva in mano soddisfatta e sorrise. Poi tornò verso Alice e Jacob.
«Io avrei chiesto: su quale ci sono più soldi?» rise Jacob. Il solito ragazzino!
«La tengo io, Renesmee. Così non la perdi» le consigliò Alice. Renesmee non l’avrebbe ami persa, tuttavia non disse nulla e le diede la carta di credito. Poi si fece prendere in braccio da Jacob.
Il sole stava tramontando e il cielo si era tinto di una sfumatura color arancio con il contorno rosa scuro, quasi fucsia. Li guardammo allontanarsi verso i negozi.
«Hai commesso il più grande errore della tua vita, Edward Cullen» lo rimproverai per finta.
«Quale?» chiese, con aria innocente.
«Mai dare la carta di credito ad una donna…non la rivedrai mai più. Ne sei consapevole?» lo avvisai.
Lui rise. «Ci farò l’abitudine» si arrese. «Comunque, ti va davvero di fare shopping?» continuò.
«Ovviamente no» risi e lui ripeté le mie parole come se fossero la conferma dei suoi pensieri. Ormai mi conosceva perfettamente.
«Allora cosa ti va di fare?» chiese e io mi guardai intorno. Ricordavo ci fosse un parco da qualche parte.
«Potremmo sederci da qualche parte e aspettare che tornino» proposi.
Lui mi sorrise, come se si fosse già aspettato anche questa risposta. Lo guardai, con aria interrogativa.
«Prevedevo una risposta simile da te» confermò, alzando le spalle.
Facemmo una passeggiata mentre la brezza leggera ci abbracciava, circondandoci in un alone di tranquillità e quiete assoluta.
«Se non sbaglio, qui vicino dovrebbe esserci un parco…» suggerii.
«Già, è vero! Come mai non ci ho pensato prima!?!» mi tirò per un braccio.
«Con calma, eh!» ribattei.
Al parco non c’era quasi nessuno; ormai era quasi sera e, guardando con attenzione, si riuscivano a scorgere già le prime stelle che si sovrapponevano sul cielo ancora troppo chiaro per essere notte. Un essere umano probabilmente non le avrebbe viste. Ci sedemmo su una panchina e io mi sdraiai, poggiando la testa sopra le sue gambe. Lui mi accarezzava i capelli, un gesto che mi faceva tornare bambina. Avevo lo sguardo fisso al di là delle nuvole quasi trasparenti che solcavano il cielo di tanto in tanto.
«Cosa guardi?» mi chiese, rompendo il silenzio.
Mi voltai incrociando i suoi occhi e gli sorrisi.
«Nulla di preciso. Osservo le stelle che acquistano man mano luminosità al calar del sole» risposi senza distogliere lo sguardo dal cielo.
«Ti piacciono le stelle, vero?» più che una domanda, mi sembrava volesse una conferma.
«Sono infinite. Nessuno può negare la loro esistenza perché basta alzare lo sguardo al cielo per vederle, ma nessuno può altrettanto essere certo di quante siano davvero» spiegai.
«Bè, se ci tieni possiamo contarle…abbiamo l’eternità» rise. Io scossi la testa, contrariata.
«Non capisci? E’ proprio questo il bello: non sapere quante siano! Possiamo studiare come nasce una stella o come implode, la sua composizione e tante altre cose…ma non sapremo mai con esattezza quante sono. Se scoprissimo quante sono, che gusto ci sarebbe?» chiesi retorica.
«Eh già, che gusto ci sarebbe?» mi fece da eco lui.
«Mi stai prendendo in giro, scemo!» colpì per scherzo il suo braccio.
«No, assolutamente! Non pensavo fossi interessata all’astronomia!» rise ancora.
«Infatti non lo sono…guardo le stelle e basta. Bisogna essere scienziati per osservare le stelle?» chiesi monotona.
«No, quella è la costellazione del Cancro e quella la costellazione di Idra» indicò le due costellazioni, disegnandole con la mano per renderle più evidenti.
«E da quando sei esperto di astronomia?» chiesi, accusandolo.
«Beh, ho studiato qualcosa a riguardo ma non ne capisco molto» ammise come se fosse vero. Sicuramente sapeva tutto alla perfezione!
«Ecco cosa succede quando non si ha nulla da fare» lo presi in giro.
«No, in realtà è qualcosa che conoscevo già e non ho dovuto faticare chissà quanto per ricordare» confessò.
«In che senso?» cosa voleva dire con: “è qualcosa che conoscevo già?” Le aveva già studiate? Quando era umano? Lo guardai in attesa di una risposta che non arrivava.
Guardò l’orologio. «Penso che dovremmo iniziare ad avviarci…staranno per arrivare» lasciò cadere il discorso e mi rassegnai…per il momento.
Mentre camminavamo, lo presi per mano come al solito.
«Quando hai studiato le stelle?» formulai la domanda in modo da non lasciargli scampo.
«Mia madre le conosceva bene e me le ha insegnate. Tutto qui» fine del discorso. Quando si parlava del suo passato o di sua madre si rabbuiava e diventava silenzioso. Questa volta decisi di non proseguire oltre.
Scorsi delle sagome in lontananza. Renesmee si avvicinò correndo.
«Mamma! Abbiamo preso tante cose belle! Guarda!» iniziò ad aprire le buste.
«Me le fai vedere a casa, tesoro…altrimenti ora cade tutto» la aiutai a prendere le buste.
«E voi? Niente shopping?» il tono di Alice era quasi di rimprovero.
«Nah, abbiamo preferito gironzolare per la città» rispose Alice.
Stavamo per entrare in macchina e Jacob teneva per mano Renesmee quando lei si allontanò correndo.
«Dove vai, Nessie?» gridò, inseguendola. Anche io la seguii e in un attimo fui dietro di lei.
«Renesmee! Che combini!» la rimproverai prendendola per mano. Lei si dimenò dalla mia presa e avanzò di poco.
«Mamma, guarda! C’è un piccolo cagnolino!» mi mostrò il piccolo cane che aveva visto da lontano e che stava accarezzando. Anche il cane sembrava contento della presenza di Renesmee.
«Arrow! Dove sei finito?» spuntò un bambino con il fiatone. Era magrolino e biondo cenere; doveva avere più o meno dieci anni. Si fermò prendendo fiato e accarezzando il suo cagnolino. Renesmee guardava il bambino curiosa.
«Ciao…» la salutò lui. «Grazie per aver fermato il mio cagnolino…inizia sempre a correre come una freccia. E’ per questo che l’ho chiamato così» le sorrise.
«E’ un cagnolino bellissimo» rispose con la sua vocina dolce.
«Io mi chiamo Jonathan e tu?» guardava mia figlia curioso. Questa era una delle tante ragioni per cui era meglio se Renesmee rimanesse lontana dagli altri. Era troppo rischioso permettere a qualcuno di avvicinarsi, soprattutto adesso che era ancora così piccola, troppo piccola per dimostrare già tanti anni.
«Io mi chiamo Renesmee» sussurrò lei e io la raggiunsi.
«Renesmee, dobbiamo andare» la tirai dal braccio.
«Anche io devo andare…i miei genitori si saranno chiesti che fine ho fatto» prese il cane dal guinzaglio. «Ciao…Rene…esme» ancora una volta ebbi la conferma che il suo nome era troppo complicato.
Renesmee guardò il bambino andare via, poi mi prese la mano e ci incamminammo verso gli altri. Jacob era rimasto un po’ indietro rispetto a me, che l’avevo decisamente preceduto, mentre Alice e Edward avevano assistito alla scena da lontano.
«Era tanto bello Arrow…» era dispiaciuta.
«Lo so, tesoro mio…ma è di Jonathan» le spiegai. Non poteva volere qualcosa che apparteneva a qualcun altro.
«Possiamo prendere un cane?» chiese guardando me e Edward.
«Ce l’hai già un cane!» rise Edward, indicando Jacob.
«Edward!» lo rimproverai con una gomitata. «Jacob non è il suo cane…anche se puzza come un cane» poi mi girai verso Jacob «Scusami, Jake, ma è vero» mi giustificai.
«Tranquilla, Bells…anche voi non siete il massimo, ma conviviamo tutti, no?» sorrise. A volte Jacob sapeva anche essere maturo. In fondo sapevo che quando c’era qualcosa di serio non si comportava come il solito bambino. Jacob e Edward erano molto diversi tra loro…e non soltanto perché a dividerli c’era un quasi un secolo, ma anche nei modi di fare: Edward era riflessivo mentre Jacob impulsivo. Nonostante tutto, anche Edward a volte si lasciava trascinare dall’istinto competitivo con Jacob.
«Amore, adesso non possiamo prendere un cane vero…» accarezzai dolcemente la guancia di Renesmee, mentre le parlavo.
«Quando sarai più grande te lo compra Jacob il cane» Edward sghignazzò. Lo guardai rassegnata.
«Davvero me lo prendi tu, Jake?» i suoi occhi si illuminarono.
«Certo, piccolina» le promise, lanciando un’occhiataccia a Edward.
«Andiamo adesso, su» Alice aprì le portelle per invitarci a tornare a casa. Si era scocciata o aveva altro da fare?
«Chissà cosa avrà preparato di buono nonna Esme per cena…» Alice finse di non vedere l’ora di mangiare. In quel momento capii perché aveva fretta: la mia brontolona aveva fame, ma presa com’era, non l’avrebbe mai detto.
Durante il viaggio di ritorno, Renesmee raccontò il suo pomeriggio passato a fare shopping con la zia, vantandosi di tutte le belle cose che aveva comprato e che non vedeva l’ora di farmi vedere.
«Ah, a proposito» Alice prese qualcosa dalla tasca e la porse verso Edward in attesa che la prendesse. Era la carta di credito che aveva dato a Renesmee.
«Bene…» disse lui. «Quanto devo essere preoccupato? Potrò utilizzarla ancora? O mi avete ridotto sull’orlo del fallimento?» Edward scherzava, ma conoscendo Alice, le sue supposizioni non sarebbero state tanto infondate.
«No, dai, sono state clementi per questa volta» rispose Jacob. «Però avresti dovuto vedere la faccia dei commessi quando Alice faceva digitare a Renesmee i codici» rise.
«Oh, lo vedo!» rise anche lui, probabilmente attraverso i ricordi di Jacob.
«Perché?» chiesi io.
«Cosa?» Jacob mi guardò confuso, come se avessi omesso la domanda.
«Che faccia avevano? Perché avrebbe dovuto vederli?» fui più chiara.
«Beh, vedere una bambina piccola pagare con carta di credito non capita tutti i giorni» rise.
«Potevate utilizzare voi la carta di credito!» dissi, scontata.
«Bella…forse non hai idea di quanto vostra figlia sia ottusa e cocciuta! Non ha voluto dire il codice a nessuno» spiegò.
Risi al pensiero. Renesmee che si ostina a fare tutto da sola, l’avrei dovuto immaginare.
«Lei è la creatura più terrificante che conosca…è esattamente l’unione della tua assurda ostinazione per le cose con la tenacia di Edward» disse quasi preoccupato.
Era difficile per me pensare che una parte di me potesse combaciare perfettamente con quella di Edward al punto di dare origine a una creatura così bella, intelligente e arricchita persino dai miei pregi umani. Era una soddisfazione. Ogni volta che guardavo Renesmee, riflettevo inevitabilmente sul legame che univa me, lei e Edward: gli altri erano tutti nostri parenti adottivi, simili soltanto nell’aspetto che accomunava noi come razza; invece noi tre avevamo un legame di sangue. Ero diventata madre nell’arco di un mese, senza nemmeno avere il tempo di rendermene conto o realizzare tutto ciò che ne sarebbe derivato. Eppure non mi sentivo persa né spaventata.
Edward aveva appena parcheggiato quando Renesmee volò già fuori dalla macchina, seguita da Jacob e Alice, ma appena entrammo in casa la mia bambina si voltò verso di me, abbracciandomi e nascondendomi. Non ci volle molto perché capissi anche io la causa del suo gesto.
«Ciao ragazzi! Jacob, ti fermi a cena?» chiese Esme, uscendo dalla cucina.
«No, grazie. Penso che mi tocchi raggiungere li altri…non li sento da un po’» salutò Renesmee e uscii.
«No, aspetta Jake! Portami con te!» gli gridò lei ma era già andato via.
La presi in braccio e ci dirigemmo verso Esme.
«Tesoro, non fare quella faccia…» cercò di convincerla Esme.
«Non se ne parla» era seduta al tavolo con le braccia incrociate, senza alcuna possibilità di farle cambiare idea.
«Bella, per favore. Aiutami» mi pregò.
In realtà solo all’odore mi veniva il voltastomaco però ci provai.
«Renesmee…mangia un po’ di pesce. Ti fa bene ed è…importante che tu lo mangi» non ero suonata affatto credibile. Cercai di trattenere il respiro ma il mio sguardo era eloquente. Sembrava dicesse: “non mangiarlo, fa schifo!”
Esme mi guardò sconfitta. «Ah, adesso ho capito…e va bene, lasciamo stare» si arrese e iniziò a prepararle un panino. Renesmee sorrise, compiaciuta.
«Bella, scommetto che anche a te non è mai piaciuto il pesce da umana?» era una domanda retorica; aveva già intuito la risposta.
«E’ che…» cercai di giustificarmi. «Charlie andava sempre a pesca ma non è mai riuscito nemmeno a farmi resistere all’odore. Ogni volta che portava il pesce a casa, era una fatica immane sistemarlo nel frigorifero ed era ancora più difficile cucinarlo per lui…la puzza si diffondeva per tutta la casa e…» ebbi un brivido. «No, proprio non mi piace» scossi la testa.
Esme rise e passò il panino a Renesmee che era affamatissima e guardò riconoscente la nonna.
«Forse è meglio se a Carlisle teniamo nascosto il fatto che non hai mangiato il pesce…che ne pensi?» domandò a Renesmee.
«Okay, nonna…è meglio se gli dici che l’ho mangiato…e se dovesse vederlo, gli dici che l’ho lasciato per Jacob» che gesto generoso da parte sua lasciare il pesce che tanto odiava a Jacob…se si fosse trattato di pizza, si sarebbe persino scordata di lui!  
Attesi che finisse di cenare e l’accompagnai in camera sua. Si mise il pigiama e si sistemò nel lettino. Io la guardai con rimprovero.
«Signorina, non dimentichi qualcosa?»
Renesmee inclinò la testa di lato, come faceva Edward quando gli era sfuggito qualcosa.
«Andiamo a lavare i denti, su» la presi per mano.
«Mamma, quando viene Jacob?» chiese.
«Mmm, beh non lo so. Domani credo» ipotizzai.
«Non viene a darmi la buonanotte…» era una triste affermazione.
«Forse dovrà rimanere con il branco, è importante, lo sai» le ricordai.
«Si, si…lo so» tagliò corto.
Tornò a sistemarsi nel letto e io le rimboccai le coperte.
«Buonanotte, tesoro mio» le diedi un bacio sulla fronte.
«Buonanotte mamma!» mi avvicinò a sé e mi baciò sulla guancia.
Edward ci guardò appoggiato alla porta della sua cameretta.
«Posso dare anche io la buonanotte a questa futura assetata di shopping?» rise.
«Papà! Hai visto le cose che ho comprato?» saltò giù dal letto e lanciai un’occhiataccia a Edward. Ora non si sarebbe messa a dormire per le prossime due ore! Prese le buste e le svuotò sul lettino. Aveva comprato tanti vestitini molto carini. Prese il vestito dalla grucce a si avvicinò allo specchio, appoggiandolo davanti a lei. Poi volteggiò verso di noi, facendo svolazzare la gonna del vestito.
«E’ bellissimo» commentò Edward.
«Già, è veramente molto bello» ero d’accordo con lui.
«Se volete ora lo provo» disse eccitata già sfilandolo dalla gruccia.
«Domani» la fermò Edward. «Adesso è ora di andare a nanna, è già molto tardi» concluse.
Renesmee lo abbracciò, stringendosi nel suo petto mentre i riccioli bronzo le coprivano il volto. Si sdraiò di nuovo nel letto, con sguardo rivolto verso di noi.
Mi avvicinai ad accarezzarle i capelli e le augurai di nuovo la buonanotte. Edward le sfiorò la fronte con le labbra e la lasciammo ai suoi sogni. Accendemmo la piccola lucina a forma di luna per non farla dormire completamente al buio. In realtà avevamo sistemato anche delle stelle fluorescenti sul soffitto che vegliavano il suo sonno. Chiusi la porta delicatamente e mi abbracciai a Edward.
«Un’altra giornata è giunta al termine» osservò.
«Già, è stata una giornata molto lunga» effettivamente sembrava fosse passato più tempo rispetto a quello che era passato davvero.
«Tra Angela e lo shopping non abbiamo passato molto tempo insieme» si lamentò.
«Rimedieremo…» sussurrai, consapevole dell’infinito tempo a disposizione. Lui sorrise e si avvicinò per baciarmi. 
   
 
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