Capitolo 7.
L’alba
di una nuova famiglia
In quelle
stesse ore, a Washington fervevano i preparativi per il trasferimento a
San
Diego. Da una settimana Matilda Grace Johnson era stata affidata
legalmente ai
coniugi Rabb. Era stato il giudice Johanna Houghton del Tribunale dei
Minori a
decretarlo ufficialmente. Le sue parole riecheggiavano continuamente
nella
mente di Harm: “Ricopro questo incarico da molti anni ormai e
nella mia lunga
carriera ho giudicato innumerevoli casi di minori coinvolti nelle
situazioni
più dolorose, assurde o violente. Mi è capitato
molte volte di dover togliere
dei bambini ai propri genitori e non sempre è stato facile
collocarli presso
famiglie affidatarie. Questa volta però il mio istinto mi
dice che voi rappresentate
la soluzione ideale per Matilda. E lo dimostrano anche le numerose
testimonianze della vostra idoneità, raccolte dal Capitano
di Corvetta Roberts,
fra le quali spicca la dichiarazione di un ammiraglio in congedo,
Albert Jethro
Chegwidden. Una vera arringa da manuale! Se anche mi fosse rimasto
qualche
dubbio, le sue quattro pagine, fitte e manoscritte, me lo avrebbero
tolto
definitivamente.”
Ancora una
volta, AJ si era comportato come un padre per Harm e Sarah.
Il
comandante Rabb non vedeva l’ora di poter avere tutta la sua
famiglia riunita finalmente
sotto lo stesso tetto. La mancanza di sua moglie gli faceva male
fisicamente,
contraendogli lo stomaco ogni volta che pensava a lei, e la data del
parto si
stava avvicinando a grandi passi e per niente al mondo se la sarebbe
voluta
perdere.
Dal canto
suo, sebbene fosse felice di andare a vivere con Harm e Sarah a San
Diego,
Mattie era molto nervosa all’idea di salire nuovamente su un
aereo. Certo, il
747 che li avrebbe portati in California non aveva nulla a che spartire
con il
biposto con il quale si era schiantata al suolo nemmeno due mesi prima,
ma il
ricordo dell’impatto era troppo vivo per affrontare il
viaggio senza ansia. Si
consolava dicendo che aveva ancora qualche giorno per farsene una
ragione,
procrastinando il momento in cui avrebbe dovuto fare i conti con le sue
paure.
Harm stava
concordando con il dottor Daniels le accortezze da usare per rendere le
lunghe
ore di volo meno stressanti per Mattie quando il suo cellulare
squillò. Il
display lo informò che si trattava di Frank. La cosa lo
sorprese, perché di
solito era sua madre a chiamarlo, così rispose
immediatamente: “Frank, va tutto
bene?”
“Harm,
dovresti anticipare il rientro a San Diego. Sarah è in
ospedale” gli disse.
“Come…
cosa…
come sta?” riuscì a chiedergli appena il cuore
riprese a battere più o meno regolarmente.
“I
medici si
stanno prendendo cura di lei e del bambino, ma ha bisogno di suo
marito”
No, Frank
non poteva aver detto bambino. Mancavano ancora quattro settimane alla
data del
parto. E poi Sarah aspettava una femminuccia, su questo non
c’erano dubbi.
“Il
bambino?” gli chiese titubante.
“Le
hanno
fatto un cesareo d’urgenza. E’ un maschietto, Harm.
Sei diventato papà!” lo
informò Frank, con un tono di voce che mischiava gioia e
preoccupazione. “Sono
entrambi monitorati e stanno rispondendo bene, ma la fase critica non
è ancora completamente
superata” aggiunse.
“Arrivo
con
il primo volo. Ah, Frank?”
“Dimmi,
figliolo”
“Prenditi
cura di loro” lo esortò.
“Sono
la mia
famiglia, Harm, non potrei fare altrimenti” lo
rassicurò l’anziano, con un tono
sicuro e determinato.
Harm chiuse
la comunicazione e appena riuscì a fare mente locale
spiegò brevemente al
dottor Daniels cosa era successo. Dovevano anticipare il trasferimento
a San
Diego e non si sarebbe mosso senza Mattie. Si recarono pertanto
entrambi nella
stanza della ragazza.
Appena li
vide entrare, Mattie capì subito dall’espressione
corrucciata del suo tutore
che era successo qualcosa di serio.
Dopo aver
concluso la telefonata con Harm, Frank tornò in camera di
Sarah. Sua moglie era
seduta al capezzale della puerpera e le stringeva una mano.
L’uomo si avvicinò
a lei dall’altro lato del letto e le accarezzò i
capelli. In quel momento, Sarah
comprese, per la prima volta in tutta la sua vita, cosa volesse dire
essere
figlia e avere dei genitori che si prendessero cura di lei. Anche se
Harm era
lontano, anche se il loro bambino era nato prematuro e riposava in una
culla
termica, sua moglie cominciò nuovamente ad avere fiducia che
tutto si sarebbe
risolto nel modo migliore. Aveva una famiglia che le voleva bene.
Il volo
verso San Diego gli parve interminabile. Dietro consiglio del dottor
Daniels,
avevano prenotato in business, così che Mattie avrebbe
potuto distendere completamente
le gambe e assumere una posizione più comoda. Gli era
costato un patrimonio, ma
per i suoi figli era disposto a tutto.
Figli.
Si
ripeté
quella parola più volte nella mente.
Adesso aveva
una figlia adolescente e un maschietto. Era diventato doppiamente
papà e non
poteva chiedere altro alla vita. Era riuscito a parlare con Sarah al
telefono
pochi minuti prima di salire a bordo dell’aereo e le parole
della moglie lo
avevano rassicurato che lei e il piccolo si stavano riprendendo.
Avrebbero
dovuto trascorrere ancora qualche giorno in ospedale, ma la fase
critica era
stata superata e non vedevano l’ora di abbracciarlo di nuovo
e di accogliere
Mattie nella loro famiglia.
Si
ritrovò a
sorridere al pensiero di poter finalmente rivedere Mac e conoscere il
loro
bambino. Il suo stato d’animo era decisamente molto diverso
rispetto a quello
che lo aveva accompagnato un mese e mezzo prima, quando si era recato a
Washington con il cuore pesante per le condizioni di Mattie. Adesso
stava
ritornando a casa con la famiglia al completo.
Appena
arrivarono al San Diego International Airport, Harm aiutò
sua figlia ad
accomodarsi sulla sedia a rotelle che ancora usava per percorrere i
tragitti
più lunghi, poi raccolse i loro bagagli e si avviarono
all’uscita. Ad
attenderli c’era il sottufficiale di prima classe Jennifer
Coates che abbracciò
entrambi con grande trasporto, in barba al protocollo e alla divisa e
con buona
pace di Rabb. Le due ragazze nutrivano un profondo affetto reciproco
che si era
consolidato durante il periodo in cui avevano vissuto insieme
nell’appartamento
accanto a quello dell’affascinante comandante Rabb.
“Signore,
lascio lei all’ospedale e accompagno Mattie a casa,
d’accordo?” propose
Jennifer.
“Harm,
voglio venire anch’io a trovare Mac!”
protestò immediatamente Mattie.
“Non
se ne
parla, ragazzina. Il volo è stato lungo e faticoso, hai
bisogno di riposare”
decretò Rabb con un tono di voce che non ammetteva repliche.
“Ma se
ho
dormito per la maggior parte del tempo! Dai, voglio venire
anch’iooooooooo”
insistette.
“Matilda
Grace, ci verrai domani. Promesso. Adesso va’ a casa con
Jennifer e fa’ la
brava” ordinò Harm e con queste parole concluse la
diatriba, nonostante il
volto imbronciato della figlia che riusciva a passare da un
comportamento infantile
e sbraitante a un atteggiamento maturo e posato nello spazio di un
battito di
ciglia. Benedetta adolescenza.
Come concordato,
Jennifer fece tappa al Naval Medical Center e poi proseguì
verso Carmel Valley.
Sceso
dall’auto, Harm si precipitò al reparto
maternità. Nella hall incontrò sua
madre, che lo abbracciò e lo accompagnò a
conoscere il resto della famiglia.
Appena
entrato nella stanza di sua moglie, Harm si avvicinò al suo
letto e la strinse
forte a sé. Rimasero così, persi l’uno
nell’altra, per alcuni minuti. Poi si
staccarono e, mentre asciugava teneramente le lacrime di commozione che
avevano
bagnato il bel volto dell’uomo, Mac disse: “Questa
volta non sono la sola a
piangere”
Sorrisero
entrambi
al ricordo di quando invece tanti anni prima, mannaggia, era stata lei
l’unica
a piangere perché Harm aveva deciso di abbandonare il JAG
per tornare a volare
i suoi amati Tomcat in servizio attivo sulla USS Patrick Henry,
lasciandola
senza nemmeno una pianta da annaffiare nel suo appartamento. Quanto
tempo era
passato da allora! Quanti anni avevano sprecato!
Poi Rabb,
per alleggerire la situazione, aggiunse: “Marine, devo
ammettere che avevi
ragione: in quel pancione nascondevi un maschietto”
“Ebbene
sì,
marinaio. Ricordati che noi berretti verdi siamo sempre
avanti!” rispose a tono
Mac. Poi qualcun altro si aggiunse alla loro conversazione. Udirono un
vagito
provenire dalla culla posta accanto al capezzale di Sarah.
Entrambi si
voltarono nella sua direzione e Harm, titubante, domandò:
“Posso prenderlo?”
“Certo,
è
tuo figlio!” gli rispose Sarah.
Con grande
cautela,
il comandante Rabb sollevò il piccolo dal lettino e questi
lo osservò con
attenzione, chiedendosi chi fosse quel gigante dall’odore
buono e dalle mani
calde che lo stava cullando. La mamma aveva il profumo più
buono del mondo, ma
anche questo non era male.
Un’ondata
di
amore puro travolse il cuore di Harm appena le sue iridi cerulee
incontrarono
quelle madreperlate del figlio.
“Vedo
che
sul braccialetto c’è ancora scritto
“baby Rabb”… non avevamo detto che se
fosse
stato un maschietto lo avremmo chiamato Matt come tuo zio?”
chiese a sua moglie
appena quel groppo di commozione che gli stringeva la gola gli permise
di
pronunciare una frase con un tono di voce percettibile.
“Ti ho
aspettato perché ho cambiato idea” gli
sussurrò.
Harm le
rivolse un’espressione interrogativa, continuando a cullare
fra le sue braccia
quel frugoletto con il pagliaccetto azzurro con la scritta Proprietà congiunta del corpo dei
marines e della Marina – ma dove
caspita l’aveva trovato Sarah? – dal quale sembrava
non riuscire a staccarsi.
“Vorrei
che
avesse un secondo nome” riprese Sarah. Poi spostò
lo sguardo sulla coppia
anziana che li osservava con affetto dalla porta della stanza, si
schiarì la
gola e disse decisa: “Vorrei che nostro figlio si chiamasse
Matthew Frank Rabb”
Sollevando
gli occhi, Harm incontrò quelli commossi dell’uomo
che era stato accanto a lui
e a sua madre per la maggior parte della loro esistenza e disse
semplicemente:
“E’ perfetto”
Nota
dell’autrice
Forse avrei
dovuto intitolare questa
ff “Padri”, perché in fin dei conti
presenta figure paterne diverse fra loro:
Harm, Tom, Frank e persino AJ. Ma quella canzone racchiude un messaggio
troppo
importante per non farvi riferimento. Nonostante tutto, nonostante le
difficoltà e gli ostacoli, vita in te ci credo. Lo dicono
– con i loro comportamenti
– i protagonisti di questa storia e prova a farlo anche
questa umile autrice.
Grazie per
avermi regalato il vostro
tempo e la vostra attenzione ed essere arrivati fino qui.
Un abbraccio,
Deb