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Autore: Amekita    10/04/2015    22 recensioni
{Speciale Pasqua}
[Jeff the Killer]
In un mondo che gira senza fermarsi, si possono trovare dei punti fermi?
Per la vita di qualcuno, dal passato travagliato e dal presente instabile, l'unica certezza è un insaziabile desiderio di sangue, accompagnato dalle lente rotazioni di una piccola giostra colorata...
Genere: Dark, Horror, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'Eerie blackness'
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\\Salve a tutti!
Scusatemi per la lunga attesa, ma ho avuto un mucchio di problemi col computer, e l'ho addirittura dovuto portare ad aggiustare T.T
Ovviamente questo è uno speciale di Pasqua un po' in ritardo (tutta colpa del mio computer -.-).

Comunque, come avrete visto, questa storia è su Jeff.
Come mai quella su Splendorman non è ancora uscita? Perché il mio computer me l'ha cancellata. Piango.
Per il momento non so quindi quando riuscirò a riscriverla, nel frattempo proseguirò con le altre storie, in attesa che mi ritorni l'ispirazione per il simpatico Splendy XD
Ho deciso di scrivere questa one-shot perché mi sono accorta di non averne ancora dedicata una a Jeff, nella mia serie sulle Creepypasta! O.o
In più ci tenevo troppo a ritornare su questo personaggio stupendo, avevo nostalgia.
Una cosa importante: questa fic non ha collegamenti con le mie altre storie su Jeff, “The bleeding killer” e “The bleeding killer -The Revival-”, quindi la casa non è stata bruciata.
Gli avvenimenti si articolano tra presente e passato, vi lascio alla lettura :3
-Amekita-

Disclaimer: il personaggio di Jeff the Killer non è di mia creazione, appartiene a chi detiene i diritti dell'opera.



TWISTED CAROUSEL


Gnik... gnik... gnik...
Una piccola giostrina giocattolo girava, ancora e ancora.
I cavallini in miniatura erano bianchi, parevano di porcellana, ma quella patetica finzione serviva solo per nascondere la loro natura di spenti esseri di plastica vecchia.
Gli occhi chiari del ragazzo, contornati da un marcato alone color pece, scorrevano vispi a studiare i rapidi movimenti del giocattolo, poggiato sul tavolino di fronte a lui.
Così vicino alla sua vista.
Il meccanismo a molla di metallo cigolava ad ogni rotazione della base, che permetteva agli animali di esibire le proprie colorazioni sbiadite, sfumate dal tempo.
Persino i cavallini facevano difficoltà a condurre il loro andamento ondeggiante, e le loro criniere plastiche ne evidenziavano l'animo spento.
I paletti che sorreggevano la cupola erano a strisce bianche e celesti, richiamavano il motivo dei pomi intarsiati con cui culminavano.
La chiave tramite cui si azionava il meccanismo era ridotta, di un ferro arrugginito, datata almeno quanto il giocattolo.
Un tempo quel vieto meccanismo avrebbe emesso una musichetta allegra e gioiosa, ma ora solo dei flebili suoni spenti fuoriuscivano dalle casse poste sotto la base, con un tono metallico, quasi come se le note uscissero da una radio vecchia.
Il ragazzo sbuffò, causando il flebile movimento di alcuni ciuffi di capelli neri, che gli ricadevano smorti sul viso. Ormai gli arrivavano poco sotto le spalle, a contrastare con la larga felpa che una volta doveva essere stata bianca, ma che ora lasciava distinguere chiaramente macchie scure per tutto il tessuto, in particolar modo nel davanti. C'erano numerose tracce di polvere e liquido secco, che aveva lasciato i marchi del proprio passaggio sotto forma di chiazze asciutte, simili a fuochi d'artificio in un cielo già nuvoloso.
Il gomito doleva a contatto con la superficie dura del tavolino, ma lui nemmeno ci badò; la pelle era praticamente insensibile, un fastidio simile non era che una bazzecola.
Le iridi quasi trasparenti di quello che tutti conoscevano come Jeff the Killer si alzarono di scatto, interrompendo quel contatto visivo intenso mantenuto a lungo con la piccola giostrina.
I suoi pensieri erano confusi.
Si alzò dalla sedia in legno senza troppi complimenti, lasciando che lo schienale battesse al suolo nello slancio. Le orecchie di Jeff si colmarono di quel fastidioso e prorompente tonfo, che gli procurò una forte fitta alla testa.
Barcollò, portandosi la mano destra al capo, nel vano tentativo di alleviare quel dolore.
Le tempie pulsavano, un insistente e trapanante ronzio gli invadeva la mente, inquinandola di rumori che solo lui poteva sentire.
Cercò di mantenere lo sguardo fisso sul giocattolo, ma non ci riusciva.
Stava ancora girando, quella maledetta giostra in miniatura.
Il ragazzo emise uno sbuffo divertito, data l'assurda situazione in cui si trovava. Era la giostrina a girare, o semplicemente la sua testa? Non poteva essere sicuro della risposta, dopo tutto l'alcol che si era scolato.
Come a confermare quella constatazione, il piede urtò contro qualcosa sul pavimento, che produsse un tintinnio cristallino. Jeff abbassò lo sguardo, costretto a sostenersi al tavolino, per poi scorgere una bottiglia di vodka abbandonata sul pavimento. Vuota.
Le gambe non sorreggevano il peso del suo corpo, sembravano poter cedere da un momento all'altro. Il ragazzo cadde in ginocchio, stringendo con forza i capelli tra le dita, quasi conficcandosi le unghie nella cute.
Il mal di testa era terribile, forse aveva esagerato.
La visuale ruotava, senza mai fermarsi, ricordava enormemente il movimento longitudinale di quei cavallini di plastica.
Jeff rise ancora a bassa voce, di tanto in tanto singhiozzando.
Sentiva il palato bollente, in bocca aveva un retrogusto dolciastro, che sembrava acquietare la propria confusione. Non si ricordava nulla della sera prima, assolutamente nulla.
Si guardò intorno, cercando di mettere a fuoco qualche immagine.
No, era impossibile.
Le pareti dal motivo broccato... le travi di palissandro... i solchi profondi nel pavimento...
quella era la sua vecchia casa.
Lottò ancora una volta contro un ennesimo giramento di testa, che lo fece sbilanciare; il ginocchio sinistro tornò poco più indietro, a stabilizzare l'equilibrio, ma una fitta acuta al polpaccio lo fece gemere.
Distrattamente portò lo sguardo alla gamba, scorgendo un lucido frammento di vetro conficcato leggermente nella carne.
“Cazzo...” imprecò, estraendo il pezzo affilato con un altro lamento soffocato.
Alcune gocce scarlatte si posarono placide sul coccio di bottiglia, proiettando tutte le tonalità di rosso. Jeff si portò il frammento davanti al viso, ammirando il sangue che lo ricopriva.
La forma della scheggia era romboidale, dalla punta estremamente tagliente, che sporgeva frastagliata verso l'alto. Proprio là si concentrava il liquido plasmatico, nella sua colorazione più scura, che propendeva al marrone. La tinta andava poi sfumando, trasformandosi in una gamma più chiara di amaranto, per poi ramificarsi in vari rivoli sottili, che venavano il vetro cristallino di un tono tenue, sul rosato.
Una goccia colò, sulla coscia sinistra del ragazzo.
Plink.
Jeff si riscosse da quella visione meravigliosa, poggiando quel pezzo vitreo sul pavimento in legno, ricoperto di polvere e muffa. Adesso che ci pensava, il naso bruciato percepì un vago odore, dalla fragranza inconfondibile. Nonostante fossero passati tutti quegli anni, ancora si poteva fiutare quel profumo meraviglioso, della stessa origine di quello della ferita nella gamba.
Era sangue.
Dolce, soave, inebriante odore di sangue.
Jeff inspirò quell'effluvio a pieni pomoni, gonfiando il petto e tenendo fisso lo sguardo, in contemplazione del vuoto davanti a lui.
Si alzò lentamente, ignorando il plasma che gli scorreva lungo il polpaccio macchiando gli aderenti jeans neri, e tornò a scrutare quasi con odio quella giostrina poggiata sul tavolino in mogano.
Dietro di lei si stagliava un paesaggio di carta da parati di un verde antico, i muri scrostati e crepati in più punti, che emanavano un fortissimo miasma di muffa.
Il killer nemmeno ci fece caso, era troppo fiso a scandagliare il giocattolo vecchio.
Un ricordo gli invase la mente, che lo scosse come uno schiaffo in pieno viso.

“Mamma, guarda!” la voce acuta di un bambino catturò l'attenzione di sua madre, dirigendola verso il gigantesco oggetto che il piccolo dito stava indicando con eccitazione.
La donna si girò a guardare suo figlio.
Quel bambino sembrava un angelo, con i suoi enormi occhi azzurri e i capelli chiari, tendenti al castano tenue. Era la sua gioia più grande, insieme a suo fratello Liu.
Il piccolo Jeffrey le stava mostrando con insistenza un'enorme giostra, che troneggiava nel luna park. Il bimbo aveva insistito talmente tanto per farsi accompagnare, che la madre non aveva proprio potuto fare a meno di accontentarlo.
Lo guardò con dolcezza, sfoggiando un sorriso caldo, dedicato esclusivamente al suo bellissimo bambino. “Hai ragione, è davvero una bella giostra!” esclamò contenta, rispondendo alla tacita affermazione del figlio. Lasciò che il braccio, accuratamente posizionato sopra il lucido tessuto del vestito di raso turchese, si dirigesse verso la manina di Jeffrey, stringendola con delicatezza.
Chiunque, vedendola, l'avrebbe potuta definire una bella signora: i capelli castani morbidi erano ben pettinati, rilucevano alla luce del sole, freschi di parrucchiera. Le iridi chiare, tendenti al verde soffuso, riflettevano tonalità di azzurro tenue, somigliavano a dei veri e propri lapislazzuli.
Le labbra erano sottili, ricoperte da una fievole patina di lucidalabbra rosa carne, come in una continuazione della pelle chiara. Il corpo era snello e longilineo, ma dalle curve ben evidenziate.
Indossava un vestito adatto alla calda stagione, anche se ugualmente consono al guardaroba raffinato della donna; era aderente, valorizzava la silhouette armoniosa del seno e dei fianchi, continuando in una gonna a sbuffo che arrivava all'altezza delle ginocchia, ricoperta da un sottile tessuto ricamato grigio perla, con fantasie floreali. Ai piedi un paio di scarpe Pumps bianche, dal tacco non esageratamente alto.
La madre rimase a contemplare il figlioletto che correva verso la giostra, mentre sprizzava felicità da tutti i pori. Sembrava che i bambini rimanessero incantati di fronte a tanti colori, e il piccolo Jeffrey non faceva eccezione.
Il bimbo studiava con espressione rapita e sognante quei cavalli sorretti dai pali rotanti che galoppavano come in una corsa senza fine, contornati da decine di lampadine colorate, in un trionfo di luci. Ammirava quei movimenti per interminabili minuti, senza staccare gli occhi trasognati nemmeno per un secondo, come a volersi imprimere nella mente ogni singolo particolare di quei giri.
La donna si avvicinò al bambino, che si era fermato a qualche metro dalla giostra.
“Vuoi farci un giro?” gli chiese dolcemente, già conoscendo la risposta.
Il bambino la guardò distrattamente, ancora con i pensieri in subbuglio; diresse le iridi marine proprio negli occhi di sua madre, limitandosi a fissarle.
Lei gli sorrise ancora, aspettando una conferma, che però non arrivò. Jeffrey scosse la testa impercettibilmente, rifiutando quell'invito. La donna rimase interdetta.
“Preferisco...” il bambino parlò piano, ritornando a guardare la giostra in movimento. “...guardarla.” terminò, di nuovo assorto nei propri pensieri.
La madre si limitò ad annuire, tenendo per sé i numerosi interrogativi.

Jeff barcollò, riportando le mani alla testa e stringendo violentemente i capelli.
Gli era sembrato di essere quasi risucchiato da quel ricordo, e la cosa per poco non lo fece vomitare.
Era disgustoso, semplicemente disgustoso. Ricordarsi ancora di quella laida vita passata, ributtante.
Il ragazzo indietreggiò sbilanciandosi, costretto da un giramento di testa a sostenersi con l'ausilio del muro. Quel fottuto muro che portava alla camera da letto dei traditori che erano stati i suoi genitori. Non appena realizzò l'origine di quella stanza, subito il palmo si staccò dalla parete, come se fosse stato scottato. Aveva chiuso con quella casa, per sempre.
L'alcol gli faceva fare cose strane, e non era la prima volta che si ritrovava chiuso là dentro.
Si girò verso la porta d'ingresso alle sue spalle, per uscire. Voleva andarsene da quel manicomio il prima possibile, stava diventando tutto troppo pesante per la sua mente provata dagli alcolici.
Le Converse nere fecero scricchiolare numerosi frammenti di vetro al loro passaggio, infrangendoli in miriadi di minuscole schegge scintillanti e affilate.
I cocci aguzzi scalfivano le suole già rovinate delle scarpe, ma il killer era troppo intento a cercare di stare eretto per curarsene.
La visuale girava ancora, e vibrava come se avesse ricevuto un colpo dritto in testa.
Jeff focalizzò la porta, ansimando pesantemente e tentando di rimanere lucido. Si mosse sorreggendosi alla parete, momentaneamente dimenticandosi di che superficie stesse scorrendo sotto i propri polpastrelli bruciati.
Riuscì finalmente a raggiungere la maniglia in ottone della pesante porta lignea, ma qualcosa lo bloccò proprio poco prima di girarla.
La testa si voltò, come se lo sguardo fosse stato catturato o richiamato da qualcosa.
Quella giostrina. Quella maledettissima giostrina. Quel fottuto regalo di sua madre.
Lo stava guardando da sopra il tavolo.
Il ragazzo poté giurarci, si era spostata di qualche centimetro. Sentiva gli occhi di quell'oggetto muto direttamente addosso, fissi e imperscrutabili.
Jeff sbuffò, scuotendo la testa seccato. Un capogiro particolarmente forte lo fece barcollare, e per poco non perse del tutto l'equilibrio; si appoggiò la porta, per poi decidersi ad aprirla una volta per tutte.
L'aria dell'esterno gli s'infranse contro il viso pallido come un'ondata fredda, che lo fece rabbrividire. I tagli ai lati delle guance gridarono di dolore, nonostante fossero ormai datati di anni.
Facevano ancora tremendamente male, ogni volta che la mano li sfiorava incerta una scarica elettrica amara gli perforava difilato il cranio.
Il killer mosse qualche passo scomposto in avanti, chiudendosi la porta della dimora abbandonata a tergo.
Che patetici.
Sogghignò. Nessuno aveva il coraggio di avventurarsi nella casa infestata del famigerato Jeff the Killer, nemmeno le autorità, che tra vedere e non vedere lasciavano passare ciò che capitava senza opporre una valida resistenza. Fantasmi? Presenze? Tutte assurdità. Ciò di cui dovevano preoccuparsi esisteva veramente, ed era il Mietitore che portava il nome del più prolifico assassino seriale che il mondo avesse mai visto. Il suo, nome.
Jeff ridacchiò a quei pensieri, lasciandosi alle spalle i ricordi.
Ora un altro pensiero gli infestava la mente: era un desiderio di sangue, prepotente e violento, che si fece largo tra i suoi sensi intorpiditi dall'alcol come una saetta.
La bocca si piegò in un ghigno, molto più vero di quello intagliato nelle guance.
Adesso arrivava il bello.

Erano ore che camminava, lasciando che il cielo s'imbrunisse.
Le tenebre l'avrebbero avvolto, e con lui anche le sue iniquità.
Gli occhi chiarissimi vagavano per le strade ormai deserte, scrutando attenti come quelli di un gatto ogni singolo scialbo edificio, in cerca di un minimo particolare che catturasse la sua attenzione.
Ancora barcollava leggermente, ma i sensi erano acuiti, più tesi che mai, pronti all'azione e a reagire al minimo rumore. Nemmeno badava al sentiero sterrato che i suoi piedi stavano percorrendo, o al fatto che pochissime luci brillassero nelle case.
Doveva essere tardi, poiché nel piccolo quartiere che aveva scelto non si vedeva più nessuno. La luna bianca gli confermò quella supposizione, ma non seppe definire l'ora precisa.
Tipico delle cittadine, comunque. Tutti si rintanavano nelle proprie insignificanti casupole al minimo cenno di buio, rinchiudendosi a chiave tremanti, nella speranza che il temutissimo killer non li potesse trovare.
Ma erano solo dei poveri illusi, quei comuni mortali. La Morte era inevitabile, imprescindibile, e il bello era che arrivava per tutti, prima o poi.
E quell'inevitabile occaso portava il nome di Jeff the Killer.
Gli occhi del ragazzo saettarono verso destra. Avevano finalmente captato un dettaglio spiccante.
Una piccola abitazione, scostata dalle altre, emanava ancora una flebile luce, appena distinguibile da lontano. I piedi di Jeff si mossero quasi da soli, e dall'andatura calma passarono ad un ritmo accelerato, terminando in una corsa svelta e silenziosa.
Il ragazzo, che ormai era diventato poco più di un'ombra, si fermò dietro lo steccato in legno che circondava la casa, stando ben attento a non essere a rischio di visibilità. Sarebbe stato un paradosso farsi beccare da qualcuno in una delle abitazioni poco distanti.
Una grande finestra dava sul giardino, e sembrava che la stanza visibile dall'esterno fosse proprio un salotto, con una grande tavola da pranzo.
Jeff si soffermò un attimo a guardare la fisionomia della struttura: una casa a due piani, perfetto. Niente di diverso dal solito, insomma.
Le pupille, dilatate per vedere al buio, misero a fuoco l'immagine che gli si presentava davanti.
Nel salotto c'era un viavai di persone, e in tutto si potevano contare tre membri familiari. L'uomo era sulla quarantina, mingherlino, stempiato. Quella che doveva essere sua moglie era all'incirca della stessa stazza del marito, se non un pochino più minuta. Sembrava che la fortuna stesse girando dalla parte del killer, una volta tanto.
Ma i coniugi non avevano mai suscitato una forte attrattiva in Jeff, che preferiva di gran lunga gli adolescenti.
E proprio in risposta alle sue richieste, la figlia dei due si unì alla cena, sedendosi di fronte al padre, con la donna a capotavola.
Nonostante la vista fosse limitata dall'oscurità, il cervello del ragazzo fu abbastanza veloce da interpretare i lineamenti della ragazza. Sembrava avere al massimo quindici anni, alta più o meno come i genitori, ma senza dubbio più piacevole. I capelli erano lisci e lunghi fino ai fianchi, chiari, ma il colore degli occhi non era abbastanza nitido da lontano.
Il corpo di Jeff fu percorso da un fremito, che partì dalla schiena per poi propagarsi per tutta la pelle. La sete di sangue si fece pletorica, esageratamente stimolata.
Tutti i muscoli fremettero, in fermento. Era una tortura dover aspettare che i tre andassero a letto, ma era sicuro che ne sarebbe valsa la pena. Già si pregustava il dopo.
Un fastidioso rumore lo riscosse, facendogli male alla testa. Sembrava quasi... una vecchia cinepresa, che come un fiume in piena gli portò alla mente vecchi ed indesiderati ricordi.
Quei fottuti ricordi.
Gli occhi di Jeff assunsero un'espressione esoterica, quasi apatica. Si persero nei movimenti del coltello argentato che la donna stava usando per tagliare il pollo al centro della tavola, mentre il marito e la figlia sorseggiavano quella che sembrava essere minestra.

Erano appena usciti dall'ospedale.
I quattro membri della famiglia Woods sedevano riuniti a tavola, ognuno davanti al rispettivo piatto di minestra.
Le pareti erano di un verde antico brillante, il ripiano in legno di mogano, altamente pregiato.
Il padre era a capotavola, sembrava quasi che avesse trovato nella scodella di minestra qualcosa di veramente interessante, dato che non staccava lo sguardo dal brodo placido.
La donna era seduta al lato sinistro, di fronte ai suoi due figli. Jeff e Liu.
Il ragazzo vicino a Jeff aveva una sciarpa a righe blu e verdi, che non aveva voluto togliere da quando erano rientrati a casa. Gli occhi verdi scrutavano il fratello alla sua destra quasi con ansia, come a studiarne ogni minimo movimento.
Nella sala regnava il più completo silenzio, interrotto solamente dal suono dei cucchiai che raschiavano il fondo dei piatti di ceramica bianca.
Nessuno osava fiatare, ma tutti guardavano Jeff di sottecchi, sperando che lui non lo notasse.
Era una situazione tremendamente imbarazzante.
Dopotutto, non capitava tutti i giorni di avere un figlio appena dimesso dall'ospedale dopo essere stato bruciato vivo. La sua faccia era... diversa.
Era strano girarsi e pensare di ritrovarsi davanti il vecchio Jeff, con i capelli chiari e gli occhi azzurri, mentre invece compariva una versione di lui totalmente diversa, fatta di pelle bianca e chioma corvina. Persino il naso era stato attaccato dalle fiamme, ora sembrava essere poco più che una vaga sporgenza, di cui si distinguevano solo le narici.
Ma la cosa che più aveva sconvolto quell'ordinaria famiglia era stato il suo comportamento.
Chiunque vedendosi allo specchio sarebbe inorridito, avrebbe pianto, urlato, magari qualcuno sarebbe anche svenuto. Invece... invece Jeff non aveva fatto niente di tutto ciò. Si era messo a ridere, toccandosi il viso martoriato ed esultando ancora più forte, quasi come se quello fosse stato il volto che aveva sempre desiderato.
Ma probabilmente era tutto normale, si consolarono così i genitori. Il ragazzo aveva subito un grave trauma, era ovvio che non ne sarebbe uscito indenne.
La signora Woods lasciò vagare lo sguardo nella propria minestra, muovendo il cucchiaio in movimenti circolari, giusto per distrarsi e lasciare che il tempo scorresse.
Suo marito sembrava inesistente, non guardava il figlio nemmeno di sfuggita.
Il silenzio era tombale, pesantissimo.
“Beh!” esclamò all'improvviso la donna, facendo sobbalzare tutti i presenti. Tutti tranne Jeff.
Si accorse solo in seguito che il tono di voce fosse uscito incredibilmente acuto e fuori luogo.
“Oggi... ho incontrato Barbera!” seguitò, balbettando per l'imbarazzo.
Jeff sbuffò, guardando la minestra con uno sguardo indecifrabile. Il fratello di fianco a lui non capiva proprio cosa gli passasse per la mente, era strano da quando era uscito dall'ospedale, e non solo fisicamente. Probabilmente i genitori non se n'erano nemmeno accorti, ma lui si. Conosceva bene Jeff, sapeva quando era il momento di lasciarlo da solo con i suoi pensieri, senza disturbarlo in alcun modo, e questo era proprio uno di quelli.
Liu voltò impercettibilmente la testa in direzione della madre, facendo cenno di no col capo cercando di non farsi vedere dal fratello.
Jeff alzò di poco la testa, e tutti rimasero spiazzati da quel movimento, l'unico che aveva compiuto in ben venti minuti di cena. La donna provò ad approcciare in qualche modo, stando attenta a dosare bene le parole, scegliendole con cura.
“Tesoro... vuoi... andare a dormire?” gli chiese flebilmente, quasi timorosa di una reazione violenta o inaspettata.
Gli occhi chiari del ragazzo si posarono direttamente sui suoi, e col solo sguardo la inchiodarono sul posto. La donna avvertì un senso di vertigine spaventoso, e poté giurare di aver percepito un brivido correre lungo la spina dorsale.
Si riscosse solamente quando la sedia di Jeff sfregò contro il pavimento, portata all'indietro.
Il figlio si alzò, continuando a fissarla. Mosse qualche passo verso le scale, senza mai distogliere lo sguardo da lei. Quegli occhi... sembravano volerla perforare.
Non erano più vivaci e brillanti come una volta, no. Erano spenti, vuoti. Assenti.
Era come se vedessero qualcosa che gli altri non potevano vedere, qualcosa di invisibile, o di incomprensibile.
Non si sarebbe mai dimenticata di quello sguardo, e non smise di pensarci nemmeno quando il ragazzo si girò per andarsene di fretta in camera sua, sbattendo la porta.
Per andare a dormire.

Jeff ansimò pesantemente, e boccheggiò come se fosse appena uscito dall'acqua e gli fosse mancato il respiro per molto tempo.
Il suo passato non avrebbe mai smesso di tormentarlo, lo sapeva.
Non si era neppure accorto che ormai i tre membri della famiglia stavano sparecchiando per andarsene a letto. Si tenne la testa con la mano destra, prendendosi un attimo per riprendersi e ritornare lucido.
Quella situazione era insopportabile, doveva porvi rimedio.
Doveva concentrarsi, ma non ci riusciva.
La mano destra si ficcò furiosamente nella tasca della felpa, estraendone un oggetto pesante e appuntito: il suo coltello. Il suo fidato e preziosissimo coltello.
Il killer portò la lama fredda e lucida sul braccio sinistro, mentre frettolosamente alzava la manica bianca della felpa. Scoprì l'avambraccio fino al gomito, e ammirò la propria pelle pallida come se fosse la cosa più meravigliosa del mondo.
Il suo sorriso storto s'inclinò in un ghigno. Il metallo affilato del coltello cominciò a incidere la pelle quasi delicatamente, in linee orizzontali. I tagli erano poco profondi, ma facevano male.
Il sangue sgorgò presto dalle ferite aperte, colando ai lati dell'arto in rivoli sottili, e il ragazzo si sentì rinato. Continuò a percorrere il proprio braccio sempre con maggior foga, cominciando ad ansimare e a gemere sommessamente, più dal piacere che dalla sofferenza.
La pelle era quasi insensibile da quando era sopravvissuto all'incendio, quindi il dolore ne era compromesso. Un chiodo fisso nel cervello gli imponeva di continuare, di continuare a ferirsi per godere di più, e fu quasi sul punto di cedere a quell'istinto.
Tack.
L'interruttore della casa che si spegneva lo bloccò da qualsiasi pensiero, facendogli alzare di scatto la testa in direzione del salotto. Attraverso la finestra ora non si vedeva più nulla, le luci erano spente.
Perfetto.
La lama smise di premere sulla pelle sanguinante, e Jeff ripulì velocemente il proprio sangue dalla lama con l'aiuto della lingua. Era il sapore più buono del mondo.
Balzò silenzioso verso il retro, dove aspettò per una decina di minuti.

Non ci era voluto molto per entrare, la gente non si preoccupava troppo di sigillare tutte le finestre.
Il buio regnava sovrano all'interno dell'abitazione, ma gli occhi del killer erano abituati anche alle tenebre più fitte, invalicabili per chiunque. Eccetto che per lui.
La casa non era niente di particolare: una scala in legno portava al piano superiore, in tutto c'erano tre o quattro stanze al pianterreno, il pavimento coperto da una moquette scura, di cui non si distingueva il colore. Sulle pareti parecchi quadri dai soggetti anonimi, qualche vaso sui mobili in legno e alcuni scaffali con libri. Tutti oggetti d'uso comune, che facevano intuire che la famiglia dovesse essere perfettamente regolare, nella norma, una come tante altre.
Jeff camminò piano, cercando con lo sguardo la stanza dei coniugi. Voleva lasciarsi il bello per dopo. La porta era socchiusa, non gli ci volle molto per scorgere le due figure assopite in un letto matrimoniale. Entrò silenzioso come un alito di vento, senza curarsi di richiudere la porta alle sue spalle: in un modo o nell'altro sarebbero morti lo stesso.
Si avvicinò piano a studiare meglio i due. L'uomo era sulla destra, e dormiva scomposto, con la schiena rivolta verso il basso e le braccia abbandonate lungo i fianchi, la donna riposava vicino a lui ed emetteva sospiri profondi, segno che fosse addormentata pesantemente.
Era meglio di quanto non sperasse.
L'adrenalina cominciò a invadergli le vene, già pregustava il terrore dipinto nei loro volti.
Un pensiero fastidioso lo bloccò. Non poteva fare rumore, o la ragazzina se ne sarebbe accorta.
Merda!
Imprecò mentalmente, seccato.
La rabbia gli diede un motivo in più per ammazzarli, anche se avrebbe dovuto trattenersi per non farsi scoprire troppo presto. No, non poteva, decisamente.
Il ragazzo si avvicinò al lato del marito, per poi stringere con forza il coltello e tappargli la bocca con l'altra mano. Quello si svegliò di soprassalto, ma fortunatamente non ebbe la forza per urlare.
La paura allo stato puro era impressa nel volto dell'uomo, che non appena accennò ad un movimento si ritrovò col cuore perforato dalla lama, che sbucò dall'altra parte del torace.
Un fragoroso suono liquido invase le orecchie del killer, che venne da lui interpretato come la sinfonia più armoniosa del mondo.
Fu svelto ad estrarre il coltello e a fiondarsi sulla donna, che nel frattempo si era quasi destata del tutto. Il palmo della mano fu premuto contro la sua bocca, e quella mugolò terrorizzata, tramortita dalla sorpresa e dal volto orribile che le si presentava davanti.
Gli occhi scuri erano velati da uno spesso strato di lacrime, che dopo poco vennero rilasciate ai lati del viso arrossato dal timore. Jeff ridacchiò sommessamente, ad un soffio dal viso della donna.
Quello fu come il campanello d'allarme che la fece scattare, e prese a dimenarsi come un animaletto in trappola. Il ragazzo rise a bassa voce ancora una volta, trattenendosi per non scoppiare in una fragorosa risata. Era divertentissimo vederla cercare di scappare, ancora non capiva di essere in inferiorità fisica e psicologica.
“Shhh... non vorrai svegliare la tua bambina...” le sussurrò, gustandosi la sua reazione.
La sua povera vittima provò ad urlare, disperata. Avrebbe voluto avvertire sua figlia, chiamare la polizia, qualsiasi cosa che le avrebbe permesso di salvare la propria vita e quella della sua adorata ragazza.
Jeff rise ancora, sfiorando l'addome teso con la punta della lama.
Aspettò qualche altro secondo, solo per assaporare meglio quegli attimi, poi affondò il coltello nella carne, premendo più forte sulla bocca affinché le urla venissero soffocate.
La donna non la smetteva di agitarsi, quasi gli ricordava quella stronza di sua madre quella notte che l'aveva accoltellata fino alla morte.
Il sangue inzuppò completamente le coperte grige, solo dopo che l'ultimo respiro vitale fu esalato da quel corpo straziato, Jeff mollò la presa, gemendo dall'eccitazione intensa.
Scese dal letto, macchiandosi completamente gli abiti di liquido amaranto, che colò lungo le lenzuola e per tutto il pavimento, dando origine ad una pozza in via di espansione.
Il killer estrasse il coltello dal cadavere, tirando verso l'alto in modo da squarciarlo in due fino alla base della gola.
Gli organi interni sarebbero stati senza dubbio visibili, con l'ausilio di una luce.
Ma con un verso seccato, Jeff constatò di non poter permettersi nulla del genere, non adesso.
Si allontanò in fretta dalla camera, con un ampio ghigno in viso.
Salì lentamente le scale, pregustandosi la scena.
Una flebile lucina illuminava una stanza dalla porta semiaperta, e il Mietitore andò a colpo sicuro, con il coltello sporco stretto in pugno.
La porta scricchiolò, rivelando la ragazzina in dormiveglia, stesa sopra le coperte.
Indossava una canottiera leggera che pareva essere blu scuro, e i pantaloni grigi del pigiama. I capelli chiari, tendenti al biondo cenere, erano sparsi per il cuscino, e le si posavano delicatamente sul corpo dormiente. Jeff ghignò, avvicinandosi a studiarla bene.
Si posizionò ai piedi del letto, per poi salirci sopra a gattoni. Si sorresse con le braccia sul materasso instabile, che fortunatamente non produsse forti rumori.
Il petto della ragazza si alzava e si abbassava velocemente, il respiro era irregolare e pesante. Sembrava scossa da tremiti, probabilmente aveva un incubo.
Il ragazzo avvicinò il viso a distanza nulla da quello di lei, respirandoci sopra ed inspirando il suo odore, per quanto le narici bruciate glielo permettessero.
Sembrava una fragranza dolce, sicuramente piacevole.
Starebbe benissimo col profumo del sangue.
Pensò divertito, assaporando quella calma prima della tempesta.
La ragazzina cominciò ad agitarsi debolmente, segno che aveva percepito la sua presenza incombente.
La mano sinistra saettò alla bocca schiusa, il peso concentrato sulle gambe della sua preda, per bloccargliele. La ragazza si svegliò di colpo, sgranando gli occhi chiari e agitandosi furiosamente.
Il respiro si fece ancora più veloce, le sembrò di avere il petto svuotato, una vertigine potente la scosse violentemente.
Jeff ridacchiò, avvicinando il coltello al suo viso.
La giovane si agitò ancora, afferrando disperatamente il braccio del proprio carnefice con le mani, nella speranza di allontanarlo o di frenarlo in qualche modo.
Quel vano e debole tentativo divertì un mondo il ragazzo, che premette la punta dell'arma nello sterno della propria vittima, che sussultò e provò a ritrarsi.
Le grida vennero soffocate dalla mano di Jeff, e la pelle delicata venne scalfita dal coltello, che si fece più pressante.
La ragazza urlò dal dolore, inarcando la schiena e cominciando a piangere. Quelle lacrime cristalline catturarono lo sguardo trasparente del ragazzo esattamente come un serpente con il suo incantatore.
L'eccitazione crebbe ancora nel petto di Jeff, concentrandosi nel ventre. Stava diventando quasi doloroso, ma non ci fece caso.
Continuò a premere la lama contro la pelle morbida, senza accennare a spostarlo dallo sterno.
Jeff sogghignò, ammirando gli occhi limpidi della propria vittima.
Un fastidioso ronzio gli rombò nelle orecchie, come uno sciame di api o una tempesta di forte vento. Ormai si era abituato. Quel rumore... era un compagno. Un sodale che non lo abbandonava mai, e che lo accompagnava in ogni suo omicidio. Poteva essere paragonato alla musica del sangue, che l'udito del ragazzo era abituato a classificare come una melodia rara e preziosa.
La ragazzina si contorse ancora, lamentandosi sonoramente senza riuscire a ribellarsi.
Il killer la perforò con lo sguardo più cupido di sangue che potesse esibire, e le sole iridi chiarissime l'avrebbero potuta tenere inchiodata al letto senza il sussidio del resto del corpo.
Tutta la paura della piccola vittima terrorizzata trapelava dal respiro celere e dalle contrazioni del torace, per non parlare dell'espressione freddata dallo sgomento.
Gli occhi del ragazzo erano fissi su quelli di lei, colmi di lacrime, e cercando di trattenerla urtò il comodino in legno scuro a destra del letto con il gomito che reggeva il coltello.
La stanza intorno a loro prese a ruotare freneticamente, e il ronzio nelle orecchie di Jeff si fece sempre più forte, sempre più incessante. Trattenne a stento un gemito di dolore, cercando di concentrarsi esclusivamente su quella stronzetta che non la smetteva di strattonare.
Ad un tratto avvertì il comodino muoversi, sbatacchiando contro il muro dalle tonalità tenui.
Il suo sguardo confuso si posò inevitabilmente alla dritta, e con sbigottimento ravvisò un piccolo oggetto sbiadito, con cavallini bianchi in miniatura che galoppavano in traiettorie invisibili, in un'andatura orbicolare. Era la giostrina.
Che cazzo...?
Jeff s'interrogò mentalmente sulla provenienza di quel giocattolo.
L'aveva lasciato nella casa, ne era sicuro. Allora perché era lì, proprio di fianco a lui?
Un grido soffocato della ragazzina lo riscosse, facendogli riportare lo sguardo al coltello, che inavvertitamente era stato premuto di più sulla carne tenera del torace.
Conficcò ancora la lama, lasciando sgorgare numerose gocce di liquido solferino dalla ferita, che stava diventando sempre più profonda.
Ma il Mietitore non poteva concentrarsi, non voleva. Non avrebbe potuto assolvere il suo compito fino a quando non avesse capito la provenienza di quella giostrina.
Sua madre... quella stronza lo perseguitava anche da morta. Si sarebbe meritata di morire ancora e ancora.
E quella continuava a girare, senza sosta, con il meccanismo cigolante e i cavalli al galoppo.
Ora Jeff ne poteva anche udire la melodia. Era una ninnananna... quella che sua madre gli cantava sempre prima di dormire. Si perse in quelle note dolci, fissando intensamente i giri, la sfilata degli animaletti di plastica e immaginandosi le loro criniere al vento.
La musica continuava, accompagnata dal ronzio, ormai fortissimo.
La rotazione della giostrina si faceva sempre più lenta, sempre più stentata. La corsa di quei cavallini stava finendo.
E Jeff si sentì male, e questa volta fu la sua testa a girare.
Una voglia traboccante gli infestò il petto, facendolo ansimare. Doveva ucciderla, stava svenendo.
Le orecchie fischiavano per la pressione bassa, la testa doleva atrocemente, e poi... c'era quel ronzio, e quelle note ormai intermittenti, rade.
Basta.
Il braccio di Jeff si mosse da solo.
La lama venne conficcata con forza nel petto della giovane, che con un rantolo strozzato reclinò la testa alla sua sinistra, esalando l'ultimo bolso respiro.
“Torna... a dormire.” sussurrò, improvvisamente libero.
Libero da ogni dolore, da ogni preoccupazione, da ogni sofferenza.
Il ronzio era cessato immediatamente, e con lui anche il mal di testa e i giramenti.
La stanza si era fermata, ogni singolo oggetto nella camera era fermo, al suo posto, senza accennare ad un minimo moto. Tutto era immobile.
Solo una cosa continuava a girare: la giostrina sul comodino.
Gnik... gnik... gnik...
Quel rumore metallico dell'ingranaggio riempiva la tacita quiete dell'ambiente immobile, in cui si effondeva soltanto il respiro greve del ragazzo.
La giostrina aveva ripreso a girare veloce, come prima. Ora i cavallini galoppavano danzanti senza esitazione, esibendosi in arabeschi frizzanti.
Jeff si sentì bene, completo, soddisfatto.
Estrasse la lama dalla carne tumefatta, ammirando la sua opera grandguignolesca con una nota di contemplazione nello sguardo, ora totalmente assente.
Si alzò dal letto, facendo oscillare grottescamente il braccio cereo della ragazza, che penzolava al lato del materasso intriso del suo stesso fluido ematico.
La mano libera del killer si sporse verso il comodino, in direzione della piccola giostra.
I cavalli minuti continuavano a volteggiare in circolo, ad un ritmo ratto e serrato.
I polpastrelli dell'indice e del medio stavano per sfiorare la plastica dura, a pochi centimetri dalla cupola a strisce bianche e dorate. Ma proprio quando il contatto stava per avvenire, la giostrina scomparve.
Jeff spalancò gli occhi, perplesso.
Ma che...?
Fu allora che capì.
Osservò il cadavere martoriato della ragazza, disteso sul letto. Sembrava quasi dormiente.
La lucina fioca illuminava il sangue che colava dalle coperte, tingendo il pavimento chiaro di amaranto intenso.
Per lei la giostrina aveva smesso di girare.
Jeff iniziò a ridere, dapprima a bassa voce, poi con sempre più trasporto.
Una risata priva di gioia, ma incredibilmente euforica. E soprattutto viva.
Perché era proprio così che finiva, ogni omicidio del brutale Jeff the Killer:
con il plasma, le risate, e tanti altri giri.
Tanti giri che la sua giostrina avrebbe ancora dovuto compiere.



[Angolo dell'autrice]
Ho concluso la one-shot dopo due giorni di lavoro!
Passo subito alle spiegazioni, come sempre XD
Avrete capito -probabilmente- che la giostrina sia una metafora.
Che cosa simboleggia? Ha vari significati. Prima di tutto, nella storia, è un'illusione di Jeff.
La vede in ogni dove perché nella sua mente distorta è ricorrente il ricordo della madre, che dopo la giornata al luna park gli ha regalato la miniatura della giostra.
Ma i suoi giri, da come si può intuire alla fine, hanno anche un altro significato: la vita.
E' come se Jeff avesse bisogno di uccidere per vivere, infatti non appena esita si sente male, per questo nella fic sono ricorrenti il ronzio che sente nelle orecchie e il mal di testa.
Per quanto riguarda il personaggio di Jeff, ho voluto reinterpretarlo rispetto alla prima versione che avevo dato di lui nelle mie vecchie storie della saga “The bleeding killer”, e in qualche modo, ho voluto renderlo più “adulto”.
Il titolo significa “Giostra Contorta”, che gioca sul significato del verbo “twisting”, che significa anche “attorcigliare”, o appunto anche “ruotare”. Inoltre, come aggettivo “contorto”, indica anche la psicologia del nostro amato protagonista.
Ho preferito concentrarmi sull'introspezione e sui missing moments, dunque non ho esagerato con lo splatter.
Spero che la storia vi sia piaciuta e che abbiate voglia di lasciarmi una recensione! ^^
Ci tengo a ringraziarvi tutti per il supporto che mi state dando, per me è importantissimo :3
Ci sentiamo presto nelle prossime storie!
Alla prossima,
-Amekita-

 

  
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