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Autore: CowgirlSara    23/12/2008    6 recensioni
Ero ferma davanti alla porta di casa mia ormai da qualche secondo. Riflettevo su come avrei dovuto comportarmi. Era innegabile che fossi un po’ arrabbiata con lui, per come si era presentato a casa mia, ma d’altra parte, non potevo nemmeno negare che vederlo mi aveva provocato un tuffo al cuore.
Genere: Romantico, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A summer dream in winter
Sorpresa, sorpresa!
Vi avevo detto che passavo un periodo di poca ispirazione, quindi, per cercare di recuperarne un po’, ho pensato di cambiare un po’ argomento, così magari le idee tornano anche per Thunder Road! Incrociate le dita!
Questa One Shot è tratta da uno dei miei tanti sogni tokiosi. Ovviamente non era così dettagliato e non erano presenti tutte le scene della storia, ma il corpo era praticamente questo. Sappiate quindi, che questa roba è il parto della mia mente malata e completamente dominata dal fascino di Tom Kaulitz, ogni colpa è solo sua.
Come vedrete non c’è una vera e propria descrizione della protagonista, così potrete pensarla come meglio credete. Spero comunque che vi stia almeno un po’ simpatica!

La fanfiction è scritta con il massimo rispetto per i Tokio Hotel, il loro lavoro e la loro vita privata. Quanto scritto è una storia di pura fantasia, i fatti narrati non vogliono dare rappresentazione della realtà. Non ha alcun scopo di lucro.
I Tokio Hotel non mi appartengono (ma se qualcuno me li volesse regalare per Natale...), così come la canzone che ho usato.

Vi lascio alla lettura, vi prego lasciatemi un commentino!


- A Summer Dream In Winter -

Maybe your other boyfriends                
Couldn't pass the test                    
Well if you're rough and ready for love            
Honey I'm tougher than the rest    
(Tougher than the rest – Bruce Springsteen)

Mi tolsi la frangia dalla fronte con la mano. Faceva caldo in quell’ascensore e c’era anche uno strano odore, come in tutti quei trabiccoli, così angusti, ma tanto utili, specie per i pigri come me. Avevo posato la busta della spesa tra le mie gambe nude e stavo salendo al terzo piano, dove c’era l’appartamento della mia amica Rielke.
Sbuffai. Avevo accettato solo per farle un favore, ma ovviamente non ero molto contenta. Lei era partita per un paio di giorni, ma la mattina dopo, sul presto, in casa sua doveva venire l’idraulico per riparare la caldaia. Mi aveva così chiesto di esserci e io avevo accettato volentieri, senza pensare troppo. Solo ora, mentre la porta scorrevole si apriva davanti a me, mi rendevo conto che stavo andando a passare la notte in una casa non mia e, per giunta, senza acqua calda…
Senza contare quell’altro, piccolissimo, problema che avevo a casa mia… Meglio pensare ad una cosa alla volta.
Aprii la porta con le chiavi che mi aveva dato Rielke. La casa era luminosa, infatti, appena entrati ci si trovava subito nel bel salone che dava sull’ampio terrazzo. Altra cosa da fare: innaffiare le piante.
Mi diressi alla mia sinistra, verso la cucina. Era piccola e quadrata, dava direttamente sul salone.
Avevo comprato poche cose, per la cena e la colazione del giorno dopo: un po’ di formaggio, insalata, pomodori, una confezione di pere, biscotti e latte per la mattina dopo. Cominciai a riporre le cose nel frigo. Mancava il pane, ma me lo sarei portato da casa, tanto dovevo ripassarci.
Pensando a cosa mi aspettava lì, cominciò subito a prudermi la testa. Ma che cosa avevo fatto di male io? Cosa, per meritarmi un orso polare che parla biascicando come se avesse sempre un pesce in bocca e non mi spiega mai le cose? Eh?!
Stavo cercando di rimuovere il ricordo dello sgradito ospite che si era installato a casa mia, quando suonarono alla porta. Non era il citofono, ma il campanello del pianerottolo. Mi allontanai dalla cucina per guardare dallo spioncino.
Era un uomo. Alto, abbronzato, sulla quarantina, un bel tipo tutto sommato. Sorrideva allo spioncino con aria familiare. Rielke mi aveva parlato di un suo vicino gentile. Robert, Karl… non ricordavo il nome. Decisi di socchiudere la porta, lasciando la catena.
“Salve.” Salutai diffidente.
“Ciao, io sono Robert!” Rispose lui entusiasta. “Tu devi essere Wina, Rielke mi ha parlato di te!” Aggiunse. “Mi fai entrare?” Chiese poi.
No, l’idea non mi piaceva e lui dovette capirlo dalla mia faccia, del resto non ero mai stata capace di nascondere le mi impressioni negative, ma la mia amica mi aveva parlato bene di lui, quindi mi sembrava scortese lasciarlo fuori. Socchiusi la porta, tolsi la catenella e lo fece passare. Lui entrò fluido. Indossava un completo scuro, giacca e cravatta, nonostante fosse un caldo giorno di luglio.
“Rielke ti ha parlato di me?” Chiese l’uomo, mentre raggiungeva la cucina, completamente a suo agio. Io lo seguivo con aria scettica.
Sì, Rielke mi aveva parlato di lui. Era un medico che viveva nell’appartamento di sotto. Lavorava in ospedale. La faceva ridere. Erano stati a letto, un paio di volte.
Eravamo entrambi in cucina, ormai. Robert si stava servendo tranquillamente di un bicchiere d’acqua fresca. Era troppo disinvolto, già non mi piaceva. Un po’ d’imbarazzo dovrebbe essere normale, quando si è davanti ad uno sconosciuto, no?
Mi venne da pensare al mio ospite. Al nostro primo incontro ci era voluta quasi una serata per riuscire a guardarci solo in faccia e lui abbassava gli occhi continuamente, anche dopo. Il fatto che poi avessimo passato il resto della notte a parlare come se ci conoscessimo da una vita, era relativo. Era passato quasi un anno e ancora non eravamo riusciti ad abbassare del tutto le reciproche difese. Ehhh, quanto mi faceva penare! Ma poi mi bastava guardare quei suoi occhi…
“Sai che sei proprio una bella ragazza?” Affermò improvvisamente l’uomo, riportandomi al presente; la sua voce si era fatta più calda, il tono fastidiosamente seducente.
Io stavo mettendo la confezione delle pere nel frigo e mi girai a guardarlo con la coda dell’occhio. Stava osservando le mie gambe e il mio fondoschiena. Lo fissai con uno sguardo gelido, aspettando che i suoi occhi incrociassero i miei. Quando accadde, lui sorrise soddisfatto. Storsi la bocca.
“Proprio una bella ragazza, sì.” Confermò infine.
“Grazie.” Risposi fredda. Mi dava fastidio il suo tono, il suo sguardo, il suo compiacimento. La stanza stava cominciando a diventare troppo piccola.
“Conosci Rielke da molto?” Mi chiese, mentre aggirava il tavolo e si avvicinava di più a me. Feci istintivamente un passo indietro.
“Un paio d’anni…” Risposi vaga, dedicando la mia attenzione al frigo.
“Dovremmo uscire insieme, una volta o l’altra.” Suggerì distrattamente l’uomo, facendo un ulteriore passo avanti.
“Non mi pare proprio il caso…” Mormorai io, con un sorrisetto nervoso.
Robert era, innegabilmente, un bell’uomo. Il bel viso abbronzato era molto virile e attraente ed aveva occhi azzurri magnetici. Ma non mi piaceva. Sarà stato il suo odore. Sarà stata la luce nei suoi occhi. Non mi fidavo.
Ero sempre stata molto istintiva, in queste cose: se un uomo non mi colpiva positivamente al primo sguardo, era assai arduo che potesse farlo in seguito. E si contavano sulle dita di una mano, le volte in cui le mie prime impressioni si erano rivelate errate.
“Perché?” Fece lui, interrompendo i miei pensieri. “Il tuo ragazzo è geloso?!” Buttò lì, ridacchiando.
Che cavolo aveva da ridere?! Lo divertiva il fatto che potessi avere un ragazzo?! E perché, a quella parola, mi era comparsa davanti l’immagine di due grandi, malinconici occhi nocciola dalle ciglia lunghissime, che mi facevano venire il magone solo a pensarli?
“Scusa, Robert, ma devo interrompere questa piacevole conversazione.” Mi decisi a dire, volgendomi verso di lui, sperando che cogliesse il sarcasmo, invano. “Purtroppo devo andare.” Aggiunsi con un sorriso il più possibile cordiale.
“Oh, e dove te ne vai?” Domandò, chiaramente deluso.
“Eh, devo passare da casa…” Risposi cauta, mentre radunavo le mie cose e mi dirigevo sbrigativa verso l’uscita.
“E quando torni qui?” Insisté lui.
“In serata, dipende, non lo so…” Replicai, aprendo la porta.
“Aspetta, scendiamo insieme!” Esclamò Robert, mentre io oltrepassavo la soglia, ma lui mi prese per un braccio, trattenendomi.
“Va bene.” Acconsentii, giusto per fargli mollare la presa.
Il breve tragitto in ascensore fu piuttosto fastidioso. Lo spazio ristretto rendeva inevitabile il contatto e io, di conseguenza, mi sentivo molto a disagio: non desideravo alcuna vicinanza con lui.
In più il suo profumo mi dava la nausea. Era troppo forte, dolciastro, quasi acidulo. No, proprio non mi piaceva.
Arrivati al piano terra, io uscii sbrigativamente dall’abitacolo, salutando in fretta Robert e sottraendomi al suo tentativo di baciarmi le guance. Arrivata in macchina, tirai giù i finestrini, nonostante l’aria condizionata e respirai profondamente: avevo ancora quel suo dopobarba nel naso.

Ero ferma davanti alla porta di casa mia ormai da qualche secondo. Riflettevo su come avrei dovuto comportarmi. Era innegabile che fossi un po’ arrabbiata con lui, per come si era presentato a casa mia, ma d’altra parte, non potevo nemmeno negare che vederlo mi aveva provocato un tuffo al cuore. Ma riepiloghiamo.
Mia madre era partita per una settimana al mare, con mia zia, portandosi anche il cane, così io mi ero preparata a sette rilassanti giorni, nonostante l’impegno con Rielke e i turni al lavoro, invece… la sera stessa della partenza di mia mamma, suonano alla porta e chi è? Lui…
Era di pessimo umore, triste, poco disposto alla conversazione. Mi aveva chiesto di restare per la notte, guardandomi con quei suoi occhioni maledetti e io non avevo potuto dirgli di no. Erano passati due giorni.
Ripensai a quando ci eravamo conosciuti.
Ero, nonostante l’età, una loro devota fan, ma non avrei mai pensato di trovarmi ad uno dei loro party; invece, una mia amica più intraprendente di me (con cui, tra l’altro, non parlavo più da allora, causa gli sviluppi negativi – per lei – della faccenda), era riuscita ad accaparrarsi degli inviti. La mia amica, poi, era anche riuscita a farsi invitare nel privè, del resto per lei era sempre stato facile convincere i ragazzi, mentre per me sarebbe stato più semplice convincere un eschimese a comprarsi un freezer. Fu così che, noi tre ragazze (eravamo in tre quella sera), ci ritrovammo sedute sul divano dei Tokio Hotel, senza sapere bene cosa fare.
O meglio, io non sapevo cosa fare. Le altre erano decisamente più portate di me a civettare, ridere senza senso e fare battute cretine, tutte cose che i maschi sembrano apprezzare molto. Dio, non chiedetemene il motivo, non l’ho ancora capito!
I ragazzi, dicevamo, sembravano apprezzare. Tranne uno. Lui si teneva in disparte, quella sera. Me lo ero immaginato diverso, specie in presenza di ragazze carine e piuttosto disponibili, quali si stavano rivelando le mie amiche.
Io continuavo a tornare su di lui con lo sguardo e, verso metà serata, miracolosamente, mi vidi restituire una delle mie occhiate curiose. Santo cielo, che occhi che aveva! Le foto, pur stupende, non potevano rendere giustizia a tanto splendore. Il cuore mi perse un battito. Ma prima che potessi fare qualsiasi cosa, lui si era alzato e stava aggirando le gambe dei presenti per allontanarsi dal tavolo. Andava a fumare fuori, annunciò. Poi passò vicino a me e mi chiese: “Vieni?”
Cosa feci? Cosa avreste fatto voi?! Annuii in silenzio e lo seguii. L’unica cosa sensata, no? Mentre mi allontanavo da quel tavolo, seguendo la maglietta bianca che lui indossava, mi sentii trafiggere dagli sguardi delle altre ragazze, che, nonostante il classico atteggiamento demente che fa capitolare qualsiasi uomo, non avevano ottenuto il risultato avuto da me con un solo sguardo di sfuggita. A dire il vero ne ero incredula io per prima.
Finì con noi due a parlare su un terrazzo. Lui fumava, ogni tanto mi faceva una domanda. Io rispondevo al mio solito modo: sarcastico e vagamente cinico. Lui ridacchiava piano. Io facevo battute pungenti. Lui sorrideva come un angelo. Il tempo trascorse senza nemmeno che ce ne accorgessimo. Mi sembrava di conoscerlo da sempre. E all’alba sapeva di me cose che pochi altri avevano il piacere, si fa per dire, di conoscere. Io, di lui, sapevo solo che era bello, un po’ scontroso, con degli occhi magici e delle mani magnifiche e che aveva il profumo più buono del mondo.
Quando ci decidemmo a scendere, scoprimmo che le mie amiche avevano mollato il colpo, i Tokio Hotel se ne erano ritornati in albergo e ad aspettarci c’era solo una delle loro guardie del corpo.
Da allora era passato quasi un anno. Ci eravamo tenuti in contatto e visti qualche volta. Niente d’impegnativo, anche se avevo sempre l’impressione, quando ci lasciavamo, che non ci fossimo detti tutto. Ma avevo capito presto che lui, in quanto ad espressione di sentimenti, era piuttosto stitico. Eravamo affetti dalla stessa malattia.
Ed ora stava a casa mia da due giorni. E io avevo passato due notti insonni, nel letto di mia madre perché nel mio c’era lui, a pensare che lo avevo a tre metri di distanza.
Sbuffai con una certa potenza, poi afferrai le chiavi dalla borsa e mi decisi ad aprire, ma solo perché mi si squagliava il gelato che avevo nella spesa.

La casa era in penombra, tutte le persiane erano chiuse, per riuscire a mantenere un po’ di fresco all’interno. Mi guardai intorno, nessuna traccia di lui. Sospirai, mentre mi dirigevo in cucina per mettere a posto la roba. Sembrava che oggi non fossi capace di fare altro.
“Hey.” Quel richiamo mi spaventò talmente, nel silenzio, che per poco non mi tirai in testa un pezzo di parmigiano da mezzo chilo. “Scusa, ti ho fatto paura…”
“Ma no.” Feci io, voltandomi ad occhi bassi; poi li rialzai.
Si può avere un infarto multiplo a trent’anni, senza aver mai avuto avvertimenti cardiaci prima? No, perché trovarselo davanti così, in quelle condizioni, poteva risultare molto, molto pericoloso.
Era appoggiato allo stipite e si grattava la nuca con la mano sinistra. La destra era appoggiata distrattamente al muro. Indossava un paio di boxer a quadretti sul beige, e nient’altro.
Mi voltai di scatto nuovamente verso il frigo, deglutendo e cercai di non pensare al suo corpo magro e atletico, alla sua pelle elastica e morbida. Alla sua mano enorme che, un secondo prima che mi girassi, si era posata con noncuranza sul suo addome leggermente, ma irresistibilmente, scolpito.
“Tutto bene?” Mi domandò, prima di fare due passi e lasciarsi cadere sulla mia sedia.
“Sì.” Risposi fredda. “Devo finire qui.” Spiegai sbrigativa.
“Ah… ok…” Fece lui, poco convinto. “Sono buoni questi?” Chiese poi.
Quando mi accorsi di cosa stava facendo, aveva già sbriciolato la confezione e si stava mangiando i miei biscotti preferiti due alla volta.
“E che cazzo, Tom!” Sbottai io, sfilandogli la scatola di mano.
“Che c’è?” Fece con aria innocente. “Non saranno del cane?” Domandò preoccupato.
“No, erano miei!” Piagnucolai io, osservando la devastazione che avevano creato le sue dita in pochi secondi. Ma come faceva ad essere così distruttivo? Quando suonava era talmente delicato…
“Non li ho mangiati tutti…” Si giustificò Tom.
“Fa niente, dai.” Mi rassegnai io sospirando, poi misi via il resto della roba. “Ti ho svegliato rientrando?” Gli chiesi quindi, tanto per educazione.
“No, ero in bagno.” Rispose tranquillo, sempre svaccato sulla sedia.
Mi girai lentamente verso di lui. “Fumavi?” Se c’era una cosa che mi dava fastidio era l’odore di fumo in bagno.
“Fumo sempre sul gabinetto.” Rispose noncurante, stringendosi nelle spalle. “Ma non farti venire una sincope, c’è la finestra aperta.”
“Oh, grazie! Come sei sensibile!” Sbottai sarcastica, posandomi una mano sul cuore.
“Sbaglio o sei un po’ acidina, oggi?” Replicò alzando un sopracciglio.
“Non ho tempo per l’acidità.” Affermai netta, mentre chiudevo l’ennesimo sportello e tornavo a guardare lui. Si stava legando i rasta sulla testa con la sua solita fascia. Lo adoravo con la pettinatura “medusa”.
Ignorai la sua espressione beffarda e mi spostai, decisa a verificare le condizioni della mia camera e del bagno. Speravo che non avesse lasciato troppo disordine. Gli passai accanto, sfiorando la sedia e lui mi guardò in modo strano.
“Che cosa c’è?” Gli domandai insospettita.
“Odori di dopobarba.” Rispose perplesso.
Roteai gli occhi. Ma quanto era morboso quel profumo per essermi rimasto addosso ancora dopo più di un’ora? Tom continuava a fissarmi, mi sentii obbligata a dargli spiegazioni.
“Ho avuto un «incontro» a casa di Rielke…” Mormorai vaga, mentre infilavo il corridoio diretta in camera.
“Che incontro?” Domandò burbero lui, seguendomi.
“Con un molto disponibile e dopobarboso vicino di casa.” Risposi acidamente ironica, entrando nella stanza. Il letto era completamente sfatto e c’era odore di chiuso. C’era troppo odore di lui.
“E ti ha toccato?” S’informò Tom. Era un’impressione mia, o sembrava infastidito all’idea?
“Sì.” Ammisi, mentre aprivo finestra e imposta.
“E tu gli hai permesso di metterti le mani addosso?!” Sbottò irritato. Io mi voltai verso di lui, sorpresa. Non mi aspettavo una reazione simile, sembrava… geloso.
“Mi ha solo toccato un braccio!” Esclamai ad occhi spalancati. “È stato casuale.” Aggiunsi noncurante, alzando le mani, mentre tornavo a dedicarmi al letto.
“Casuale, certo.” Commentò acido Tom. Lo avevo distintamente sentito sedersi con il solito garbo sul pouf. “Lo so io che voleva toccarti, quello.”
“Senti, Tom.” Affermai io, girandomi di nuovo verso di lui. “Mi spieghi perché credi che avesse pensieri di natura sessuale?” Gli chiesi, anche se, effettivamente, negavo l’evidenza.
“Scherzi?” Ribatté retorico. “Con te davanti, vestita in questo modo?” Aggiunse con tono ovvio.
Io ero perplessa. Abbassai gli occhi a guardare il mio vestito di lino beige. Non era niente di speciale, semplice, con le spalline larghe, mi arrivava al ginocchio. Ai piedi avevo delle infradito di cuoio marrone, le unghie dipinte di nero.
“Che cosa ha che non va?” Domandai confusa, spostando gli occhi da me a lui. “È un normalissimo abito estivo…” Tom sembrava non sapere cosa rispondere.
“Beh…” Esitò, con gli occhi sull’orlo della gonna. “È… fine…” Mormorò imbarazzato, poi deviò lo sguardo. “E tu hai un bel corpo…”
“Oh, grazie!” Sbottai io, nascondendo l’imbarazzo provocato da quel commento dietro alla mia solita acidità. Accidenti a me, non ero mai capace di reagire come le persone normali!
“Era un complimento!” Fece infatti lui, indispettito.
“Non li fai col tono giusto!” Insistevo, allora ero proprio pazza.
“Nemmeno tu!” Rispose Tom.
Ma che diavolo stavamo facendo? Stavamo per litigare? E per che cosa? Un giorno avrei dovuto rivolgermi ad uno specialista, per farmi spiegare perché, quando qualcuno mi faceva un complimento, io mi ritraevo in me stessa, impaurita, come se mi puntassero una pistola contro.  
“Tom…” Sussurrai dispiaciuta.
“Sì?” Ribatté lui.
Io sospirai e mi sedetti sul letto, guardandomi i piedi. Sapevo che anche lui non mi stava guardando. Solo dopo qualche secondo, mi decisi ad alzare gli occhi.
Tom era sempre seduto sul pouf. Le gambe allargate, i gomiti sulle ginocchia. Guardava in basso, verso la sua sinistra. I miei occhi, purtroppo, si fermarono sulle sue spalle. Sospirai di nuovo.
“Potresti farne a meno?” Feci, esasperata dalla sua sola presenza.
“Di fare cosa?” Replicò Tom, alzando gli occhi su di me e raddrizzandosi, cosa che evidenziò il suo bel torace. Deglutii.
“Di fare così!” Sbottai stanca.
“Così come?” Insisté lui, implacabile.
A quel punto ci stavamo fissando con aria di sfida. Io incrociai le braccia, spedendogli un’occhiata inceneritrice. Lui rispose con uno dei suoi sorrisetti beffardi. Qualche secondo e scoppiammo entrambi a ridere.
Ridendo, io mi stesi sul letto. Le lenzuola avevano il suo profumo. Quanto mi piaceva. Era proprio buono, come lui. Respirai profondamente, socchiudendo gli occhi.
Dopo qualche istante, mi sentii sovrastare da un’ombra. Una presenza che poteva essere solo la sua. Aprii gli occhi. Tom era in piedi, appoggiato al letto, tra le mie ginocchia appena divaricate. La posizione mi fece allarmare immediatamente. Però lui mi guardava pensoso, con gli occhi vagamente malinconici. Era bello da piangere. Mi mancava il respiro.
“Wina…” Mormorò a voce bassa.
“Sì?” Ero ipnotizzata dal piercing sul suo labbro.
“Sei arrabbiata con me?” Mi chiese con tono triste.
“Un pochino sì.” Risposi con sincerità. “Insomma, ti sei installato a casa mia…” Aggiunsi, evitando di guardarlo. Lui sospirò sconsolato. “Vorrei solo sapere quanto durerà questa storia.”
“Non lo so.” Ammise lui, scuotendo il capo. Qualche dread gli scivolò sul petto.
“Hai chiamato Bill?” Gli chiesi.
“Non sono io a dover chiamare per primo.” Fece, con una nota di irritazione nella voce, poi si mosse per andare via, ma io lo presi per un polso.
“Ma non vuoi farci pace?” Tentai, sperando che tornasse a guardarmi in faccia.
“È lui che deve chiedermi scusa.” Affermò serio, tradendo un certo nervosismo. “Stavolta non sarò io a cedere.” Aggiunse duro.
“Però sei triste… e Bill ti manca.” Soggiunsi io, continuando a tenere la sua mano. Non mi rispose, ma i suoi occhi, che continuavano ad evitarmi, si fecero un po’ lucidi. “Dai, vieni qui.” Lo invitai, tirandolo verso di me.
Mi guardò sorpreso, ma quando vide che ero convinta delle mie azioni, fece un piccolo sorriso dolce, quindi tornò dove era prima e si fece cadere piano su di me. Lo abbracciai con tenerezza, sentendolo sospirare contro il mio collo. Era il nostro primo abbraccio, da quando era arrivato. Ci era sempre piaciuto abbracciarci. Non so se si rendesse conto di quanto era bravo a farlo.
Restammo così per un po’. Accarezzavo lentamente la sua schiena nuda. Lui faceva lo stesso con il mio fianco. Era fin troppo piacevole.
Lì, ad occhi chiusi, persa nel suo calore e nel suo profumo, mi sembrava di essere in un’altra dimensione. Infatti, mi accorsi quasi all’improvviso che il sole stava calando.
Fui costretta a salutarlo in fretta e furia, volevo essere a casa di Rielke prima di sera. Presi quello che mi serviva e feci a Tom un paio di raccomandazioni, tra cui quella di chiamare Bill, cosa che lo irritò non poco, quindi gli diedi un veloce bacio sulla guancia, prima di volare fuori di casa.

Cenai sulla terrazza di Rielke, dopo averle innaffiato le piante. Guardavo il tramonto, domandandomi perché ero lì da sola, a mangiare insalata con formaggio. C’era un bel panorama, sì, ma cosa era meglio: essere su quel balcone, o nella mia cucina a guardare negli occhi Tom?
Sospirai, mentre riportavo in cucina la roba. Lavai i piatti e misi tutto a posto, dopo aver pulito il lavandino e il tavolo. Mi sentivo stanca. Mi mancava lui.
Avevo portato con me un paio di dvd, tanto per avere qualcosa da fare dopo cena. Ne misi uno nel lettore e poi mi buttai sbuffando sul divano. Dopo poco che il film era iniziato, lo sguardo mi cadde sul mio cellulare. Mi era presa all’improvviso la voglia di chiedere scusa a Tom per essere stata un po’ cattiva con lui, in quei due giorni.
O forse era solo una scusa banale per sentire la sua voce. Quella casa era diventata troppo grande, vuota e silenziosa. Mi sentivo sola.
Che stupida. Potevo girarci intorno quanto volevo, ma era inutile negare ancora: mi ero presa una cotta spaziale per Tom Kaulitz. A trent’anni, capito. Per uno di venti. Povera scema, ma che credevo di fare?
Sbuffai di nuovo. Sembrava l’unico gesto da fare, per togliermi il fastidio di quelle farfalle nello stomaco, ogni volta che pensavo a lui. E Tom era a casa mia! Che cazzo ci facevo io qui?!
Mi alzai, presa dal nervoso e cominciai a passeggiare per la casa. Andando in bagno passai vicino al lettuccio che Rielke mi aveva preparato in corridoio.
Ah, questo mi ero dimenticata di dirlo! Sì, la mia amica mi aveva fatto capire, chiaramente, che preferiva io non dormissi nella sua camera da letto. Così aveva provveduto, preparandomi quella specie di branda militare nel suo corridoio, tra la porta del bagno e quella dello stanzino.
Mi ci sedetti sopra, facendola cigolare, mentre sentivo la depressione salire a livelli vertiginosi.
Guardai il cellulare tra le mie mani. Cosa stavo aspettando? Aprii lo sportello e mi decisi a richiamare il numero. Volevo disperatamente sentire la sua voce.
“Wina?!” Mi rispose, leggermente allarmato.
“Dormivi?” Gli chiesi io, preoccupata di averlo disturbato.
“No, guardavo la tv.” Fece e me lo immaginai stringersi nelle spalle. “Tutto bene?”
“Scusa…” Mormorai stanca e triste.
“E di che cosa?” M’interrogò perplesso Tom.
“Sono stata cattiva con te…”
“Fammi il favore!” Sbottò burbero. “Ti ho occupato casa, svuotato il frigo, costretta a raccontare bugie a tua madre e giro per casa in condizioni indecenti!”
Risi piano. “Quello è il meno… sei un bello spettacolo in mutande.” Commentai poi, pur senza entusiasmo.
“Mi preferiresti senza, eh?” Buttò lì, con il suo tono più strafottente. Immaginai il suo sorriso storto.
“Smettila di fare lo sborone, tanto lo so che non sei così.” Replicai mesta.
“Wina, che succede? Ti sento strana…” Riprese lui, facendosi serio.
“Sono stata una stupida, dovevo restare con te…” Affermai con tono incolore, ma poi mi prese la rabbia. “Qui è uno schifo! Mi sento sola e mi sta venendo la depressione!”
“Hey, hey, calma, dolcezza!” Esclamò Tom, interrompendomi. “Dammi mezz’ora e sono lì.”
“Ma Tom, non sai l’indirizzo!” Gli dissi io, frustrata.
“Dammelo, scema!” Ribatté autoritario. “E poi saresti tu quella grande…”

I minuti, dopo quella telefonata, passavano lenti come secoli. Riprovai a guardare il film, quindi mi misi a mangiucchiare noccioline salate, cosa assai controproducente per la linea, ma ero impaziente, tesa, non riuscivo a stare ferma.
Tom stava arrivando. Quasi non ci potevo credere. Da quanto era stato svelto a dirlo, sembrava quasi non aspettasse altro che io glielo chiedessi. Non glielo avevo chiesto, in effetti. Ma lui stava arrivando lo stesso! Oddio, non stavo più nella pelle!
Una ventina di minuti dopo suonò il campanello. Saltai dal divano come si mi avessero sparato con un cannone. In due secondi fui all’entrata. Spinsi tutti i bottoni del citofono e spalancai la porta.
E compresi che ero troppo eccitata dall’idea di avere Tom lì con me, che non mi ero accorta del suono diverso del campanello… sul pianerottolo, infatti, c’era Robert, che sorrideva affabile.
Quando lo vidi mi sgonfiai come un palloncino bucato, profondamente delusa. E lui aveva sempre quell’odore insopportabile.
“Ciao, Robert.” Salutai piatta.
“Immaginavo che fossi tornata, ti ho sentito camminare.” Affermò, indicando l’alto, con un sorriso piacione. “Perché non mi hai chiamato?” Mi chiese poi.
“Ehm… beh, mi è passato di mente!” Mi giustificai io, con finto dispiacere. “Ora se vuoi scusarmi…” Aggiunsi, prendendo la maniglia per richiudere la porta. “…vorrei andare a letto…”
“Ma no!” Intervenne lui. “È ancora presto, vieni giù da me, ci beviamo un bicchiere di vino!”
“Io non bevo vino.” Replicai sbrigativa, tentando di nuovo di chiudere la porta, ma lui fece un passo avanti ed entrò in casa. Io lo guardai sbalordita.
“Ho anche dell’ottima birra.” Insisté Robert, facendosi più deciso.
“Grazie... ma non bevo alcolici, quindi ora se vuoi…”
“Ho aranciata, cola, quello che vuoi.” Continuò imperterrito l’uomo, avvicinandosi a me. Io arretrai.
“Non voglio niente, grazie.” Precisai con una certa irritazione, cominciava a darmi fastidio. “Voglio solo andare a dormire.”
“Andiamo…” Fece lui, spingendosi ancora verso di me. Io mi ritrovai con le spalle contro lo stipite dell’arco del salone. “Lo so che ti piaccio, non fare la ritrosa…”
“Ti sbagli, io non lo faccio, io sono ritrosa.” Risposi fredda, cercando di sfuggirgli verso destra.
“Mhh, mi eccitano i tipi misteriosi come te…” Dichiarò lui, con voce bassa e roca, mentre mi toglieva la via di fuga appoggiando una mano sulla parete.
“Ehhh?!” Feci io incredula. E cominciavo anche ad avere paura.
“So di non esserti indifferente, piaccio a tutte.” Riprese lui, ignorandomi. “Tutte mi vogliono.”
Nonostante la paura crescente, le vie di fuga chiuse e il suo orrendo profumo nel naso, le sue ultime battute riuscirono a scatenare il mio sarcasmo.
“Complimenti per l’autostima, Robert.” Commentai, infatti, acida.
“Dai, non dirò niente a Rielke, su…” Lui continuava ad ignorarmi, ma aveva preso a carezzarmi un braccio. Io guardai schifata le sue dita.
“Davvero, Robert, è proprio il caso che te ne vai…” M’imposi io, cercando di essere dura, anche se pensavo di stare per mettermi a tremare.
“Non lo pensi davvero.” Soggiunse suadente, mentre mi accarezzava un fianco. Mi irrigidii, ora ero davvero spaventata. “Fammi vedere cosa hai sotto questo vestitino…”
“Robert, ti prego…” Supplicai.

Quando mi stava già sollevando la gonna e io pensavo di non avere più scampo, successe qualcosa che davvero non mi aspettavo. E per cui ringraziai sentitamente Dio o chi per lui.
“Che cosa succede qui?” Domandò una voce minacciosa, fortunatamente molto familiare.
Robert si girò verso l’entrata, ricordando solo allora di aver lasciato la porta aperta. Tom era entrato e stava in mezzo all’ingresso con le gambe divaricate.
“E tu chi cazzo sei?!” Domandò irritato l’uomo, senza togliere le mani dalle mie gambe.
“Sono il suo ragazzo.” Rispose Tom, lasciandomi completamente incredula, mentre si avvicinava con sguardo deciso. “E se ora tu non le togli le mani di dosso, io metto le mie addosso a te, poi vediamo come ne esci.”
Robert mi guardò, poco convinto. “È il tuo ragazzo?” S’informò. Io, che ero ancora annichilita dall’aggressione, fissavo Tom e mi sembrava bello come un angelo vendicatore. Trovai la forza soltanto di annuire piano.
“Bene, adesso che abbiamo chiarito…” Intervenne Tom, mentre si avvicinava di più, quasi frapponendosi tra me e Robert. “…tu ti allontani debitamente da lei, o io m’incazzo sul serio.”
Il suo sguardo era intenso e minaccioso. Io fissavo il suo profilo: la mascella elegante che sembrava scolpita da uno scultore in stato di grazia, le ciglia lunghissime che ombreggiavano gli zigomi, la colpevole perfezione del naso e delle labbra. In quel momento, per me, era bello come una visione mistica.
Se fosse stato perché era, effettivamente, il più bello del mondo, o perché mi aveva praticamente salvata da uno stupro, o perché aveva dichiarato di essere il mio ragazzo, non lo sapevo.
Dio, aveva detto di essere il mio ragazzo. Il MIO ragazzo. Il mio bellissimo, dolcissimo, coraggioso, ragazzo! Ero assurdamente felice.
Mi ricordai poi del pericolo che avevo corso e un brivido improvviso e gelato mi percorse tutto il corpo. Tom era, ormai, a portata della mia mano. Gli afferrai la maglietta sulla schiena, stringendola forte. Lui mi guardò, capì e annuì, quindi tornò a guardare Robert.
“Allora, ti levi di torno o no?” Gli disse duro, sporgendosi verso di lui.
Robert parve avere un lampo di intelligenza e fece un rapido confronto tra se stesso ed il giovane uomo dagli occhi infuocati che aveva davanti. Partita persa in partenza, mio caro! Pensai io.
Dovette pensarlo anche lui, perché alzò le mani con aria sconfitta, quasi intimorito, poi si allontanò di qualche passo, girò sui tacchi e si diresse svelto all’uscita.
“Bravo.” Si complimentò acidamente Tom. “E chiudi la porta, eh.”
Quando la serratura fu scattata dietro la schiena di Robert, Tom si girò subito verso di me con sguardo preoccupato.
“Wina, stai bene?!” Mi domandò concitato, prendendomi per le spalle. Annuii, un po’ spaesata, senza guardarlo. “Perché lo hai fatto entrare?” Chiese ancora.
Sollevai gli occhi, fissandolo smarrita. “Io… credevo che fossi tu… poi era lui…” Non mi ero resa conto di essere tanto sconvolta, quando prima ero presa nell’ammirare il mio angelo salvatore. “Tu come hai fatto…”
“Il portone era aperto.” Spiegò distrattamente, era troppo concentrato su di me, mi teneva saldamente per le braccia. “Hai avuto paura?” Mi chiese poi, dolcemente.
Mi resi conto in quel momento, osservando i suoi occhi preoccupati, che ne avevo avuta parecchia. Tremai e mi sentii le gambe improvvisamente molli. Tom mi sostenne, portando una delle sue mani alla mia vita.
“Ho avuto paura, sì…” Mormorai con un filo di voce. Tom, stranamente, sorrise. Un sorriso di una tenerezza disarmante.
“Sciocca.” Fece poi, scostandomi un ciuffo di capelli dal viso. “Non eri una dura, tu?” Aggiunse, continuando a sorridere in quel modo.
“Non mi era mai successa una cosa simile!” Piagnucolai io, con tono un po’ troppo infantile.  
“Dai, è passata.” Fece lui comprensivo, prima di stringermi a se, una mano tra i miei capelli, l’altra ad avvolgermi la vita. Mi abbandonai al suo abbraccio con forza.

Restammo così, uno nelle braccia dell’altra, per qualche minuto. Qualche lunghissimo, piacevolissimo, minuto. Quanto adoravo il suo profumo!
Tom, infine, si scostò un po’ da me e mi guardò con un’espressione stranissima, calda, inquieta che mi turbava profondamente. Quindi abbassò il viso verso di me, sfiorandomi le labbra con un bacio lievissimo e dolce come una caramella al miele.
Io mi irrigidii immediatamente e mi allontanai di un passo, fissandolo sbalordita. Non me lo aspettavo proprio.
“Tom, che cosa fai?” Domandai incredula, con gli occhi spalancati.
“Ti bacio.” Rispose lui smarrito.
“Perché?” Mi rendevo conto di fare delle domande stupide, di aver aspettato quel bacio per quasi un anno, ma non riuscivo a domare la mia razionalità.
“Perché mi piaci tanto.” Ammise Tom con semplicità.
Ecco. Il mio cuore in quel momento decise di prendere un turbo ascensore verso la gola e sfondarmi la laringe. Insomma, lui, questo angelo di vent’anni, bello come il sole, mi stava dicendo che io gli piacevo? Io? Ma cos’era, un sogno ad occhi aperti?
Mi feci nuovamente prendere dalla mia fottutissima cerebralità. Quasi quasi mi veniva da ridere.
“Andiamo, Tom, sono troppo vecchia per te.” Riuscii infine a mormorare, con la gola secca. Lui aggrottò la fronte, con espressione incerta.
“Oh, cavolo.” Replicò quindi, grattandosi un sopracciglio. “Dovevo pensarci prima di innamorarmi come un cretino…”
Il tempo si fermò. Il mio cuore smise di battere. Per un attimo mi sembrò che nella stanza mancasse la gravità. Quando la mia testa smise di girare e la stanza assunse di nuovo contorni nitidi, così come il volto divertito di Tom, io mi ritrassi dalle sue braccia.
Le sue parole mi avevano completamente sconvolta, ma era la reazione che avevo avuto a stupirmi ancora di più. Ero arrabbiata.
“Non prendermi in giro, Tom.” Dichiarai con durezza.
“Non ti sto prendendo in giro!” Replicò lui allargando le braccia.
“Tu… tu non puoi essere innamorato di me!” Protestai battendo i piedi.
“Perché?!” Sbottò Tom incredulo.
“Perché… perché ho dieci anni più di te e… e non sono niente di speciale!” Cercai di spiegare balbettando. “Tu non puoi. Non puoi! Tu sei Tom Kaulitz, io chi cavolo sono!” Aggiunsi concitata.
Lui si riavvicinò a me, io feci un passo indietro. Tom, però, sorrise con quella sua irresistibile dolcezza, paralizzandomi; poi prese il mio viso tra le mani. Erano calde, delicate.
“Tu sei molto speciale.” Mi assicurò convinto e la sua sicurezza, per un attimo, persuase anche me. “Sei la più speciale ragazza innamorata di me che abbia mai conosciuto.” Continuò sorridente.
“Io non sono innamorata di te…” Negai, decisamente poco convinta; lui, infatti, mi guardò con espressione scettica e divertita.
“No?” Fece poi, con voce calda e seducente.
Osservai i suoi splendidi occhi, il suo sguardo vivo e malizioso. Ero innamorata di lui. Perdutamente. Ma ammetterlo così mi faceva sentire troppo indifesa. E non era proprio il caso.
“Forse… un pochino…” Ammisi infine, cauta.
“Me lo farò bastare.” Affermò accondiscendente Tom, mentre disegnava spirali morbide sulle mie guance.
Ero persa nei suoi occhi e anche lui sembrava molto preso dai miei. Non sapevo cosa ci trovasse di così affascinante.
Mi accorsi, improvvisamente, che ci eravamo appena detti di essere innamorati l’uno dell’altra. E probabilmente lo eravamo da tempo. Forse fin dall’inizio. Era questo che mancava, ciò che non eravamo mai riusciti a dirci.
Mi sentii prendere da un improvviso coraggio. Il mio sguardo doveva essersi fatto più deciso, perché vidi una certa sorpresa negli occhi di Tom. Che si acutizzò, quando gli strinsi le braccia intorno al collo e lo baciai.
Gli ci volle un attimo, prima di reagire, ma poi mi abbracciò con forza, avvolgendomi con le sue braccia. La mia presa si fece più forte, intorno alla sua coda di dreads.
Ci baciammo a lungo, dolcemente, accarezzandoci reciprocamente il viso, i capelli, la schiena, le braccia nude. Era stupendo. Le labbra di Tom erano morbide, calde. Sapeva di pizza.
Cominciavo ad avere caldo, molto caldo, soprattutto quando le grandi mani di Tom mi massaggiavano sapienti i fianchi.
Quando ci staccammo per prendere fiato, io mi appoggiai al suo petto, sospirando. Tom mi accarezzava i capelli, continuando a lasciarmi piccoli baci sulla tempia. Ero completamente felice. Non mi sembrava vero.
Lui, però, all’improvviso, si scostò leggermente da me. Alzai gli occhi e lo vidi con un’espressione strana e perplessa.
“Che cosa c’è?” Gli chiesi sospettosa.
“Quello che cos’è?” Domandò lui, indicando qualcosa alle mie spalle.
Mi voltai e vidi la brandina, nel corridoio dietro di noi. Sospirai depressa, scrollando le spalle.
“È dove devo dormire io.” Confessai infine; Tom mi guardò stranito. “Rielke non vuole che usi la sua camera da letto, così…” Spiegai allora.
“Che cosa?!” Esclamò Tom esterrefatto. “E tu hai accettato?” Non potei che annuire. “Ma sei scema?!”
“Senti, quando hai finito di offendere…” Biascicai io, lo sguardo basso, incrociando le braccia. Non giunse risposta.
Quando, però, alzai gli occhi su di lui, non trovai quello che mi aspettavo, cioè uno sguardo di rimprovero, oppure offeso. L’espressione di Tom era divertita e molto maliziosa. Lo fissai stupita. Lui ammiccò verso la branda, io seguii confusa la sua occhiata.
“Che ne dici…” Esordì. “…reggerà con tutti e due?” Quindi mi guardò, invitante.
Io recuperai molto velocemente il mio spirito, gli sorrisi con complicità. “Beh, male che vada, piombiamo in testa a Robert…”
Ci guardammo, i nostri occhi scintillavano allegri. Bastò un secondo per scoppiare entrambi a ridere. Poco più, per farlo abbracciati.
“Ti amo, Wina.”
“Ti amo, Tom.”
Sarebbe stata la nostra notte. Una notte confortevole e rassicurante come le braccia di Tom. Anche dormendo su una brandina.
Dormendo?! Naaahhhh!

Fine

 
Buon Natale e Felice Anno Nuovo!
E a presto con le mie storie!
Bacioni!
Sara

   
 
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