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Autore: Nina Ninetta    11/04/2015    4 recensioni
Yumiko ed Eri, due donne, una trentenne e una quindicenne, una madre e una figlia, catapultate dall’altra parte del Mondo, costrette a ricominciare tutto d’accapo, a confrontarsi con una cultura completamente diversa, lontane anni luce dal loro Paese d’origine: il Giappone. Ma Yumiko quel nuovo Paese lo conosce già in un certo senso, ha imparato a conoscerlo attraverso i racconti del padre di Eri.
N.B. Il titolo è tratto dalla canzone di Malika Ayane “E se poi” così come i titoli di ogni capitolo saranno presi da frasi del medesimo testo.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2

Se non altro per vederti andar via ancora



 
Quella per Eri fu la mattina che le cambiò per sempre la vita. La sua e anche quella di sua madre a dirla tutta.
Fu la mattina che “obasaan” in Giappone avrebbe definito “le ore del Karma”. Ma Eri non credeva né in Dio – come suo padre – né in quell’altro, Buddha – come sua madre. Eri aveva smesso di credere in una forza divina che manovrasse i destini dei mortali dal momento in cui aveva appreso la notizia che il suo papà era andato a schiantarsi contro il guardrail, precipitando lungo il fianco scosceso di un burrone per diversi metri.
Sua nonna aveva affermato senza troppi giri di parole che il cerchio si era chiuso e il flusso naturale dell’Universo aveva ripreso a scorrere con regolarità. Eri non ci aveva capito niente, ma sua mamma sì, poiché per la prima volta nei suoi sei anni di vita l’aveva vista alzare la voce contro obasaan e dirgliene di tutti i colori, cosa che l’aveva poi lasciata senza forze né energie. Yumiko si era accasciata sulla sedia di ferro nel corridoio grigio e umido dell’obitorio e aveva strillato tutta la sua rabbia che teneva in corpo, semplicemente urlando come un animale ferito a morte.
Eri entrò nell’istituto della scuola come tutte le mattine: a testa bassa e senza rivolgere alcun saluto alle bidelle che, a loro volta, avevano imparato a ignorarla.
«I soliti cinesi» bisbigliavano, ignorando il fatto che Eri conoscesse molti più vocaboli della lingua spagnola di quanto volesse lasciar intendere. In quel nuovo Paese capitava spesso che scambiassero lei e sua madre per cinesi, la sola peculiarità degli occhi a mandorla consentiva alle persone di definire tutti cinesi, così quando le girava male rispondeva a tono chiedendo se per caso fossero argentini:
«Per me siete tutti uguali» diceva facendo spallucce e puntualmente le arrivava addosso lo sguardo ammonitore di sua madre.
La ragazza attese la fine della prima ora con le spalle contro il muro e lo zaino fra le gambe, pensando a tutto e a niente. Una vocina insistente le ripeteva in continuazione di boicottare quella giornata scolastica, ma ad una parte di sé non andava di prendere in giro Yumiko, né tantomeno di camminare da sola e a piedi per la città. Così aspettò, sorridendo di tanto in tanto al ricordo di quella mattina: alla faccia dispiaciuta di sua mamma che sbatteva lo sportello contro il naso di quel ragazzo, l’espressione incredula di questo nel ritrovarsi con la maglia sporca di sangue nell’auto di due sconosciute orientali, il presentimento che Macchia avesse potuto morderlo. La campanella che segnava la fine della prima ora di lezione la ridestò come una sveglia e non fece in tempo ad alzarsi che il professore di scienze la stava già fissando dall’alto, con quel classico cipiglio che teneva in mezzo alle sopracciglia pelose. Eri si alzò e trascinò con sé la borsa, dando il buon giorno all’insegnante con un mugugno. Parlare spagnolo a volte le faceva provare vergogna, come quando in prima elementare aveva dovuto chiedere alla sua compagna di banco “come ti chiami” in inglese. In poche parole, parlare un’altra lingua la faceva sentire stupida.
Entrò nella classe e subito notò che il suo vicino di banco era cambiato: non era più la ragazza down accompagnata dall’insegnante di sostegno, l’unica che aveva accettato di sedersi al suo canto il primo giorno di scuola, ma un nuovo studente.
Eri si sedette sulla sedia senza spiccicare parola. Lui smise di disegnare sul suo diario e la guardò, tutto intorno il chiacchiericcio della classe.
«Ciao, mi chiamo Kingsley e questo è il mio primo giorno di scuola» si presentò il ragazzo porgendole la mano con la matita incastrata fra le dita. Eri lo studiò, aveva la pelle molto scura, i capelli ricciolini striati di giallo e una treccina colorata gli scendeva lungo la parte sinistra del collo, l’accento straniero non era della zona. Gli strinse la mano:
«Io sono Eri Joaquin Morales e per me è sempre il primo giorno di scuola.»
 
Yumiko entrò in casa e fu assalita dall’odore di chiuso che tanto detestava. Le ricordava  l’odore di vecchio che annusava quando da bambina andava a trovare la nonna, la sua obasaan, costretta in un letto. Issò le borse della spesa sul tavolo della cucina e spalancò la finestra, respirando a pieni polmoni l’aria fresca. Passò in rassegna le altre camera dell’appartamento, aprendo le ante del balcone nella sua stanza da letto, la finestra in quella di sua figlia e infine quella del bagno. Intonò una vecchia canzone della sua adolescenza, mettendo in ordine la spesa: il latte nel frigo, il barattolo di cioccolato nella dispensa, il gelato alla nocciola nel freezer, fingendo che il viso di quello sconosciuto non la tormentasse da quando lo aveva visto allontanarsi con l’infermiere, intanto che Macchia giocherellava con un vecchio pupazzo che un tempo era appartenuto alla sua padroncina, tutto morsicato.
Dopo la morte del padre di Eri, Yumiko non aveva più pensato a nessuno in quel senso, era sì uscita con altri uomini, ma non li aveva rivisti dopo il primo appuntamento.
Quando aveva conosciuto Joaquin Diego Morales aveva avuto solo quattordici anni. I suoi vicini stavano ristrutturando casa e Yumiko trascorreva molto tempo nel suo giardino durante le vacanze estive, ed era stato proprio in quei mesi che quel ragazzo così diverso dagli uomini a cui era abituata attirò la sua attenzione. Yumiko non si era ancora innamorata, non sapeva cosa significasse avere le farfalle nello stomaco, né sapeva come contrastare quel sudore freddo che si concentrava nei palmi della mani e lungo la schiena. Lei era rimasta praticamente incantata di fronte a quel colorito caldo che spiccava in mezzo a tutto quel pallore giapponese. Lui si era sentito osservato e si era voltato a guardarla, alzando una mano in cenno di saluto e sorridendole. Era stato il colpo di grazia. Di lì a qualche anno sarebbe rimasta incinta e avrebbe dovuto lottare con tutte le forze per portare avanti la gravidanza di Eri.
Ovviamente quella mattina non aveva provato le stesse sensazioni sperimentate a quattordici anni, soprattutto perché non era più una bimbetta che giocava a fare la donna, ma qualcosa si era smosso dentro di lei e fingere che così non fosse era snervante. Adoperò le energie del pensiero di quell’estraneo nelle faccende domestiche: riordinò la camera da letto di Eri, mise a fare la lavatrice e mentre aspettava che questa finisse riassettò il bagno, quindi mise ad asciugare i panni lavati e alla fine cucinò per un esercito.
Quando alzò lo sguardo sull’orologio era già ora di passare a prendere Eri a scuola. Apparecchiò velocemente, prese le chiavi al volo sulla cassettiera all’entrata e tornò in strada alla guida della Yaris, cosa che inevitabilmente la portò a ripensare ai fatti accaduti quella mattina. Immaginò di rincontrarlo, magari scontrandosi con la sua auto e allora sì che l’avrebbe denunciata, magari per stalking, invece non accadde nulla. Prelevò sua figlia, acquattata dietro al solito muretto, e tornando a casa Yumiko parlò di tutto tranne del suo costante pensiero, ed Eri le rispose senza raccontarle del suo nuovo – e unico – compagno di classe.
Durante il pranzo – a base di riso come la tradizione giapponese impone – Eri disse una cosa che fece sudare freddo sua madre:
«Carino il ragazzo di stamattina» lo disse senza malizia, perché lo pensava davvero, per questo la reazione di sua madre la insospettì.
«Dici?!» Le mostro la pentola con il riso bollito «Ne vuoi dell’altro?» Stava tentando di cambiare argomento.
«Si, grazie.» Eri le porse il piatto vuoto e sua madre lo riempì con una cucchiaiata di chicchi di riso bianchi e compatti «Secondo me avresti dovuto chiedergli il numero di telefono.» Yumiko avvampò:
«A chi scusa?»
«Al ragazzo che hai rotto il naso, okaasan!» Quando sua figlia la chiamava mamma con quella cadenza cantilenante Yumiko si infastidiva.
«Ho trentadue anni, ti pare che possa ancora perdere tempo dietro a ‘ste cose?!» Eri fece spallucce e parlò a bocca piena
«Perché no? Infondo ne dimostri appena trenta.» Sua madre la guardò fra l’offeso e l’imbarazzato e la ragazzina le sorrise, se non fosse stata così presa dal ricordo di quella mattina, avrebbe notato che per la prima volta Eri aveva pronunciato più di due frasi a tavola dopo la scuola «E comunque era carino!» Questa volta fu Yumiko a fare spallucce, un vezzo che Eri aveva ereditato da lei, poi prese a sparecchiare affermando che doveva andare a lavoro qualche minuto prima.
Era una bugia. Un modo come un altro per fermare quella strana conversazione che stava mettendo radici fra lei e sua figlia.
Ma Eri era presa dal suo telefilm preferito, quello sui medici di Seattle, aveva finito i compiti da un pezzo e si stava gingillando sul divano. Di solito dopo qualche minuto il suono cantilenante della lingua latina diventava un sottofondo e la sua mente se ne andava a zonzo, in ogni caso mai come quel pomeriggio correva volentieri alle ore che aveva trascorso a scuola. Sua madre le posò un bacio a fior di labbra, un gesto che faceva fin da quando Eri se ne stava buona buona nella culla, le sciorinò le solite raccomandazioni: chiudi a chiave la porta, non aprire a nessuno, non restare sveglia fino a tardi che domani hai scuola (Eri non era mai stata così contenta di sentirglielo dire).
 
Yumiko guidò fino al locale canticchiando il motivetto di una canzone spagnola che neanche le piaceva, chiedendosi se prima o poi entrando in quella macchina avesse smesso di ripensare all’estraneo a cui aveva fatto sanguinare il naso.
Aveva trovato quel lavoro da pochi mesi, all’inizio si era arrangiata lavorando in un’impresa di pulizia, poi in un supermarket, alla fine aveva trovato quell’annuncio su internet e aveva inviato il suo curriculum con tanto di foto allegata. L’avevano contattata il giorno seguente e da allora Yumiko lavorava come barista in un locale per adulti.
Non che le ballerine lì dentro se ne andassero in giro nude, piuttosto poco vestite. Yumiko aveva imparato a conoscerle, qualcuna era anche simpatica con un litro di alcool in corpo. Lei era rilegata dietro al bancone del bar, con una collega che si fumava tutto quello che le capitava a tiro, ma la paga era buona e puntuale e gli straordinari le venivano retribuiti senza complimenti. A sua figlia non aveva avuto il coraggio di confessarle il proprio impiego, le aveva riferito quello che aveva potuto e cioè che faceva la barista.
Il locale apriva al pubblico alle venti e c’erano state sere, soprattutto nel fine settimana, che restava aperto anche oltre l’orario stabilito, ovvero le tre. I dipendenti si incontravano con diverse ore di anticipo per preparare la sala, cambiarsi d’abito ed entrare nel personaggio, come soleva dire Oscar, la dark queen, regina indiscussa del night club. All’inizio per Yumiko non era stato facile, poi ci aveva fatto l’abitudine e adesso stentava a parlare con Oscar quando era vestito da uomo. Una volta le aveva detto che loro sono completi a 360° perché sono esseri al cento per cento, sono uomo e donna insieme, non solo l’uno o l’altra. Per Yumiko – che proveniva da un paese estremamente conservatore e da una famiglia altrettanto all’antica – era stato come ammettere che Siddharta era un cialtrone, solo rendendosi conto di che grande cuore aveva il suo nuovo collega – l’unico tra l’altro che non la chiamava “la cinese” – si era convinta che non fosse “pericoloso”.
Come tutte le sere prima dello spettacolo, Oscar nel suo abito fucsia tutto piume e volant, passò a baciarle la guancia, sussurrandole nell’orecchio “mierda”, una parola che in quel Paese era un incitamento e uno scaccia sfortuna.
La gente iniziò ad affollare il locale già intorno alle ventuno, una delle cose che aveva stupito Yumiko, nella settimana di prova, era stato notare che seduti ai tavolini a gustarsi lo spettacolo di lap dance non c’erano solo uomini, ma anche donne non più tanto giovani, spesso e volentieri mogli o compagne.  
«Mì amor un bicchiere d’acqua» Yumiko si voltò sorridente, la voce di Oscar che a fine serata lasciava trasudare tutta la stanchezza e lo stress accumulato la divertiva, sembrava quello di una donna con le mestruazioni.
«Certo onii-chan» lei lo chiamava fratellone da quando le aveva chiesto di affibbiargli uno di quei termini giapponesi che tanto lo divertivano. A volte aveva scherzato dicendo che avrebbe anche potuto cambiare il suo soprannome in quello di onii-chan, fratellone appunto. La donna gli porse il bicchiere con l’acqua e rimase a bocca aperta, il sorriso si trasformò in una smorfia. Oscar la ringraziò e passò il bicchiere al ragazzo che gli era di fianco, lo stesso a cui Yumiko aveva rotto il naso la mattina precedente. Questi la osservò, aveva un gran cerotto bianco sul dorso del naso, le labbra gli si incresparono in un sorrisetto. Strappò la bustina di analgesico senza smettere di guardarla, la rovesciò nell’acqua che lei stessa gli aveva versato e le chiese un cucchiaino per mescolare.
«Hai!» ecco che quando si agitava la sua lingua madre tornava prepotente, le veniva difficile perfino rispondere un semplice “si”. Glielo passò, uno di quei cucchiaini con il manico lungo, utile per mangiare nelle profonde coppe di gelato. Lo sconosciuto fissò l’oggetto di metallo, poi con garbo le fece notare che è sconsigliato mescolare le medicine con il ferro poiché alcuni principi attivi potrebbero subire delle alterazioni. Yumiko non ci capì molto, l’unico messaggio che recepì, e che forse era quello fondamentale, fu di aver fatto la figura della scema e che doveva sbrigarsi a dargli qualcosa per mescolare quella diavolo di medicina che non fosse fatto di ferro.
«Gomena sai» si scusò «Gomena sai» gli passò la prima cosa che si trovò dinnanzi, ossia una cannuccia.
«Significa “scusa”» precisò Oscar al suo amico che allargò il sorriso a quella puntualizzazione.
«Ho imparato a mie spese cosa significa, credimi» lanciò un’ultima occhiata divertita alla povera barista che si stava maciullando le mani sotto al bancone. Non ce la fece a ricambiargli il sorriso e si sentì morire quando le fece l’occhiolino in un gesto di complicità, quindi bevve la medicina che serviva a placare il dolore, probabilmente al naso rotto.
«Yumiko, mi amor, tutto bene?» le chiese Oscar accarezzandole una spalla e lei annuì. «Stasera sei strana, non strafare» la donna scosse il capo, in testa un guazzabuglio di idiomi giapponesi si mischiavano a termini spagnoli e alla fine non riuscì a spiccicar parola. I due amici si allontanarono porgendole i loro saluti e Yumiko si chinò in avanti, come si faceva in Giappone per salutare o ringraziare. Quando sollevò appena il capo per (ri)vederlo andare via, si accorse che lo sconosciuto la stava osservando, e sembrava parecchio divertito.
 
  
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