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Autore: Lodd Fantasy Factory    15/04/2015    1 recensioni
Nell'ora della barbarie gli Elleni si preparono a serrare la falange per arrestare la feroce avanzata del figlio di Re Dario, il terribile Tiranno Serse. L'ultima celebre battaglia dei 300 di Leonida, per dare una speranza al popolo Greco di riorganizzare le difese, ha inizio. Le numerose truppe persiane hanno raggiunto le Termopili, e marciano sotto le frustate del loro Tiranno: l'ora dei grandi eroi non può più attendere! Il destino di Re Leonida, l'ultimo erede di Eracle, sta per compiersi.
Genere: Avventura, Fantasy, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Leonida, Sorpresa
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Premessa:

Questo racconto è stato ispirato proprio dall'illustrazione di Costantino Nieddu. Leonida è un personaggio che mi è sempre piaciuto, ma l'ispirazione aggiuntiva per portare a termine questo racconto è stata data dalla celebre Graphic Novel "300" di Frank Miller, dall'omonimo film e dal romanzo di Andrea Frediani "300 GUERRIERI".
Con questa storia non voglio narrare la solita vicenda di Leonida ed i suoi spartani, ma una versione differente della storia, probabilmente inadeguata alle reali vicende. Semplicemente una leggenda, così come i veri eroi erano descritti nella mitologia.

Lodd Fantasy Factory

I baldanzosi fuochi si agitavano spavaldi in cima allo stretto passaggio, proiettando le enormi sagome degli spartani ai piedi della breccia, quasi fossero giganti. Era usanza dei Greci usufruire di quello stratagemma per intimorire i nemici: le ombre rappresentavano l'immensità della loro cultura, oltre ad essere capaci di far tremare i soldati persiani, che con tanta scelleratezza avevano assecondato il volere di re Serse, spingendosi prematuramente nei pressi della Bocca dell'Ade – così l'aveva definita Agamestre – poiché gli spartani avevano provveduto a gettare fra le sue fauci un elevato numero dei loro nemici.
I focolai erano accesi giorno e notte, a simboleggiare la speranza che divampava e la forza del popolo greco, che per nessuna ragione al mondo avrebbe ceduto all'avanzata del tiranno. Il vino scorreva a fiumi fra gli opliti, finendo per fondersi col sangue dei molti persiani trapassati dagli aculei dalla falange, abbandonati in una palude di cadaveri, formatasi in quei giorni di estenuante – almeno per gli aggressori – contesa.
I pentecontarchi avevano dato chiare disposizioni: i cadaveri avversari sarebbero dovuti essere ammassati ad un centinaio di metri dall'ingresso delle Termopili, affinché i persiani fossero costretti a stanziarvi prima e durante lo scontro, così da abbattere il loro morale ed intossicarli con i miasmi di morte, che invadevano come cenere le vie respiratorie. Una moltitudine di fuochi fatui aleggiava fra i brandelli di carni esotiche, lasciate essiccare sotto il sole cocente.
«Ve lo dico io, Eguali: i persiani cadranno presto sotto la terribile marcia della nostra falange!», profetizzò Agamestre, sollevando in alto il proprio elmo piumato, grondante di linfa nemica. I suoi occhi castani si perdevano oltre il muro di scudi dorati, sulle armature multicolore delle truppe orientali. «Guardateli, quei figli di una cagna, si sottraggono ad una morte gloriosa... unicamente per abbracciarne una voluta dal loro stesso padrone. Hanno mancato la gloria in vita, ed hanno perso l'occasione di scambiarla al prezzo della morte!», annunciò con tono di condanna.
«Rammentatelo spartiati, quando li avrete nuovamente davanti sul campo di battaglia. Questo è ciò che differenzia noi Greci dalla feccia persiana: siamo uomini liberi, guerrieri, figli prediletti nella culla della civiltà ellenica, che affrontano degli schiavi soggiogati dal tiranno che ha depredato l'oriente. Saranno pure nati nella terra dove sorge il sole, ma hanno scordato di essere giunti ove tramonta, e loro tramonteranno con esso!», proclamò risolutamente Leonida, posto a capo della falange. La sua panoplia1 dorata pareva costituita dagli stessi raggi di Apollo, mentre il tribone2 scarlatto era gonfio dello sbuffo di Eolo, facendolo apparire ancor più imponente di quanto già non fosse.
Gli sguardi degli opliti ne furono inesorabilmente rapiti. Risposero con un assordante boato, tale che sarebbe stato in grado di far tremare lo stesso Atlante.
Era il terzo giorno che i greci conquistavano sul campo, accusando solo quattro perdite, a discapito degli innumerevoli decessi nello schieramento opposto, parte del quale ora giaceva ad un centinaio di metri dalla via di accesso alle Termopili. Quella ripugnante palude esalava costantemente un fetore di morte tanto ripugnante da risultare quasi velenoso per chiunque lo respirasse, anche inavvertitamente.
Agamestre, con il quale Leonida aveva condiviso ogni sorta d'avventura nell'agogé1 e in quei trenta lunghi anni di fratellanza, aveva l'incarico di radunare sempre più corpi in quel malsano luogo, nonostante egli stesso avesse messo in guardia il suo re sui pericoli che tale comando avrebbe potuto comportare anche per il resto dei greci. Aveva ottenuto una risposta degna del sovrano che serviva, ed aveva taciuto quelle sue parole, fiero di poter condividere tale fardello con l'uomo che lo conosceva meglio della donna che l'aveva partorito.
Si raccontavano già numerose storie su quella palude di cadaveri, e le sentinelle narravano di voci nelle tenebre, di luci che si tuffavano nei mari e che ne riemergevano con le forme più disparate. Agamestre aveva incentivato quelle stesse leggende, alludendo che si trattasse di Ade stesso, giunto a prendersi le anime di coloro che avevano ripudiato la sua legge: raccontava che gli Dei fossero al loro fianco, per proteggerli dalla terribile minaccia che incombeva.

«Mio Re, ti mandano a chiamare», acclamò uno spartiata, tenendosi a dovuta distanza dal sovrano, che dalla cima dell'altura scrutava il campo di battaglia, oltre che i suoi confratelli atti ad esibirsi nei consueti esercizi ginnici alle porte delle Termopili, finalizzati ad intimorire l'avanzata nemica.

«Non ho udito o scorto Serse avvicinarsi: cosa rende la mia presenza indispensabile?», domandò senza voltarsi. Qualcosa nella sinistra foschia che avvolgeva la palude lo aveva incuriosito, ma non era riuscito a capacitarsi di quanto aveva appena notato.

«Una donna...», rispose irrigidito il guerriero.

«Lasciala passare».

«Una vittoria magistrale, Re Leonida. A lungo il mondo canterà di come un pugno di spartani abbia tenuto testa ad un esercito che vanta d'aver messo in ginocchio tutto l'oriente», esordì una voce seducente. La veste turchina che indossava era avvinghiata come una seconda pelle al suo corpo, mettendo in risalto le sue sinuose forme. I lunghi capelli neri si mostravano raccolti in una treccia che ciondolava fra i due seni, mentre i suoi intensi occhi verdi lasciavano trapelare un fascino raro ed ignoto. Aveva un portamento aristocratico, nascosto sotto una genuina bellezza che avrebbe fatto impallidire Afrodite stessa.

«Un pugno è più che sufficiente quando occorre sostenere uno scudo; un secondo è impersonato dalla Grecia stessa, che affonderà la spada nel cuore di Serse! Non si parla solo di spartani, ma dell'intero popolo ellenico. E la vittoria? È ancora presto per definirla tale, nel momento in cui la bestia, ferita, si è ritirata nella sua tana per leccarsi le ferite. Tornerà in cerca di vendetta, più furente che mai... e solo allora sarà decretata la sorte di questa guerra: o la vittoria, o la disfatta!», rispose compostamente. Ogni suo termine era accuratamente ponderato, e la donna parve intuire ed apprezzare la costruttiva obiettività del sovrano.

«Fiero di guidare lo scontro, ma con i piedi ben saldi a terra. È una dote rara per chi si trova a capo di uomini tanto coraggiosi. Il degno erede di Eracle, dopotutto: è questo il dono che rende un semplice uomo una leggenda?», chiese lei con fare lusinghiero, consumando la distanza che li divideva con ammalianti passi felini.

«Icaro ci ha insegnato a caro prezzo che gli uomini sono stati fatti per camminare, non per volare. Altrimenti saremmo tutti a spasso per i cieli, beffandoci di Atlante. Ermes perderebbe il suo lavoro come messaggero degli Dei. Sono lo scudo che protegge il mio fianco, e l'oplita che preme contro la mia schiena, che permettono alla mia spada di aprirmi un varco fra i nemici: sono loro a rendermi parte dell'immensa leggenda che è la mia terra, la Grecia», le rivelò orgoglioso.

«Un semplice uomo... oppure un araldo della patria? Mi domando se, pur nell'ora ove lo scudo è lasciato a riposo, e la spada funge da unico mezzo per aprirsi una breccia nella culla della vita, siate tanto devoto alla vostra sposa... almeno ad una delle due», commentò divertita, offrendogli la visione della sua nuda schiena. Quelle parole riportarono alla mente del re il profumo di Gorgo, ed il ricordo dell'ultima notte in cui aveva visto i loro corpi fondersi in uno solo.

«Temo non avrai il privilegio di saziare certe curiosità, donna», tagliò corto Leonida. «Basta giochetti: chi sei, e per quale motivo hai voluto incontrarmi?», domandò, inflessibile nella sua statuaria posa da guerriero.

«Sono qui per offrirti la possibilità di porre fine a questa guerra, di modo che possa favorire il tuo popolo. Serse si avvicina, ma non è di lui che hai timore, spartano. Phobos accompagna il tuo sonno, strappandolo al riposo che un valoroso guerriero meriterebbe», sibilò accostandosi al suo orecchio, osservando la palude in lontananza.

«I Persiani utilizzeranno qualsiasi stratagemma per vincere questa guerra ma, finché terremo la posizione, non avranno possibilità alcuna di passare. Noi non siamo che la punta della falange, presto i nostri fratelli ci raggiungeranno, ed allora Serse si preoccuperà realmente del nostro numero: la paura afferrerà i cuori dei suoi schiavi. La tua bocca aveva intenzione di espellere dei consigli in merito, oltre a tali ovvietà?», chiese stancamente, annoiato dalla conversazione. Quella donna non appariva come le altre, ed un sinistro sospetto prese a crescere dentro il sovrano.

«Sarebbe inutile, spartano. Per oggi mi limiterò a presagire quanto avverrà: domani sarai tu, Re Leonida, a venirmi a cercare in questo luogo. Se tieni ai tuoi soldati, presterai ascolto a quanto avrò da dire, erede di Eracle. Dì ai tuoi uomini di spendere saggiamente le ore prima della battaglia: potrebbe essere l'ultima che affronteranno al tuo fianco», profetizzò con tono gelido, tanto che un brivido corse lungo la schiena del sovrano di Lacedemone.

«Potrebbe quasi intendersi come una minaccia», aggiunse il guerriero. «Credo il tuo nome si sia perso nei presagi di morte, donna».

«I Mali mi chiamano Efialte», si annunciò simulando un elegante inchino, prima di diradarsi come nebbia lungo il sentiero solitario che conduceva all'altura.

Leonida avrebbe riposato poco quella notte, tormentato dalle parole di quell'avvenente e minacciosa figura. Poi, la compagnia di Gorgo e le sue forme, condotte da Morfeo in sogno, lo strapparono ai vaneggi notturni.



1Indica l'armamento completo: elmo, corazza, gambali, scudo e lancia.

2Il tribone è il mantello spartano, generalmente non usato in battaglia.

1L'agogé è l'addestramento a cui sono sottoposti gli spartani da giovani.

1Detto "Ammazzalucertole" è uno spunzone posto alla base della lancia.



   
 
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