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Autore: Elpis Aldebaran    24/12/2008    5 recensioni
Nel suo salotto, un abete spiccava in un angolo ben in vista, decorato rigogliosamente di bianco e rosso, come la bandiera del Giappone; fosse stato per lui, in quella casa non ci sarebbe stato nessun albero colorato, nessun addobbo sparso per le stanze, non un pacchetto accanto al camino.
Nemmeno il piccolo Babbo Natale alla porta d’ingresso, se proprio voleva togliersi tutti i sassolini dalla scarpa.
[Shot natalizia senza pretese, scritta come al solito a orari indecenti. ù_ù]
Genere: Generale, Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Genzo Wakabayashi/Benji
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il cielo grigio di Amburgo

 

 

 

 

 

 

 

 

Amburgo non gli era sembrata mai così fredda e nuvolosa come quella mattina.

Il sole era nascosto da alcune nuvole grigio piombo che facevano passare solo qualche raggio opaco e sbieco, insufficiente per illuminare le strade della città, che lentamente si stavano svegliando.

Genzo guardò sconsolato il mare dalla vetrata della sua camera, un po’ di cattivo umore per il tempo freddo e fastidioso, un po’ perché quella mattina gli sembrava più triste e solitaria di tutte le altre. Nel suo salotto, un abete spiccava in un angolo ben in vista, decorato rigogliosamente di bianco e rosso, come la bandiera del Giappone; fosse stato per lui, in quella casa non ci sarebbe stato nessun albero colorato, nessun addobbo sparso per le stanze, non un pacchetto accanto al camino.

Nemmeno il piccolo Babbo Natale alla porta d’ingresso, se proprio voleva togliersi tutti i sassolini dalla scarpa. Era stata J.D. che solo due settimane prima, entrando dopo tanto tempo nel suo appartamento, era rimasta scioccata, per non dire indignata, di trovare quel posto così freddo e spoglio sotto l’attesa festa natalizia, decidendo senza nemmeno consultarlo che avrebbe risistemato quel posto da cima a fondo.

Lui l’aveva lasciata fare, come sempre, un po’ perché non voleva mettersi a discutere, un po’ perché in fondo gli sarebbe piaciuto festeggiare un Natale decente, almeno una volta nella vita; fino ai vent’anni si era sempre ritrovato a casa di qualche amico, al pranzo del 25. Nell’ultimo periodo, poi, era come se fosse entrato ufficialmente nella famiglia di Schneider, nemmeno fosse stato la sua ragazza.

Ogni Natale che passava però, il suo umore e la sua voglia di festeggiare si affievolivano e cominciò a declinare ogni invito che gli veniva avanzato: perché quello era un periodo dell’anno che bisognava passare in famiglia, riunirsi tutti e stare felice e insieme almeno per un giorno, senza problemi e senza litigi. Solo per quel giorno, sembrava che tutto il mondo si fermasse.

Lui invece, in quelle occasioni, si sentiva sempre di troppo, come un ospite, sì desiderato, ma fuori luogo. Per questo alla fine aveva detto a Karl che avrebbe passato le feste a casa, omettendo ovviamente il fatto che sarebbe stato solo.

Era stato così per quasi sette anni, dove la sera della Vigilia gli telefonavano tutti per il solito giro di auguri e chiacchiere: prima fra tutti Sanae, che mai perdeva occasione di ricordargli quanto fosse scorbutico a non farsi sentire mai, e Tsubasa che gli ricordava qualche allenamento o impegno con la nazionale, dato che spesso e volentieri scordava le cose; Mikami gli telefonava sempre da qualche posto diverso del mondo, dicendo di stare attento e di non farsi male, come sempre; Matsuyama e Misugi non si perdevano in chiacchiere futili, almeno loro, e nemmeno Hyuuga, che per educazione almeno un messaggino lo mandava, o forse era vero che a Natale sono tutti più buoni. L’unico che gli faceva perdere tempo era Ishizaki, che trovava sempre qualcosa di cui parlare e doveva ammettere che mai aveva sentito dei monologhi così ben strutturati come i suoi.

Alla fine della serata, dopo la telefonata strappa lacrime di sua madre, arrivava sempre un suo messaggio, coinciso e breve.

J.D. non amava parlare se c’era poco da dire, non era una che cercava di allungare le conversazioni, lo trovava inutile, e anche lui. Non erano mai riusciti a passare un Natale insieme, come coppia, da quando si erano conosciuti dieci anni prima; all’inizio perché il loro rapporto si fermava all’amicizia (o sopportazione reciproca) e non credevano necessario passare le feste assieme, non c’era alcun motivo. Dopo, le cose erano leggermente cambiate.

Non era mai stato un ragazzo facile, e questo lo sapeva bene, lo si poteva vedere anche dai suoi rapporti con le altre persone, che spesso non erano idilliaci: andava preso per il verso giusto, solamente. Lei invece la si poteva amare o odiare, non esistevano vie di mezzo. Forse per questo avevano passato gli ultimi cinque anni delle loro vite a rincorrersi, cercarsi, litigare furiosamente, mollarsi, per poi rifinire sempre nel letto dell’uno o dell’altro.

Genzo, lanciando qualche altra fugace occhiata al cielo grigio di Amburgo, si ritrovò a maledire Jayme Dee Thompson, perché se non l’avesse conosciuta, forse in quel momento se ne starebbe stato a letto a dormire, lasciando che quella giornata scivolasse via il più velocemente possibile, senza pensieri e preoccupazioni. Al contrario, era stato svegliato dai suoi sensi di colpa, perché dopo un mese che le cose filavano liscio, lei aveva deciso di incazzarsi con lui solo due sere prima.

Avevano litigato, come al solito, urlando come degli ossessi, e lei a mezzanotte passata se n’era andata sbattendo la porta, spengendo il cellulare, staccando il telefono di casa sua: modi come altri di dire “Genzo, non rompermi le palle”.

Lui non l’aveva chiamata, non l’aveva cercata, abituato a quelle sceneggiate da telenovela; ma mai come in quel momento gli pesava la solitudine del giorno di Natale. Forse perché avendo avuto J.D. che girava per casa in quell’ultimo mese, allegra come non lo era mai stata, si era abituato piacevolmente ad avere intorno quegli occhi verdi più spesso del solito e quel sorriso che a volte nascondeva dietro a una mano, in modo giocoso. Si era illuso, almeno per un Natale, di passare una giornata felice, tranquilla, con una persona con cui non doveva fingere di essere allegro o spensierato, ma poteva essere se stesso, con i suoi malumori e il suo essere scorbutico.

Gli era piaciuta quell’idea di festeggiare con lei.

Idea che era miseramente crollata e che adesso gli aveva svuotato il cuore ancora di più.

Perché non la lasciava perdere, una che un giorno è felice di stare con te e l’altro vorrebbe ammazzarti di botte? Per tre semplici motivi, che risultavano strani e inspiegabili persino a lui. Il primo, come gli aveva fatto notare Sanae più di una volta, era che J.D. amava profondamente il calcio e ciò portava al fatto che solo una donna così poteva sopportarlo, e questo era il motivo due, strettamente collegato.

Il terzo era che lui, come un allocco, era caduto nella sua trappola, quella che le donne tessono per abbindolare gli uomini belli e facoltosi come lui. Si era innamorato, di lei. Mai una sciagura peggiore gli era capitata nella vita.

Non sapeva quante volte aveva provato a togliersela dalla testa, frequentando altre, anche più di una alla volta, cercando di pensare alle cose più disperate, pur di non avere la sua immagine nitida nella testa per ventisei ore al giorno.

Ma per Genzo, J.D. era stata come una droga: all’inizio non ne voleva sapere di lei (e lei di lui), sopportandola, punzecchiandola a volte per darle volutamente fastidio, litigando come dei pazzi, venendo quasi alle mani. Il resto era successo talmente in fretta che anche a ripensarci, si era chiesto come aveva fatto quella sera di anni prima a sbatterla contro la porta della sua stanza e baciarla come non aveva mai fatto con nessun altra ragazza. Da quel momento, come uno stupefacente, nonostante sapesse che si sarebbe fatto male con lei, che avrebbe sofferto, non aveva trovato il modo di mandarla via dalla sua vita.

Adesso ne pagava le conseguenze, ma doveva ammettere che quello a confronto di lasciarla per sempre, gli sembrava il male minore.

Adesso si stava anche chiedendo se non fosse colpa di Jay se faceva quei discorsi melodrammatici da quindicenne con la cotta, perché altrimenti stava peggiorando e Kojiro, scoprendo quel lato del suo carattere, lo avrebbe preso in giro fino alla morte.

Uscì dalla sua camera indossando solo i suoi pantaloni della tuta, camminando sul parquet freddo a piedi nudi, dirigendosi velocemente in cucina: meno vedeva quell’abete rosso e bianco, meglio sarebbe stato. Cominciò ad armeggiare con la moka e il barattolo del cafè, quando il campanello dell’ingresso suonò una sola volta, rimbombando per l’appartamento vuoto.

Lasciò perdere l’intento di prepararsi la colazione, chiedendosi chi, a parte Babbo Natale, poteva presentarsi da lui alle sette del mattino del giorno di Natale; non si curò nemmeno di sbirciare dallo spioncino, aprendo con uno scatto la porta e sbadigliando senza riguardi in faccia al suo visitatore.

“Sono felice che durante la mia assenza i tuoi denti siano ancora tutti e trentasei e al loro posto, è una cosa mi tranquillizza.”

Genzo spalancò impercettibilmente gli occhi, trovandosi J.D. di fronte a lui, avvolta nella sua sciarpa verde di lana (gliel’aveva regalata lui, non si sbagliava) e in una giacca a vento nera, infreddolita dalla temperatura esterna della città. La guardò a lungo confuso, soffermandosi sui suoi capelli castani che ricadevano scompigliati sulle spalle, come sempre, sugli occhi verdi cerchiati da due belle occhiaie e sul naso rosso come un pomodoro, raffreddato.

Era in uno stato di magnifica devastazione.

“Sbaglio.. o noi due avevamo litigato?” chiese alzando un sopracciglio scettico.

“E ti ho anche mandato al diavolo, per la precisione..” disse lei puntando le mani sui fianchi.

“Augurio seguito da altri epiteti dalla sfumatura simpatica, devo dire..”

Jayme sbuffò, capendo che Genzo era ancora arrabbiato con lei, sebbene non capisse per quale motivo, giacchè doveva essere il contrario.

Non indugiò molto, dato che non era venuta da lui né per fare la fidanzata pentita e distrutta dal dolore, né per altro.

Tirò fuori dalla borsa a tracolla un pacchetto di medie dimensioni avvolto in una carta rossa e oro, senza alcun bigliettino.

“E’ il tuo regalo di Natale. Avrei dovuto dartelo ieri sera ma.. diciamo che le cose non sono andate come previsto.” Spiegò lentamente, non smettendo di guardarlo negli occhi.

Non avrebbe mai abbassato lo sguardo, davanti a lui.

Genzo lo prese sorpreso, aspettandosi tutto, anche un ceffone, ma non certamente un regalo. Se lo rigirò tra le mani senza un motivo apparente, cercando le parole per dirle una cosa, una qualsiasi cosa. Ma lei lo anticipò, sospirando pesantemente.

“Mi dispiace.”

Silenzio.

“Ma non abituarti troppo, prima e ultima volta che mi senti pronunciare queste parole, Wakabayashi: d’altra parte a Natale siamo tutti più buoni, no?”

Genzo le fece un mezzo sorriso, non sapendo precisamente se saltarle addosso e baciarla in mezzo al corridoio senza riguardo, oppure scoppiarle a ridere in faccia, tanto era assurda tutta quella situazione.

Optò per spostarsi di lato alla porta, invitandola a entrare.

“Il tuo regalo è sotto l’albero, come vuole tradizione..”

“Spero che sia qualcosa da mangiare: essere bisbetica tutti i giorni fa venire una gran fame*.”

Genzo scoppiò a ridere mentre lei lo superava, chiudendo poi la porta dietro di loro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

* “Essere bisbetica tutto il giorno fa venire una gran fame.”, Lucy van Pelt, Peanuts.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note di colei che si definisce autrice,

ma che da questo termine è lontana anni luce:

Questa storia ha la benedizione di solarial. Se non vi piace, bhè, rifatevela con lei. ù_ù

Il personaggio di J.D. è una mia invenzione, diciamo che è un’amica di vecchia data, sì.

E’ solo un piccolo siparietto su questa coppia che dentro la mia testa amo, ad alcune persone è piaciuta molto, e spero che possa piacere anche a voi.

Buon Natale a tutti..

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Captain Tsubasa © Yoichi Takahashi

Il cielo grigio di Amburgo, Jayme Dee Thompson © Coco Lee

   
 
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