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Autore: AnyaTheThief    16/04/2015    2 recensioni
Viktoria è una ragazza giovane e bella. Abita a Vienna ed ogni giorno deve avere a che fare con gli orrori della guerra. Cos'ha a che fare tutto questo con i Moschettieri? Beh, vi dico solo che capisco che è una storia particolare e che non possa piacere a tutti, ma vi consiglio di concederle qualche capitolo prima di cassarmela! Spero che poi la troverete avvincente.
Attenzione agli spoiler, la fiction si colloca dopo l'episodio 8 della seconda stagione.
Genere: Avventura, Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Aramis, Queen Anne
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Suo padre l'aveva abbracciata per almeno mezzora dopo averla vista rientrare sana e salva, e anche Eva aveva fatto lo stesso. Le era stata spiegata la situazione e le disse di essere stata in ansia tutta la notte per lei, tanto che glielo si leggeva nei cerchi scuri attorno agli occhi.

Viktoria rassicurò tutti dicendo che il signor Keller l'aveva trattata con i guanti e le aveva persino ceduto il suo letto per dormire. Non raccontò ovviamente a nessuno del ritratto che le aveva regalato, né di quelli che lo aveva scoperto nascondere. Cosa c'era in quell'album? Era curiosa di sapere se ritraeva qualcos'altro oltre alle persone. E quali quadri aveva acquistato sua madre?

Senza farsi vedere da nessuno, fece il giro della casa per scovare una firma in un angolo dei dipinti appesi alle pareti o dietro di essi, ma niente. Non trovò il benché minimo indizio.

Su due piedi, aveva trovato un po' inquietante quell'ossessione di Ben per il suo viso, ma poi, riflettendoci, si disse che era quello il suo mestiere. Era un artista, e disegnava, e allora? Peraltro le piaceva molto il modo in cui la ritraeva. Gli altri disegni che aveva intravisto erano diversi da quello che le aveva regalato, quello in cui sembrava lei soltanto per via dei tratti del volto; negli altri si rispecchiò meglio, avrebbe dovuto dare un'occhiata più da vicino.

Quel giorno stette quasi tutto il tempo con suo padre. Tuttavia non ebbe il coraggio di fargli sapere che era venuta a conoscenza di tutta la storia di Ben e di sua madre: ancora le sembrava incredibile. Si limitò a sedere accanto al suo letto, ricamando un fazzoletto che avrebbe voluto regalare alla nonna. Ormai il signor Haas stava guarendo; sarebbero riuscite a costringerlo in casa al massimo per un altro paio di giorni, ma poi sapevano che non l'avrebbero convinto a non tornare alla sua amata fabbrica.

Viktoria iniziò a prepararsi per uscire parecchio tempo prima del necessario. Ma dedicò un po' di questo tempo a dire una piccola preghiera affinché tutto andasse per il verso giusto. Strinse tra le mani quel crocefisso che le aveva regalato sua nonna, poi in un gesto che le venne spontaneo, se lo mise al collo, nascondendolo sotto il vestito. Si lasciò i capelli sciolti sulle spalle per non far risaltare la catenella.

Aveva già la borsa col doppiofondo pieno di cibo, le mancava soltanto da infilarsi gli stivaletti e salutare suo padre. Lo fece ascoltando pazientemente tutte le sue raccomandazioni, trattenendosi dal sorridere come avrebbe voluto. Poi lo baciò in fronte e corse verso la porta.

“L'ho fatto.”

Viktoria si bloccò a metà corridoio. Le era parso di sentire una voce sussurrare qualcosa.

“Sono stata brava.”

Di nuovo. Ne era sicura: proveniva dalla stanza della nonna. Si avvicinò cercando di non fare rumore, e dischiuse la porta quel poco che bastava per permetterle di sentire meglio, ma non di vedere all'interno. Con chi stava parlando? Non poteva esserci nessuno.

“L'ho tenuta per tutto questo tempo... Ma ne sono certa: è lei.”

Viktoria era basita e confusa. Avrebbe dovuto dirlo a suo padre che la nonna si era messa a parlare da sola? Per un attimo non sentì più nulla, e fece quasi per andarsene ripromettendosi di affrontare il discorso con qualcuno più tardi, ma poi altre parole le giunsero all'orecchio.

“Mi manchi, Jerome.”

Era stato poco più di un rantolo, ma era sicura di averla sentita pronunciare il nome di suo nonno. Le venne quasi da piangere; sapeva che la nonna era molto sensibile quando si parlava del suo defunto marito, ma non poteva immaginare...

Si portò una mano alla bocca e ricacciò una lacrima, imponendosi di pensarci mentre camminava verso la fabbrica: era tardi, non poteva perdere altro tempo.

Velocemente scese le scale e s'incamminò.

Mentre avanzava pensierosa, ebbe quasi l'impulso di tornare ad esaminare quel crocefisso. Era forse di quello che parlava la nonna? Ma cos'aveva di così particolare? Si massaggiò il collo sovrappensiero e, oltre alla fredda catena che sorreggeva il gioiello nascosto sotto l'abito, sentì qualcosa di liquido inumidirle le dita. Andò a guardarsele, e vide che erano rosse di sangue. Di nuovo, il neo doveva essere stato sfregato per sbaglio, magari dalla stessa collana. Infastidita cercò un fazzoletto nella borsa e se lo passò sotto i capelli.

“Signorina.”

Una voce autoritaria dal forte accento tedesco la fece rabbrividire. Si fermò in mezzo alla strada. Con orrore si rese conto che doveva essere più tardi di quanto pensasse, perché non vide le donne che di solito uscivano dal lavoro, né gli operai della fabbrica di suo padre. Respirò lentamente e profondamente, poi si voltò, sfoderando il suo miglior sorriso.

“Sì?”

La guardia che le stava di fronte non poteva avere che qualche anno più di Ben, la mascella squadrata, i tipici tratti ariani: biondo, gli occhi azzurri.

“Può mostrarmi i suoi documenti?” domandò senza scomporsi.

Viktoria urlava dentro di sé. Le sue gambe volevano fare una cosa diversa da quella che il cervello si sforzava di imporle: scappare. Correre a più non posso verso casa e lì barricarsi dentro e piangere tra le braccia di suo padre fino a sentirsi di nuovo al sicuro. Ma non poteva, doveva tenere duro e non abbassare la testa, mai.

“Certo.” senza esitazione frugò nella borsa di pelle, approfittandone per controllare che il doppiofondo fosse in ordine. Allungò al tedesco la sua carta d'identità. Lui confrontò la foto sul documento con il suo volto, alzando ed abbassando lo sguardo un paio di volte, poi parlò di nuovo. La sua voce fu come una scarica elettrica nella schiena di Viktoria.

“Dove sta andando a quest'ora, tutta sola?”

“Mio padre si sta rimettendo da una malattia, devo prelevare dei documenti dal suo ufficio... Dalla sua fabbrica, la Haas&Pohl.” indicò con sicurezza l'edificio in fondo alla strada. Lui tornò a guardare il documento, verificando probabilmente che fosse davvero figlia di uno dei due soci. Poi glielo restituì.

“Tra poco calerà il sole. Farà meglio ad affrettarsi.” decretò infine, restando ad osservarla con sguardo fisso ed insistente.

“E' gentile a preoccuparsi.” cinguettò. Dopotutto, per quanto fosse inesperta in materia, sapeva bene come aggirare un uomo se lo voleva. “Ma farò in un batter d'occhio.” gli sorrise fingendo riconoscenza, anche se sapeva che nelle parole del soldato c'era soltanto sospetto. Ma in nessun modo poteva mostrargli di avere paura di lui o delle sue domande inquisitorie.

“Faccia attenzione. Buona serata.” e così come si era avvicinato, si allontanò.

Viktoria non si fermò a guardarlo, si voltò immediatamente e riprese a camminare a passo spedito, gli occhi sgranati, il respiro affannoso. Si sentì la ragazza più fortunata della Terra, e per tutta la strada che le rimaneva da percorrere strinse nella mano il suo crocefisso, assieme alla camicetta che lo nascondeva.

Dopo aver preso le solite precauzioni assicurandosi che nessuno l'avesse seguita o la stesse spiando, si fiondò nel nascondiglio.

“Ben!” guaì, cercando con lo sguardo il ragazzo che, udito il suo richiamo, si affrettò a raggiungerla con aria turbata.

Viktoria lo guardò negli occhi, sull'orlo delle lacrime, poi si gettò al suo collo stringendolo in un abbraccio. Dopo un attimo di esitazione lo sentì ricambiare, cingendole timidamente la vita.

“Ho avuto paura.” gli mormorò nell'orecchio. Tuttavia non pianse, si sforzò di mostrarsi forte nonostante le sue parole dicessero il contrario. Quell'abbraccio le era così di conforto che avrebbe voluto non finisse mai. Chiuse gli occhi e per un attimo si sciolse dimenticandosi di tutto; non esisteva nessuna guerra, nessun soldato, nessuna cantina umida e sporca, nessun sogno bizzarro... Solo quell'uomo che avrebbe voluto conoscere in diverse circostanze.

Lui la allontanò leggermente per guardarla negli occhi. Viktoria ricambiò il suo sguardo e sembrava quasi che l'espressione del suo volto lo supplicasse per un altro contatto come l'abbraccio di poco prima, o qualcosa di più...

Ben si avvicinò lentamente al suo viso senza smettere di guardarla. Il cuore le balzò in gola e provò una sensazione mai sperimentata prima di allora. Era un misto di adrenalina ed eccitazione, di dolcezza e conforto, di qualcosa di familiare e qualcosa di sconosciuto. Ma qualcosa non andava: se ne stava fermo in quella posizione insolita da troppo tempo. Gli aveva forse dato segno di non gradire ciò che stava per accadere?

“Perdonami.” mugolò lui, scuotendo il capo ed allontanandosi quasi bruscamente. Si passò una mano tra i capelli folti, dandole le spalle. Viktoria era rimasta impietrita, ma la foga della situazione la travolse.

“Non... Non è colpa tua.” balbettò, ancora un po' scossa e tutta rossa in volto.

“Maledizione...” sibilò lui tra i denti. Lo vide tremare, ma non seppe dire se di rabbia o di angoscia.

“Ben...” lo richiamò lei, osando avanzare qualche passo in sua direzione e posandogli una mano sulla spalla. “Se... Se un giorno vorrai parlarmi di Anne, io capirò... Io... Ti ascolterò, e se vorrai che dica qualcosa... O che stia zitta e basta...”

Mentre continuava a parlare, lo vide voltarsi lentamente, con aria perplessa.

“... Scusa.” continuò a farfugliare lei, sentendosi immensamente stupida. “Scusa, io...”

“Chi è Anne?” domandò lui improvvisamente, scuotendo il capo confuso. Viktoria lo guardò come se fosse totalmente impazzito. Effettivamente era stata lei a dedurre ciò che non le aveva mai raccontato, semplicemente sentendolo parlare nel sonno.

“Mi dispiace. Pensavo fosse... Tua moglie.” squittì come un topolino, abbassando sempre di più la voce per paura di una sua reazione. Ma lui continuò a fissarla con aria interrogativa.

“Mia moglie si chiamava Elodie.”

  
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