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Autore: Sorella_Erba    25/12/2008    11 recensioni
Il profumo delle rose è lo stesso di sempre; Efestione respira, lo percepisce e lo ricorda, leggero e suadente. E il ricordo struggente entra in dissonanza con ciò che ha davanti: la figura dominante, magniloquente, di un re assetato di gloria e nient'altro. E l'amore?, si chiede Efestione. L'amore è lì, onnipresente - anche se celato dalla grandezza dell'amante -, come il profumo delle rose di Pieria.
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Rose di Pieria. [1]




“Perché piangi, Patròclo? Bamboletta
sembri che dietro alla madre correndo
torla in braccio la prega, e la rattiene
attaccata alla gonna, ed i suoi passi
impedendo piangente la riguarda
finch’ella al petto la raccolga.
[…] Parla, m'apri il tuo duol, meco il dividi”.

Iliade, libro XVI.



Era la notte a portare consiglio, a quanto dicevano i sapienti, l’ultimo frammento di giornata in cui era possibile godere di pace ed armonia. Il silenzio era piacevole come il suono di una cetra e la voce dolce di una fanciulla, e la fresca aria notturna portava via con sé fatiche e sforzi di una lunga giornata, in luoghi ancora ignoti agli occhi dei più.
L’oscurità avvolgeva i corpi, li inghiottiva nel suo manto bluastro per confortarli. Ed era magia anche il più flebile suono.
Per un guerriero, la notte era sacra.
La brace rovente rifulgeva e crepitava, stanca, fra i legni secchi raccolti a cerchio sul terreno nero. Efestione allungò le mani per catturare il calore sprigionato dai resti di un fuoco estinto, annusando il leggero odore di bruciato che pervadeva l’aria, ad occhi socchiusi, mentre intorno a lui vibrava un silenzio teso. Gli uomini dormivano, infagottati nelle loro coperte, e i barlumi delle lanterne illuminavano il campo, a chiazze, lasciando nell’oscurità più nera quei lembi di terra che non venivano carezzati dalla loro luce soffusa. Efestione sospirò, stringendosi nella pelle d’orso che gli aggravava sulle spalle, per poi alzarsi dal tronco su cui aveva riflettuto per lungo tempo. Si lasciò condurre dal suo passo, automaticamente, come in trance, fino a trovarsi davanti al padiglione in doppio tessuto del re.
« Generale », reclinò il capo il soldato di guardia alla tenda. Al gesto della sentinella, Efestione ricambiò con un cenno della mano.
« Il re riposa? ».
« Non credo, generale. Le luci sono ancora accese ».
Efestione annuì, lentamente. « Bene », asserì e scostò il drappo che nascondeva l’ingresso della tenda. Non appena mise piede sul morbido tappeto che rivestiva l’intera superficie occupata dal padiglione, il calore lo invase. Efestione socchiuse un istante gli occhi, cullato dalla mite temperatura – aveva persino un profumo familiare, tanto familiare, che tuttavia al momento non riusciva a ricordare -, prima di esplorare con lo sguardo l’interno della tenda. Si accorse della presenza del re solo dopo aver adocchiato il tramezzo in stoffa, che lasciava intuire i due profili ombrosi che vi stavano dietro. Si tolse la pelle d’orso dalle spalle, la lasciò cadere su un basso tavolo in legno lavorato e si fece avanti, adagio, cercando di non provocar rumore.
« Alessandro, mio re », salutò, non appena apparve alla sua vista la figura del re, rilassato dentro la vasca di acqua bollente. Leptine, la sua serva, gli stava massaggiando le spalle con una spugna imbevuta e petali di rosa.
« Efestione ».
Il re si alzò di scatto dalla vasca. Lo spostamento improvviso dell’aria portò ad Efestione la familiare fragranza che impregnava la tenda. Rose di Pieria, finalmente comprese, e ne rimase stupito: era una caratteristica che aveva sempre associato ad Alessandro, il particolare odore delle rose di Pieria. Se immersi i loro petali nell’acqua calda, sprigionavano tutta la dolcezza di cui erano capaci. Era stata un’idea di Olimpiade, quella di lavare Alessandro, sin da infante, nell’acqua di rose; un’abitudine che il sovrano non aveva mai perso.
« Perdonami, non volevo disturbare il tuo riposo ».
Alessandro sorrise.
« Hai il diritto d’importunarmi ad ogni ora del giorno e della notte. Dimmi pure ».
Leptine avvolse il corpo bagnato di Alessandro in un telo di seta, prima che il sovrano le facesse cenno di lasciarli da soli. La serva chinò il capo rispettosamente, lanciando uno sguardo ai due uomini mentre si allontanava con lentezza. I suoi occhi si soffermarono su Efestione e non lo lasciarono finché non fu uscita dalla tenda.
Efestione aveva sostenuto lo sguardo, cupo.

{ Gelosia.

« I suoi occhi mi suggeriscono dubbi », enunciò Efestione. Le sue labbra si arcuarono di poco verso l’alto mentre si voltava per incontrare lo sguardo del re, invano. « Gelosia ».
Alessandro passò la stoffa lungo le braccia e scosse il capo, con un altro sorriso. « Lo trovo normale; sono la persona che le offre protezione e che l’accudisce ». Poi sollevò gli occhi, continuando ad asciugarsi l’addome. « Desideri dirmi qualcosa? ».
« Avevo solo voglia di vederti », fece spallucce Efestione. « È da tanto che non trascorriamo del tempo insieme ».
« Vero. Mi dispiace ».
« La campagna non sta soltanto conquistando terre ignote ».
Alessandro gli diede le spalle. Il suo corpo umido era ancora velato dalla seta candida; la luce che indorava soffusamente l’ambiente, suggeriva i contorni della sua figura slanciata.
Non rispose a quell’affermazione.
Efestione aggrottò la fronte, il petto rovente di risentimento.
« Mi hai sempre ripetuto che la fiducia sta alla base di ogni rapporto ».
Alessandro non si volse; rimase eretto a porgergli la schiena, passando un lembo del tessuto sulle braccia, ancora. Un suono leggero di scalpiccii gli fece intuire che il compagno si era mosso, avvicinandosi maggiormente alla sua figura.
« Amore ha bisogno di fiducia per esser completo ».
Nel piegarsi in avanti, il pendente che Alessandro aveva al collo gli ricadde dal petto per posarsi morbidamente sulla seta che gli rivestiva le gambe.
« Se manca questo, l’amore può tramutarsi in desiderio, voglia. Finché anche la voglia non si smorzerà… ». Efestione fece ancora un passo verso la sagoma del sovrano. « E ogni cosa sarà destinata a finire ».
Un dentino logorato dal tempo sembrava rinfacciargli le parole d’astio pronunciate da Efestione. Deglutì, mentre concentrava la vista su una minuscola crepa ingiallita del dente.
« Cosa vuoi dirmi? », chiese, lentamente, in un mormorio.
Efestione parve soppesare, nel silenzio, quella domanda, studiandone le varie sfumature e il tono con il quale era stata pronunciata.
« Ti fidi ancora di me, re? O il potere che hai acquisito ti acceca tanto? ».
Alessandro inspirò con forza, assottigliando gli occhi.
Se qualcun altro avesse azzardato tanto, non sarebbe sopravvissuto al ferro di una lama.
Ma lui… lui sarebbe sempre stato lui.
« Perché questa domanda? ».
« Non ti riconosco più », biasimò Efestione. « Dov’è finito Alessandro? L’Alessandro amante dell’arte, della bellezza, della letteratura. L’Alessandro dei sogni. Dov’è? ».
Alessandro si girò per guardarlo negli occhi. Ma prima di incrociarne lo sguardo, percorse il viso dell’amico. Un brivido gli attraversava la schiena ad ogni cicatrice che scorgeva: una sulla guancia sinistra, un’altra su un sopracciglio, ancora una terza vicina al mento. I lineamenti di Efestione, una volta tanto incantevoli, erano stati inaspriti dal tempo e dalla guerra.
I suoi occhi, tuttavia, brillavano sempre con la stessa intensità di un tempo.
Sempre, allorquando Alessandro poteva rispecchiarvisi.
« Cosa vedi al suo posto, Efestione? Qual è l’Alessandro che ti sta parlando? ».
Poco lontano, sul lino delle coperte del re, si ergeva un tomo vecchio ed ingiallito.
« Io non vedo Alessandro. Sono al cospetto del Pelide, adesso ».
L’Iliade, che Aristotele aveva regalato ad Alessandro al loro primo incontro, era aperta in una pagina raffigurante due figure maschili nude, abbracciate in un corpo a corpo, prima di protrarsi nel racconto della scena.
« Achille amava Patroclo, Efestione », ricordò Alessandro, trattenendo a stento il tremito della voce. Gli diede nuovamente le spalle. « E Patroclo non aveva bisogno di conferme, perché sapeva. Sapeva ».
« Ma Patroclo conosceva Achille », ribatté Efestione, facendo un ampio gesto della mano, come a voler scostare un intralcio che ostacolava il suo cammino. « Tu sei… incostante. Come il vento. Assumi i colori, i profumi dei luoghi che hai sopraffatto e li fai tuoi, tuoi del tutto, mutando la tua indole. Non c’è più traccia del giovane che conobbi? ».
« Gli uomini cambiano, Efestione. Cambiano, anche involontariamente ».
Il cuore di Efestione sussultò, a quelle parole, e le sue mani tremarono di collera. « Cosa cerchi qui, Alessandro? La patria è stata già vendicata ».
Le labbra di Alessandro si strinsero tanto da divenire una sottile, rosea linea retta. Piegò il collo quel tanto che gli bastava per intravedere la sagoma scura di Efestione, ritta, tesa come la corda di una cetra, alle sue spalle.
« Qual è il tuo timore? Cosa ti turba, Efestione? Vieni da me, a parlarmi di gloria e patria: perché? Io so cosa voglio; tu, invece? Cosa desideri così ardentemente? ».
Efestione strinse i pugni, lungo i fianchi, sentendo le unghie graffiare il palmo e penetrare nella carne morbida.
« Il tuo amore, Alessandro. Come quando eravamo ragazzi e sconoscevamo le insidie del cuore. Vorrei quei tempi indietro, vorrei l’Alessandro di allora ».
Forse fu la schiettezza, forse il tono di accusa tinto di malinconia, a serrare il respiro di Alessandro, troncandolo in un aspro sospiro.
O forse furono i ricordi, ancora, ad assalirlo.
Il ricordo di due bambini, baciati dai raggi aurei del sole pomeridiano, nel portico principale del palazzo di Pella; di due giovani uomini, intenti a fronteggiarsi in un duello di scherma; di due amanti, distesi sulla seta, nelle stanze del Liceo di Mieza. Due giovani uomini che avevano scoperto insieme il piacere gratificante dell’amore, l’amore puro ed incorrotto.
« Da quanto tempo non mi chiami più? Solo io sento la mancanza del corpo di colui che… ».
Come acqua che scorre in un letto di fiume, sarebbe uscito fuori dagli argini, prima o poi, quell’amore, ed avrebbe invaso la loro vita, divenendone parte essenziale.
Alessandro guardò Efestione, ne studiò lo sguardo, lo indagò sin nel profondo e vide ciò che mai avrebbe voluto scorgervi: la stanchezza, l’angoscia di chi si strugge per la mancanza della propria patria; vide il sogno di un esiliato, costretto a lacerarsi l’animo per il desiderio di rivedere casa.
Eppure… eppure non era stato Efestione ad aver dichiarato solennemente, con voce tremante e gli occhi lucenti d’emozione, “il mio posto è al tuo fianco. Quella che tu chiamerai casa, sarà anche la mia. Ivi giacerà il cuore”? Non era stato lui? Non era stato Efestione?
E dunque cos’era quel barlume di spossatezza, cos’era?

{ Disperazione.

« Tu… », lo interruppe bruscamente.
Cos’era?
E perché faceva tanta paura?
Dopo aver udito le proteste delle sue truppe, dopo averle persuase dell’importanza di quella missione, dopo aver affrontato insidie di popoli sconosciuti e terre aride e deserte…
« Tu… ».
Distrutto, ferito, mutilato.
Le mani di Alessandro scattarono all’istante sul mantello che avvolgeva le spalle di Efestione, e ne strinse gli orli nei pugni chiusi, serrati ora in una morsa di collera vibrante. Il velo che copriva le sue nudità ricadde per terra in un soffio dorato, sul rosso e largo tappeto persiano che schermava i piedi nudi del re dalla polvere del terreno. Il tavolo venne urtato con forza e il rumore di candelabri rovesciati e di terracotta infranta sovrastò le parole gutturali del re, per poi essere inghiottito da grida sommesse e gemiti di rabbia.
« Mi hai… ingannato? ».
Gli occhi, quegli occhi che Efestione tanto amava, iniziarono a fissarlo instabili, scorrendo come saette sul suo volto sbiancato, in un vortice trascendente di nero e celeste, mentre le parole appena enunciate dilaniavano il suo cuore, squarciandolo da parte a parte.
Le cicatrici divennero tagli, crepe interminabili di sangue nero e pelle, carne deturpata; le iridi torbide si offuscarono sino a diventare cieche e la bocca di rosa si fece secca, una linea raggrinzita e biancastra.

{ Morte.

La furia esplose e fu morte, il viso dell’amante.
E morte furono le dita che si serrano attorno ai polsi di Alessandro, scalfendone con gli artigli sporchi la pelle ambrata, cercando disperatamente un appiglio per la vita, che svaniva ad ogni rantolo sotto le mani malferme di un nume adirato.
« Anche tu, Efestione? Tu? ».
Ma presto le dita, tremule, si staccarono e liberarono dalla loro morsa quella volontà assassina, abbandonandosi fra le braccia di Ade con un misto di accondiscendenza e rassegnazione.
« Oh, Afrodite », mossero lente le labbra di Efestione, in un sussurro che arrivò flebile alle orecchie di Alessandro, sorde a qualsivoglia suono non fosse il suo debole ringhio.

{ Risveglio.

« Alessandro? ».

« Muo… muoio per a-amore [2] ».

Sentiva l’acqua, la sentiva: viva, fresca, piacevole, attorno ai fianchi.
Sentiva il canto degli uccelli, acuto e lontano. Sentiva, stretto fra le braccia, il corpo tremante dell’altro.
« È questo l’amore più puro? », rifletté ad alta voce.

Senza preavviso, la presa attorno all’esile gola si allentò.
Efestione emise un rantolo, roco e secco, cadendo in ginocchio dinanzi alla figura alta del sovrano.

« Penso che… sia questo, sì ».
Lo baciò, con riserbo, carezzandogli al contempo una guancia arrossata. « Hai un buon sapore, Patroclo ».
Efestione sorrise, frastornato, sbattendo più volte le palpebre. Guardò Alessandro, poi, intensamente. « Ricordi cosa ci ha detto Aristotele, giorni fa? ».
Alessandro annuì. « Il Battaglione Sacro ».
Efestione abbassò lo sguardo.
« Un giorno… un giorno anche noi partiremo per la guerra ». S’interruppe bruscamente; gli occhi si soffermarono sul petto del compagno, focalizzandosi sulle gocce cristalline che lo adornavano e procedevano lente, per poi tuffarsi nel calore del suo bassoventre. « Ti seguirei, Alessandro. Se tu dovessi perire, ovunque tu debba andare, ti seguirei ».
Lo sguardo di Alessandro si assottigliò, intenerito.
« Anch’io, senza esitazione ».
Efestione tornò a guardare il suo volto, con un sorriso dipinto sulle labbra.
« Mio Achille», sussurrò, « Non dubitare mai, mai ».

Le braccia di Alessandro ricaddero lungo i suoi fianchi, ondeggiando impercettibilmente prima che le mani si chiudessero in pugni e gli occhi luccicassero di lacrime. Fece alcuni passi indietro, mentre sconcertato scrutava la sagoma inginocchiata e tremante. Efestione rialzò il capo, i lunghi capelli scuri che occultavano in parte lo sguardo scosso. Non proferì parola, non ci riuscì; eppure i suoi occhi parlavano chiaro.

« Come hai potuto..? Dubitare di me ».

Alessandro gemette e, vacillando, ripercorse la distanza che lo separava dal compagno e lo abbracciò di getto, stringendo il suo capo contro una spalla.
« Sciocco discepolo », ripeté, ancora e ancora; le narici catturavano, ad ogni respiro, il suo odore, gli occhi versavano gocce di amarezza. « Perdonami, perdonami ».
« Lo farò », sibilò Efestione, stringendo le mani sulla pelle nuda delle spalle del re.
« Mai più, Efestione », soffiò Alessandro, le palpebre chiuse e tremanti, posando le mani sulle gote pallide di Efestione. « Di chi si fidava Achille? Di chi soltanto, di chi? ».
Sfiorò con le labbra la fronte dell’amico più caro, più e più volte.
Erano calde, profumate e morbide, constatò Efestione, e non potè fare a meno di socchiudere gli occhi a quel contatto, portare una mano alla nuca di Alessandro e baciargli la bocca umida e schiusa, bisbigliante indulti astrusi, incomprensibili. E probabilmente Efestione riuscì a scorgere, oltre l’opaco azzurrino e il nero oro dell’eterocromia, i resti di una fanciullezza presto perduta, ridotta in cenere dalla grandezza divina a cui era stato destinato, ancor prima che nascesse.
« Mio Alessandro », lo abbracciò, la fronte imperlata poggiata contro l’incavo del suo collo. « Mi manchi ».
Alessandro deglutì, esponendo la gola e respirando quasi a fatica. Strinse a sua volta il torace del compagno, aderendolo al suo. « Resta, Efestione. Resta stanotte ».



{ Pace.




A Giù,
ai genitali al vento di Alessandro,
all’Efestione emo
e alle bottiglie di rum – al cioccolato, specifica la signorina -
scolate durante una conversazione su Msn.









[1] Il titolo deriva da un versetto di Saffo (“Morta giacerai, né più alcuna memoria di te / ci sarà, né ora né mai. Tu non sei più partecipe delle rose / di Pieria e come una qualunque anche in casa di Ade / vagherai fra spettri indistinti, svanita”).

[2] Nella poesia greca antica, spesso, lo spasimo d’amore era collegato al dolore della morte. Un esempio sono le poesie di Saffo, in cui questa frase (o qualcosa di simile) ricorre molte volte.
Un ringraziamento va ad Ale per la spiegazione che mi ha dato (mi sento un’incompetente, al tuo confronto XD).
   
 
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