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Autore: _Frame_    19/04/2015    2 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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32. Giornali e Fogli spiegazzati

 

 

10 giugno 1940, Roma

 

Il riflesso di Italia si estese lungo la parete dello specchio, salì verso la cima del riquadro dorato. Italia fece un timido passo in avanti, sollevò gli occhi verso la sua immagine che lo fissava da dentro la superficie lucida. Il sole batteva in un angolo della cornice, i raggi si allungavano dallo spigolo e stendevano diagonali luminose che toccavano il bordo inferiore. Italia sollevò un piede sulla punta, girò la caviglia. La fibbia dello stivale nero tirato a lucido scagliò una veloce scintilla che si scontrò sulla superficie dello specchio. Il tallone tornò a terra, il piede unito all’altro, i polpacci fasciati dal cuoio incollati. Italia chinò le spalle in avanti, avvicinando la punta del naso allo specchio. Posò una mano sul petto, sfiorando le targhette metalliche cucite sul tessuto nero. Una smorfia di insicurezza gli fece piegare le sopracciglia.

“Uhm...” Storse lievemente un angolo delle labbra. “Spero di ricordarmi le parole.” Raddrizzò le spalle. Ogni volta in cui si muoveva, la stoffa dell’uniforme frusciava contro la sua pelle. Prese un lembo del colletto, lo rigirò mostrando allo specchio la piastrina dorata, e chiuse il primo bottone della giacca aiutandosi con entrambe le mani. I polpastrelli umidicci scivolarono due volte dalla chiusura, le dita tremavano. Italia incastrò le unghie nel bottone e lo infilò nell’asola trattenendo il respiro. I palmi corsero lungo il petto, arrivarono alla cinta. Italia riprese fiato. “Sono...” Si voltò verso l’uomo che era rimasto silenzioso nell’ombra di fianco allo specchio. Gli mostrò un sorriso tirato. “Sono un po’ nervoso.”

L’ufficiale in divisa si immerse dentro la luce della cornice, mettendosi di fianco a Italia. Sciolse la presa delle mani da dietro la schiena e poggiò le setole della spazzolina su una spallina di Italia. Spolverò la benda dorata, il tocco della spazzola scese lungo la schiena fino ai fianchi ripulendo il tessuto nero dai grani di polvere e dai fili di lanugine, e passò all’altra spalla.

“Andrà tutto bene, signore.”

Italia stirò la stoffa di una manica appena spazzolata, prese il bordo con il palmo sudaticcio e lo ribaltò sul polso svelando l’orlo dorato. Tornò in punta di piedi, la pelle degli stivali scricchiolò, e riatterrò spostando il peso da un tallone all’altro. I polpacci già scottavano sotto labbraccio soffocante del cuoio, l’uniforme prudeva tra le scapole, sotto il collo, dietro la nuca.

Italia deglutì. Dentro lo specchio, si vide diventare più piccolo. “D-dici?”

L’ufficiale annuì e fece un passo di lato. “Assolutamente.” Poggiò la spazzola sul tavolino, allineandola vicino a due setole più piccole. Spostò le gambe della sedia e raccolse la cinta che pendeva dallo schienale vicino a un cappello. Intrecci di corde dorate si annodavano lungo la frontiera dello stesso colore dell’uniforme.

Italia sospirò. Fece correre una mano dietro la spalla, piegando il gomito verso l’esterno, e grattò tra le pieghe della giacca, dove il tessuto pizzicava. Il palmo scese lungo il fianco, si fermò sull’orlo della tasca dei pantaloni. Le dita fredde e umide affondarono, sfregandosi contro un foglietto di carta. Italia estrasse la paginetta che tremava sotto la presa, e la stirò sugli angoli, inumidendo la carta.

“Forse è meglio se le ripasso un’altra volta.”

Tenne aperto il foglietto scarabocchiato davanti alla punta del naso e fece correre gli occhi sulle linee di inchiostro già sbavate di sudore. Le labbra si mossero restando mute, recitando il discorso in silenzio.

L’ufficiale gli poggiò la cinta su una spalla, agganciò la prima fibbia alla fascia dorata, e stese la fettuccia di cuoio in diagonale lungo il petto, arrivando all’anca opposta. Italia non si scompose.

“È da ieri che te ne stai incollato a quel foglio.”

La voce di Romano lo fece sobbalzare.

Italia strinse di colpo le dita sul foglio, accartocciando la pagina. Romano gli passò di fianco, stretto anche lui nella divisa nera, e gli scoccò un’occhiata di traverso. Braccia annodate al petto, spalle rigide, viso scuro come il tessuto. Un secondo ufficiale era fermo nell’ombra alle sue spalle.

Italia fece un passetto all’indietro, sollevò i gomiti lasciando che il tocco dell’uomo assicurasse la benda diagonale alla cintura più grossa che fasciava i fianchi.

“E se mi dimentico tutto il discorso mentre sono lì?” pigolò. Le cinghie si agganciarono, la fascia di cuoio strinse sul petto, premendo sopra i battiti del cuore martellante. Italia deglutì di nuovo toccandosi il collo. “Se poi mi prende il groppo alla gola e non riesco più a parlare?”

Romano fece roteare gli occhi.

L’ufficiale si scostò, diede un lieve strattone alle due fasce, controllando la chiusura, e Italia barcollò in avanti.

L’uomo scosse il capo. “Non succederà, signore.” Strisciò due passi all’indietro e toccò la cornice dello specchio, come per invitare Italia a guardarsi.

Italia era girato di profilo. Voltò lentamente il capo, richiamato dall’abbaglio dello spigolo dorato. Sbatté le palpebre, guardò il suo riflesso con espressione incuriosita, come se all’interno dello specchio ci fosse stata un’altra persona. Il fascio di luce entrava dalla terrazza, tagliava l’aria passando di striscio sullo specchio, facendo brillare le incisioni sulla cornice. Italia mosse un passo di lato, si mise di fronte allo specchio e lasciò scendere le braccia, tornando a nascondere il foglio nella tasca. Passo in avanti. Il rumore del cuoio che scricchiolava sul pavimento coprì quello della stoffa che frusciava sulla pelle. Italia strinse i pugni poggiati ai lati delle gambe, le braccia stese lungo i fianchi aderivano al busto. Inspirò, trattenne il fiato. Le targhette colorate che brillavano sul petto abbagliavano la sua immagine riflessa nello specchio, la luce d’oro emanata dalla cornice carezzava il nero del tessuto, scintillava sui bordi degli stivali, sugli orli delle maniche e sul colletto alto dietro la nuca. La cinta stretta in vita, alta quanto un indice, gli fasciava la pancia unendosi alla fettuccia di cuoio che correva in diagonale sul petto per allacciarsi alla spalla. Un lumino percorse il profilo delle fibbie, spegnendosi sulla fascetta della spallina.

Un minuscolo sentimento di fierezza gli formicolò nel petto, scese lungo le braccia, scaldò i pugni, e risalì sul viso, arrossando le guance.

Italia voltò il piccolo sorriso verso Romano. “Se mi dimentico qualche frase, Romano può sempre parlare al posto mio.”

Romano arricciò il naso in una smorfia di stizza. Sbuffò, gettando il capo di lato. “Te lo scordi.” Si tolse dal fascio di luce, dandogli le spalle. Gli occhi del secondo ufficiale lo seguivano in silenzio. “Te l’ho già detto, sarò lì solo per stare vicino a te, non per...” Un piccolo spasmo si inghiottì le parole. Romano si strinse le spalle, tamburellò le dita sulle braccia incrociate, lasciando passare qualche secondo, e abbassò la voce. “Per altro.” Un piccolo gorgoglio terminò la frase. Romano sfregò il pavimento con la punta dello stivale, sollevando un piccolo singhiozzo dalle piastrelle. “Non spiccicherò parola.”

Italia annuì, lo sguardo triste. Lo capiva.

Tornò a voltare gli occhi sulla sua immagine allo specchio. La luce era più bassa, i riflessi dorati meno intensi, il nero dell’uniforme che si confondeva con l’ombra lo fece tornare piccolo e fragile in quell’involucro così estraneo. La tiepida sensazione di fierezza sbiadì.

Italia si tolse da davanti lo specchio e si avvicinò alla schiena di Romano. “Grazie.”

Romano voltò una guancia. Il riflesso di una pupilla lo osservò dall’ombra del viso.

Italia gli sorrise, piegando il capo di lato. “Grazie lo stesso, davvero.” I polpacci tornarono a prudere sotto la morsa umida e soffocante degli stivali. Italia sfregò le gambe una sull’altra, strofinandosi le pieghe dei pantaloni. Abbassò la fronte. “So che ti sto...” I piedi tornarono immobili. Il viso di Italia basso, le gambe unite, le mani giunte sul ventre giocherellavano con la fibbia della cinta, incastrando le unghie negli spazi metallici. “Che ti sto chiedendo tanto da quando è iniziato tutto.” Sollevò il capo. Il sorriso tornò a brillare. “Ma almeno un po’ ti fidi di me, no?”

Un altro piccolo spasmo contrasse il viso di Romano. Le braccia ancora annodate al petto tremarono, le palpebre si assottigliarono lentamente, assorbendo la luce degli occhi.

“Mi auguro...” Romano strinse i denti. Guardò di lato, il respiro vibrava. “Mi auguro che tu sappia davvero quello che stai per fare, Veneziano.”

Italia sbatté le palpebre in una confusa espressione interrogativa.

Le labbra di Romano tremarono. La voce divenne secca, bassa e profonda, incrinata da una piega sofferente. “Perché ultimamente sto dando troppa fiducia alle persone sbagliate.”

Il secondo ufficiale che era rimasto sempre in silenzio sollevò un sopracciglio. Le mani irrigidite dietro la schiena si mossero di poco, facendo frusciare qualcosa. Il primo ufficiale gli lanciò una veloce occhiata, reclinò il capo di lato, indicandogli la porta, e si mosse per primo. Passò vicino a Italia e gli mostrò una piccola riverenza col capo.

“Con permesso.”

Italia annuì in silenzio.

L’uomo andò verso l’uscita, aspettando il collega prima di richiudere la porta. Il secondo ufficiale scoccò un’ultima rapida occhiata a Romano da sopra la spalla, si fermò un istante sotto il fascio di luce che giungeva dalla terrazza, e uscì.

Nell’aria tiepida che entrava dal balcone di Piazza Venezia frizzava il dolce e fresco profumo dei boccioli primaverili, unito al morbido e caldo abbraccio del sole di giugno. Sottili granelli di polvere volteggiavano nella luce formando una spessa barriera vorticante tra Italia e Romano, dividevano l’ombra.

Italia prese una piccola e frasca boccata d’aria. A ogni respiro sentiva la fascia di cuoio premergli sul petto.

“Romano.”

Romano non si mosse. Italia attraversò il muro di polvere e si avvicinò.

“Quello... l’incidente che è successo un po’ di tempo fa...” Si fermò vicino alla sua spalla. Lo guardava tenendo la fronte bassa. “È capitato perché tu avevi deciso di stare vicino al fratellone Spagna, vero?”

Romano allargò le palpebre. Le labbra rigide rimasero mute, le pupille si restrinsero, volarono di lato, incrociandosi con quelle di Italia. Il viso di Romano impallidì, velato da una sottile ondata di panico.

Italia addolcì il sorriso, tornò a guardare in basso. “Un po’ lo avevo capito, sai?”

Romano tornò scuro in volto. Distolse gli occhi emettendo un piccolo sbuffo tra i denti serrati. Italia sospirò. Sollevò le mani e raccolse un pugno di Romano nascosto nell’intreccio di braccia rigido sul petto. La pelle era calda contro la sua così umidiccia e infreddolita dalla tensione che pulsava dal cuore tremante e fluiva nelle vene.

“Se...” Italia gli strinse il palmo, i polpastrelli carezzavano le nocche. “Anche se tu hai sbagliato, forse, e mi hai fatto stare in pensiero, e ti sei messo in pericolo...” Si chiuse nelle spalle. Un breve tremito passò dalle sue dita al braccio di Romano. “Tu sapevi che ti sarebbe potuto succedere qualcosa di brutto, però non ti sei fermato perché non avevi paura di rischiare per la persona a cui vuoi bene.”

“Io non voglio –”

Gli occhi di Italia che ruotarono verso l’alto a incontrare i suoi. Lo pietrificarono. L’iride nocciola abbagliata dal sole si colorò di riflessi ambra che corsero in archi concentrici attorno alle pupille ferme e profonde. Lo sguardo lucido ma immobile. Le sopracciglia lievemente sollevate in un accenno di supplica.

“Ti prego, lascia...” Italia sollevò il braccio di Romano vicino al petto. Gli strinse la mano posandosela sul cuore. “Lascia che ci provi anch’io. Lascia che anche io rischi per lui.”

L’aria divenne calda, morbida e profumata. Il pugno di Romano tenuto sopra il cuore di Italia percepiva ogni battito, ogni piccola vibrazione che si tendeva dal petto del fratello al suo braccio. La tensione sui muscoli si sciolse come ghiaccio al sole.

Romano sospirò. Distolse lo sguardo e lasciò scivolare la mano, il palmo carezzò il petto di Italia, e ritirò il braccio. Camminò verso il tavolo vicino allo specchio, scostò lo schienale e prese il cappello nero lasciato lì a ciondolare. Tornò da Italia e glielo calò sul capo.

“Vai.” Gli abbassò la frontiera davanti agli occhi, fino a coprirgli il naso. Gli intrecci dorati brillarono sotto l’abbaglio di sole. Romano inclinò il capo verso la terrazza. “Stanno aspettando solo te.”

Solo lui. Era sempre solo lui.

Italia spinse il palmo contro la frontiera e tornò a scoprire gli occhi. Sbatté le palpebre, le dita ancora strette sulla punta, e sorrise.

Saltellò dentro il fascio di luce che arrivava dalla terrazza e si apriva in un ventaglio sul pavimento. La sua ombra si estese. Una sagoma nera dentro il bianco. Si voltò di fianco, e la luce passò sopra la spallina della giacca, emanando una scintilla. Italia tenne fermo il berretto reggendo la visiera tra pollice e indice, tese il braccio libero e spalancò il palmo. I raggi di sole si posarono sulla pelle.

“Mano?”

Romano storse un sopracciglio. Gli guardò il palmo, sollevò lo sguardo. Italia chinò il capo e gli sorrise, abbassando le palpebre. Romano fece roteare gli occhi. Le pieghe del viso si ammorbidirono. Camminò di fianco a lui e sollevò di poco il braccio, in un gesto restio.

“Solo fino a quando non arriviamo fuori. Mi rifiuto di farmi vedere mano nella mano con te dall’intero paese.”

Italia annuì. Gli strinse la mano spremendola un paio di volte, fino a sentire la sua pelle pulsare e lo scorrere del sangue battere attraverso le vene. Le dita si intrecciarono, premettero sulla pelle, i palmi aderirono.

Italia rivolse il sorriso alle mani annodate. “Grazie.” Guardò in avanti, verso l’entrata spalancata della terrazza. Il sottile brusio della folla in attesa vibrava come un filo di elettricità che ramifica nell’aria, l’apertura di luce nel muro gli fece socchiudere gli occhi, il tepore emanato dal sole gli riscaldò le guance come una carezza, il profumo di boccioli, di polline, di erba fresca e di brezza frizzante lo avvolse in un abbraccio. Italia si riempì il petto, chiuse gli occhi.

Le mani dei fratelli unite davanti alla luce erano una figura nera coronata di bianco. Il sole schizzava tra gli spazi delle dita in sottili pennellate simili ai raggi di un’aureola.

Piazza Venezia esplose in un boato di grida e applausi.

 

.

 

Italia rientrò dalla terrazza con un balzo. Appena fu dentro, lontano dagli occhi del popolo, si alzò sulla punta di un piede facendo una piroetta a braccia spalancate. I boati e gli applausi della folla ancora echeggiavano alle sue spalle.

“Waah!” Riatterrò sui piedi barcollando. Strinse i pugni, li portò davanti al viso a nascondere il rossore delle guance. Gli occhi lucidi di gioia brillavano sotto la visiera del berretto scivolato sulla fronte. “Non posso credere di esserci riuscito!”

I due ufficiali si avvicinarono in silenzio. Quello che aveva aiutato Italia a prepararsi acconsentì con un piccolo cenno del capo.

“Un’ottima cerimonia, signore.”

Ora il clamore della folla era più basso. Si tornò a percepire il sottile eco delle loro voci che rimbalzavano sulle pareti del salone.

Italia gli sorrise. Prese la visiera del berretto tra pollice e indice, e la sollevò dalla fronte. Lo sguardo era ancora scosso dalla tensione, il rossore delle guance iniziò a espandersi sul pallore del viso, il braccio rialzato tremava ancora. Ma Italia sorrideva.

“Sono andato bene? Ho detto tutto giusto?”

L’ufficiale annuì di nuovo. “Il popolo era entusiasta, signore.”

Italia fece un’altra piroetta. Si voltò verso il balcone. “Romano, hai sentito?” Si tolse il berretto dal capo e lo sventolò a mezz’aria. “Ce l’ho fatta!”

Romano si tolse dalla luce pomeridiana che lo investiva alle sue spalle. La sua sagoma scura camminò a viso basso lontano dall’apertura della terrazza, fece due passi di lato, senza sollevare la fronte da terra. L’abbraccio di Italia lo strinse prima che lui potesse aver tempo di ruotare gli occhi verso l’alto. Non reagì. Stette fermo tra le braccia del fratello.

Italia gli cinse il collo, sollevandosi sulle punte dei piedi. “Quando Germania lo saprà sarà fiero di me.” Rise, e Romano sentì il petto di Italia vibrare contro il suo. “Anche se mi aveva detto di aspettare e di chiedere a lui prima di fare cose del genere, sono sicuro che sarà felicissimo e che si complimenterà con me perché sono stato coraggioso.”

Romano continuò a fissare il pavimento, guardando da sopra la spalla di Italia premuta contro di lui. L’ombra del secondo, silenzioso ufficiale si avvicinò, allargandosi sotto i suoi occhi. Romano la ignorò. “Mhm,” biascicò con voce spenta.

Italia allentò l’abbraccio. Fece un passo all’indietro, senza togliere le braccia dalle spalle del fratello, e lo guardò negli occhi. “Romano?”

Non rispose. Gli occhi distanti.

Italia piegò il capo, sollevando le sopracciglia in un’espressione apprensiva. “Sei triste? Sei preoccupato?”

Le labbra di Romano tremarono. Lui si morse un angolo della bocca, e gettò il capo di lato. “No.” Strinse i pugni. Le braccia tremarono, tese sui fianchi. “Sto bene.”

L’ufficiale silenzioso storse un sopracciglio. Una sua mano tornò a muoversi, sollevando di nuovo il sottile fruscio cartaceo. Nessuno lo notò.

Gli occhi di Italia si intristirono. Italia scosse il capo, ravvivò lo sguardo e riprese a sorridere. Si appese al braccio di Romano, avvicinando il viso al suo.

“Non devi avere paura.” Lo avvolse, poggiandosi sulla sua spalla. “Se ci dovesse capitare qualcosa di brutto, Germania ci proteggerà, me lo ha promesso.”

Arrivò come una pugnalata al cuore. Romano affondò i denti nella carne del labbro, trattenendo i ribollii che schiumavano nel petto e nello stomaco. Gli occhi brucianti risucchiarono le lacrime pungenti, la bocca tremante soffocò in gola la voglia di piangere e urlare.

La voce di Italia si avvicinò, placando il dolore come un balsamo. “E io proteggerò te.”

Il petto di Romano si scosse, lo sbuffo di amarezza contorse le labbra in un piccolo e aspro ghigno che si infossò nella guancia. “Confortante.”

Italia rise. Sfilò lentamente la stretta dal braccio, scendendo dalle punte degli stivali.

“Signore.” Il primo ufficiale gli si avvicinò al fianco. Chinò lievemente le spalle. “Posso chiedere la sua attenzione solo per qualche istante, signore? Ci sono dei documenti che vorrei che lei esaminasse.”

Lo sguardo di Italia restò smarrito per qualche istante. Italia scrollò il capo e annuì con decisione. “Uh, sì, va bene, arrivo.” Corse saltellando alle spalle dell’uomo, superò l’ombra dell’ufficiale silenzioso e si bloccò, come si fosse dimenticato qualcosa. Al suono delle suole degli stivali che singhiozzavano per la frenata, sia Romano che l’ufficiale gli rivolsero uno sguardo confuso. Italia si girò con un piccolo balzo. Accelerò la corsa gettandosi di nuovo al collo di Romano, e lo fece barcollare di due passi all’indietro. Gli allacciò le braccia sulle spalle, strinse la nuca, aprì il palmo lasciando correre le dita tra i capelli e gli stampò un bacio sulla guancia. Le labbra ancora vicine alla pelle sussurrarono dolcemente. “Grazie.” Le parole arrivarono all’orecchio di Romano in un flebile soffio. Era un respiro caldo come l’abbraccio.

Romano sospirò. La tensione si sciolse. Gli batté la mano sulla spalla con piccoli movimenti nervosi, e gli parlò anche lui vicino all’orecchio. Guancia contro guancia.

“Dai, adesso va’ via.”

Italia annuì sulla sua spalla. Si scollò dalla presa e corse dietro l’ufficiale che lo aspettava sulla porta. Il tepore se ne andò. Romano si sentì come strappato dall’abbraccio delle coperte dopo una notte di sonno profondo.

Si voltò verso la parete, strinse una mano sul braccio e lo strofinò fino alla spalla. Guardò la sua stessa, piccola ombra stesa sulla parete, e tornò il bruciante formicolio al petto.

Un’altra ombra si mosse sul pavimento, accompagnata dal suono dei passi che si allontanavano. Romano lanciò un’occhiata distratta alle sue spalle e incrociò lo sguardo dell’ufficiale silenzioso. Aggrottò la fronte, guardandolo di traverso, e l’uomo gli diede le spalle. Le mani ben strette dietro la schiena si schiusero, lasciarono vedere qualcosa di bianco tra gli spazi delle dita. L’uomo mosse due passi. Un foglietto ripiegato svolazzò sul pavimento come una foglia secca caduta da un ramo.

Romano seguì la silenziosa caduta del foglio fino a terra. Un petalo che si posa sulla piatta superficie di un lago. Aggrottò la fronte, una piega di fastidio gli storse il viso.

Ma tu guarda se...

“Ehi.”

Raggiunse il foglietto, si chinò a coglierlo, e lo sventolò stringendolo in una rapida presa nervosa.

“Hai perso questo.”

L’ufficiale si voltò, fermando la camminata. Rivolse gli occhi a Romano, senza guardare il foglio, e sollevò un sopracciglio. “Prego?”

Romano sbuffò. La mano sventolò con più vigore, la voce inacidì. “Questo dannato foglio. Ti è caduto dalla tasca.”

L’ufficiale non mosse lo sguardo, e scosse il capo. “Temo di no, signore.”

“Che?” Romano fissò il foglio. Le dita strinsero stropicciando l’angolino di carta, gli occhi lo guardarono come a volerlo incenerire. Lo stesso sguardo passò dal foglio all’ufficiale. Una vena pulsò attraverso la fronte. “Mi prendi per un rincoglionito? Te l’ho visto cadere io.”

L’uomo scosse di nuovo la testa. “Non mi appartiene, signore.” Inchinò il capo e si voltò. “Con permesso.”

Uscì dalla stanza. L’ultima cosa che Romano vide di lui furono le dita intrecciate dietro la schiena che si muovevano in piccoli scatti, facendo sfregare i polpastrelli.

Romano arricciò la punta del naso, storcendo una smorfia. Le dita strette al foglietto si piegarono verso il palmo, appallottolando la carta.

“Qui si sta fottendo il cervello a tutti,” mormorò.

La porta si chiuse.

Romano abbassò il braccio, riaprì il pugno, e le pieghe del foglio accartocciato si schiusero leggermente, lasciando vedere l’interno. Segni neri correvano tra i rilievi della carta stropicciata. Romano abbassò gli occhi. Lo sguardo raggelò, catturato dalle prime lettere svelate dall’involucro. ‘Es...’ E da una calligrafia che conosceva.

Romano trattenne il fiato in gola, quasi non osasse pensare e sperare. Sventrò il foglietto. Lo aprì tremando, lisciò i bordi da angolo ad angolo. Fece un passo all’indietro, si girò di lato immergendo la carta scarabocchiata sotto la luce del sole. Un raggio bianco illuminò il foglietto sciupato, attraversò le scritte nere.

 

Hola, Roma! Sono appena uscito di prigione e mi hanno fatto tornare a casa sano e salvo! Mi sento un po’ un galeotto – ah, ah, ah!

Però non mi hanno lasciato tenere l’uniforme che mi piaceva tanto. (T_T)

Ma siccome hai detto che mi stava male non è un problema – ah, ah!

Sai, me l’ha detto anche Francia ma io mi fido più di te!

Scrivimi presto per farmi sapere se stai bene. (^_^)

 

España

 

La prima lacrima piovve proprio sulla prima riga. La carta assorbì la macchia, sbavò la frase e l’inchiostro stese un alone grigiastro sul bianco, cancellando la parola ‘prigione’. Le parole annaffiate dal pianto rimbombavano sulle tempie.

A casa sano e salvo... sano e salvo... salvo...

Le lacrime gocciolarono inumidendo l’intero foglietto. La carta bagnata, tiepida e stropicciata cedette sotto la forte presa di Romano, e aprì due piccoli spacchi agli angoli. Le parole rimasero intatte, solo sbavate.

Romano avvicinò il foglio al viso. Si rintanò tra le pieghe della carta che assorbirono il primo secco singhiozzo. Altre lacrime scesero, gocciolarono dalle guance al mento, fino a colare sugli aloni già aperti. Romano barcollò fino al muro, vi premette la spalla contro e scivolò lentamente verso il basso. Si accucciò ai piedi della parete. Singhiozzò ancora, facendo sobbalzare la schiena. Ginocchia premute al petto, spalle chine, fronte bassa sul foglio umido di lacrime.

Pianse.

 

♦♦♦

 

La gamba della poltrona girevole completò la piroetta dando una brusca frenata, le molle cigolarono, le ruote fischiarono contro le piastrelle. America poggiò i piedi a terra, premette i palmi sulla scrivania, e spinse le spalle in avanti. Gli occhiali scivolarono dalla radice del naso fino in punta.

“Italia è entrato dove?”

Canada scivolò di un passo all’indietro, l’esclamazione lo fece sobbalzare. “T... ti prego, non urlare,” bisbigliò. Si chiuse nelle spalle, strinse le braccia allacciate al pancino di Kumajiro, e chinò la fronte. Un tremito attraversò il corpicino. Sollevò una mano e spinse l’aria col palmo, facendo cenno di calmarsi. “Non si dovrebbe ancora –”

“Quando è successo?” America si alzò dalla sedia, spingendola all’indietro, e tenne le mani aperte tra le scartoffie sparse sulla scrivania. Le pagine del giornale frusciarono sotto i suoi palmi.

Canada guardò il pavimento. Tornò ad abbracciare Kumajiro, tenendolo tra le pieghe dei gomiti. La testa e le zampette dell’orsacchiotto ciondolavano verso il basso, gli occhietti tondi e lucidi fissavano il vuoto.

“Hanno dato l’annuncio due giorni fa,” sussurrò Canada. “Hanno già iniziato delle manovre offensive su Malta e hanno rotto le relazioni diplomatiche anche in Africa.”

America sbatté le palpebre, le labbra socchiuse in uno sguardo intontito. Raddrizzò la schiena, tolse una mano dal tavolo e aggiustò gli occhiali spingendo la stanghetta dietro l’orecchio. “Oh.”

Canada ruotò gli occhi verso l’alto, tenendo la fronte chinata, coperta dall’ombra delle ciocche di capelli. Guardò il disordine sulla scrivania. Due volumi impilati uno sull’altro sorreggevano la lampada a cono chinata sui fogli pinzati che pendevano dagli angoli del tavolo, il disco di luce brillava sui documenti gialli che sbordavano dai fascicoli rimestandosi alle carte della corrispondenza, il riverbero bianco faceva scintillare le puntine da disegno che si infilavano negli spazi tra una carta e l’altra. Erano piovute dalla lavagna in sughero appesa alla parete.

Canada incrociò lo sguardo avvilito con quello di America. “Non hai letto i giornali?”

America sbarrò le palpebre, quasi offeso. “Sì che li ho letti.” Abbassò gli occhi che corsero da un lato all’altro della scrivania. Il viso arrossì. “Uhm, qualcuno. Un po’ di pagine. Ogni tanto.” Spostò una manciata di puntine, agguantò una pila di fascicoli, li fece scivolare verso un angolo del tavolo spingendoli contro il telefono tra i due barattoli delle penne, e riesumò la carta del giornale. “E comunque non c’era scritto niente di questa faccenda su quello di ieri, guarda.”

Strinse il quotidiano ripiegato sulla prima pagina con entrambe le mani, tese le braccia allungandolo davanti al naso di Canada, tanto da fargli sentire l’odore di inchiostro.

Canada tenne fermi gli occhiali con le punte delle dita premute di lato, su una stanghetta, e scorse i titoli delle testate.

Un poster di propaganda che ritraeva la Statua della Libertà vestita con una bandiera americana e armata di scudo, affiancata da un ragazzo in uniforme che le porgeva una spada, riempiva metà della facciata.

Un sospiro sconsolato gli fece abbassare le palpebre. “Devi andare oltre le pagine di cronaca interna, e leggere anche la politica estera.” Canada prese il bordo del giornale tra due dita, con un gesto delicato, e fece correre le pagine tra i polpastrelli arrivando a due fogli dal fondo. “È lì che si scrivono questo genere di notizie.”

Aprì il giornale ancora posato sulle braccia tese di America. Poggiò la punta dell’indice tra i muri di testo. Il dito scese sorvolando il poster di un marine che stringeva la mano a un uomo in tenuta da fabbro e a una donna con una bandana in testa – ‘I’m so proud of you folks too!’ diceva il fumetto – e si fermò su un piccolo riquadro nell’angolino della pagina. Una decina di righe sopra, c’era il titolo in grassetto: ‘L’Italia annuncia: guerra a Francia e Gran Bretagna’.

America allargò le palpebre, gli occhi assorbirono la luce, le pupille brillarono di stupore. “Ooh.” Gli occhi incollati all’articolo di giornale schizzarono da una riga all’altra, le dita strinsero, strofinarono sulla carta grezza inchiostrata di nero.

Canada sospirò di nuovo. Fece un passetto all’indietro e lasciò correre le dita tra la peluria del pancino di Kumajiro. Incrociò le braccia, stringendo l’orsacchiotto al petto.

“Sai, forse...” Una vena di insicurezza fece tentennare la voce. Canada sfregò un piede alla caviglia, e sollevò un timido sorriso. “Forse dovresti iniziare a interessarti anche di quello che fanno gli altri paesi, se...” La bocca tornò piatta e tremolante, gli occhi bassi vacillarono dietro le lenti. Canada posò le labbra tra le orecchie di Kumajiro, la pelliccia dell’orsetto assorbì il sussurro. “Se un giorno di questi tu dovessi essere costretto a –”

“Devo chiamare Inghilterra!”

Il giornale aperto volò sulla scrivania. America si tuffò nell’imbottitura della poltrona girevole, le ruote scivolarono all’indietro girandosi lievemente verso destra. Si trascinò verso l’angolo della scrivania e agguantò la cornetta del telefono, poggiandola all’orecchio. L’indice già infilato nelle aperture ovali del disco numerato sollevò rapidi e forti trilli. America sghignazzò. “Chissà che faccia farà quando glielo dirò.” Ultima cifra. La molla del disco bucherellato si ritirò gracchiando. America giunse i palmi a coppa sul rigonfiamento inferiore della cornetta. Esibì un sorriso. “E per una volta potrò vantarmi di una cosa che io so e lui no.”

“A-aspetta.” Canada sollevò un palmo verso di lui e saltellò dietro la scrivania. Spalle basse, vece tremolante, gli occhi lucidi in un’espressione di insicurezza. “Inghilterra è appena tornato a casa da Dunkerque, sarà stanco, non disturbarlo per –”

 

.

 

“Che cosa vuoi?”

“Inghilterra! So una cosa che tu non sai!”

Inghilterra fece scivolare il gomito lungo la superficie del tavolo. Si teneva la mano sulla fronte, a massaggiarsi le palpebre con i polpastrelli, sotto le ciocche scompigliate della frangia. Il braccio piegato sulla scrivania urtò il bicchiere mezzo vuoto di rum, facendolo trillare contro la bottiglia stappata. La mano che reggeva il telefono contro l’orecchio serrò una presa nervosa sull’apparecchio, le unghie graffiarono la plastica, il cordone di gomma arricciata vibrò con lui.

“Non mi chiedi qual è? Dai, dai, chiedimelo!”

Inghilterra staccò il ricevitore dall’orecchio, allontanando le esclamazioni che trivellavano nel cranio come un martello pneumatico. Distese le dita sulla fronte fino a spremersi le tempie con pollice e medio. La testa pulsava. Socchiuse una palpebra, e la tenue luce riflessa sul legno del tavolo arrivò come una martellata in mezzo agli occhi. La superficie del rum brillava tra le pareti di cristallo. I grappoli di scintille erano pugni chiodati che battevano sui bulbi oculari.

Inghilterra richiuse gli occhi e sospirò. Riavvicinò il telefono alla guancia. “Se mi hai chiamato solo per uno dei tuoi stupidi giochetti, allora sappi che –”

“No, no, giuro! L’ho letto sul giornale! Ho letto il giornale, oggi, sai?”

La mano di Inghilterra scese dalla fronte, il palmo si aprì, si stese lungo tutto il viso tirando la pelle delle guance. Lanciò un’occhiata distratta all’ufficiale ancora in piedi nella penombra dell’angolino, e fissò il soffitto. Le spalle affondarono nella poltrona, reclinarono lo schienale.

“Se è ancora per quella faccenda del,” piegò indice e medio, tracciando due segni in aria, “‘disco volante’ che quel giornalista ha avvistato vicino alla costa, te l’ho detto un milione di volte che non erano alieni, ma solo –”

“No, non è per quello!”

Inghilterra dovette di nuovo allontanare il telefono. Ogni parola che passava attraverso i fori della cornetta era una trapanata che forava il cranio da parte a parte. Il mal di testa sollevò un primo, bruciante, conato di nausea al rum che andò a pizzicargli la gola.

“E comunque quella volta l’ho visto anche io il disco,” esclamò America. “Era un alieno, te lo giuro! E sull’astronave c’erano le luci verdi che facevano bip-bip!”

Le labbra di Inghilterra si storsero. Una smorfia vacillante, infossata nelle guance già arrossate dall’alcol. Gli angoli della bocca storsero un ghigno sbieco verso l’alto, tremarono, tornarono verso il basso in un sottile ringhio, e solo la parte destra della bocca si rialzò, snudando il bianco dei denti.

“America.”

La voce dall’altro capo della linea stette zitta in attesa.

Inghilterra inspirò. Reclinò le spalle in avanti, accasciò la pancia sul tavolo, piegando il gomito davanti al mento poggiato sul legno. Sollevò gli occhi, seguendo il lento e appannato ondeggiare del mare di scintille dentro il bicchiere di rum.

“Sono tornato un’ora fa da un dannatissimo viaggio oltremanica, in una chiatta che puzzava di vomito e di pesce marcio, con onde che ti facevano diventare verde dalla nausea, e con gli stormi della Luftwaffe che ci ronzavano sopra i capelli.” Serrò il pugno. Gli angoli delle labbra tornarono entrambi verso il basso, il brontolio gorgogliante strisciò fuori dai denti serrati. “Tutto questo dopo una stramaledetta e logorante campagna fallimentare che ha mandato in malora il destino dell’Europa per tutto il proseguimento del conflitto.” Il dolore alla testa divenne uno stridio di corde di violino che oscillava seguendo il ritmo delle luci sul rum. Inghilterra prese un respiro secco. “Se hai qualcosa di serio da dirmi, sei pregato di farlo subito.”

“Italia è entrato in guerra.”

Lo stridio di violino si zittì. Il martello pneumatico si spense, la testa smise di pulsare.

Inghilterra allentò la pressione sul pugno, e le unghie uscirono dalla carne del palmo. Sbatté le palpebre, socchiuse la bocca e stette in silenzio come avesse sentito male. Sollevò le spalle dal tavolo sorreggendosi sul gomito piegato. Voltò il capo verso il telefono, spostò il cordone di gomma dietro la schiena, e guardò i fori del rigonfiamento inferiore della cornetta con la stessa espressione.

“Co-come? Ma quando...” Gli occhi volarono alla parete, di fianco alla figura irrigidita dell’ufficiale. Il bordo del giornale ancora chiuso pendeva dal bordo del tavolino poggiato al muro. L’ufficiale si spostò di lato e indicò la rivista abbassando la punta del dito. Inghilterra annuì, richiamandolo con una sventolata di palmo. “Come lo hai saputo?” disse, di nuovo rivolto al telefono.

“Te l’ho detto, ho letto il giornale.”

L’ufficiale spostò la bottiglia e il bicchiere di rum lontano dalla luce della lampadina, spinse la rivista sotto gli occhi di Inghilterra e fece un passo all’indietro. La scritta ‘The News Of The World’ era stampata nella sagoma di un nastro stilizzato che ondeggiava in cima alla prima pagina.

Inghilterra si inumidì il pollice con la punta della lingua e sfogliò gli angoli del giornale. Un’acida risatina gli storpiò la voce.

“C’è Canada lì con te, vero?” Superò la prima metà della rivista, e andò oltre le cronache interne. “Te l’ha detto lui.”

“Ehrr...” America mugugnò. “N-no! L’ho scoperto da solo, ma è tutto vero!”

Inghilterra girò un’altra pagina, e fermò la mano.

La foto in bianco e nero incastrata nella prima metà del testo saltava all’occhio ancora prima del titolo. Una fila di microfoni incorniciava il balcone di Piazza Venezia, due altoparlanti osservavano la folla dagli spigoli della terrazza. Gli occhi di Italia erano fissi davanti a sé, guardavano il lato della pagina di giornale come se la folla fosse stata lì. Una mano ferma sul cuore, una stretta sul bordo del balcone, le labbra schiuse nella parlata congelata dallo scatto. Lo sguardo di Romano, fermo al suo fianco, con le braccia strette dietro la schiena, fissava la parte opposta del foglio. Una lieve piega corrugava le sopracciglia rigide nell’espressione imbronciata.

La mano di Inghilterra scese lentamente dalla pagina, scoprì i caratteri del titolo.

 

‘Italia alle armi. Dichiarazione di guerra lanciata agli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna’.

 

Un altro conato di nausea tornò ad annodargli lo stomaco. “Italia in guerra,” mormorò. Lo disse come se non ci stesse credendo nemmeno lui.

Il generale si sporse lievemente in avanti a sbirciare sul giornale aperto. Sgranò gli occhi, il viso impallidì, e tornò nella posizione di prima.

Inghilterra spinse la mano contro la bocca, nascondendo il risolino acido che gli aveva storto le labbra in un ghigno amaro.

Merda. Guardò solo il primo piano di Italia al centro della foto. La mano sul cuore, la luce che brillava negli occhi nonostante l’ombra allungata dalla visiera del copricapo... L’espressione da idiota senza paura che non sa quello che sta facendo fissa sulla piazza. Inghilterra aggrottò la fronte e ridacchiò contro il palmo della mano. Questo potrebbe rendere le cose o estremamente facili o dannatamente difficili.

Il richiamo dall’altro capo della cornetta lo scosse, strappandolo ai suoi pensieri. “Inghilteeerra, ci sei?”

Inghilterra stropicciò le palpebre, tolse la mano dalla bocca con uno scatto. “Sì, sono...” Ultima occhiata al giornale. Lo richiuse. Inghilterra tornò a spingere entrambi i gomiti sul tavolo e tenne il capo ciondolante premuto sul palmo. Chiuse gli occhi, sospirò. “Sono qui.”

“Ah, ecco, perché sai, pensavo, visto che ora anche Italia è entrato in guerra e la cosa sembra parecchio incasinata per voi, potrebbe servirvi il mio aiuto per –”

Inghilterra agganciò il telefono.

 

.

 

Russia voltò il capo di profilo. Le sopracciglia alte dalla sorpresa. “Una dichiarazione di guerra?”

Lituania si irrigidì sul ciglio della porta, le braccia tese lungo i fianchi, le spalle tremolanti che stavano dritte a fatica, e le labbra tirate in un sorriso nervoso. Estonia e Lettonia scivolarono di un passo dietro la sua schiena, e tremarono in silenzio.

“Lo hanno annunciato ufficialmente il dieci giugno,” disse Lituania. “Lo abbiamo saputo solo ora, altrimenti la avremmo avvertita prima, signore.”

Lettonia si aggrappò a una manica di Lituania, si tenne nascosto dietro di lui stando a capo basso, gli occhi vacillanti rivolti al pavimento. Estonia spinse la schiena contro la spalla di Lituania, i brividi di paura si trasmisero da uno all’altro. Gli lanciò una rapida occhiata da dietro le lenti e rivolse lo sguardo preoccupato verso i piedi di Russia.

Lituania deglutì. Gli occhi impanicati, spalancati tra le palpebre, seguivano ogni singola piega sul viso di Russia, ogni battito di ciglia, ogni movimento dei suoi occhi, ogni più piccola scintilla che si accendeva nelle sue pupille. Era fermo, pensoso, non cambiava.

Lituania lo guardava con il sangue raggelato nelle vene e il cuore in gola che martellava fin dentro le orecchie.

Se si fosse arrabbiato... Oddio, se solo si fosse arrabbiato...

Provò a ingoiare ma sentì solo un grosso groppo amaro restare incastrato nella gola asciutta.

Quando Russia sorrise, Lituania sentì il cuore cadere nello stomaco con un tonfo.

“È una bella sorpresa.”

Lettonia fu il primo a tirare un sospiro di sollievo. Si agganciò alla manica di Lituania e premette la fronte sulla sua spalla, accasciandosi contro il suo fianco. Estonia abbassò le palpebre e sospirò in silenzio. Con un piccolo passo vacillante sgusciò da dietro la schiena di Lituania. Le ginocchia tremavano ancora.

Lituania levò gli occhi al soffitto e riprese colorito in volto. Mosse le mani ancora strette dietro la schiena. Pizzicavano per il sudore e per i formicolii di paura che le avevano paralizzate. Il cuore riprese a pulsare contro il petto.

“Italia potrebbe rivelarsi molto interessante sotto questo punto di vista,” disse Russia. Fece qualche passo guardando il soffitto, e si strinse nelle spalle. Chiuse gli occhi, piegò un tenero sorriso. “Sarà divertente scoprire come se la caverà sul campo di battaglia.”

Lituania annuì. Tornò nella sua posizione, ancora un po’ tentennante. “S-sissignore.”

Lettonia si staccò dal suo braccio, unì le manine sul ventre e giocherellò con le dita, guardando lontano.

Russia si voltò verso i tre. Socchiuse le palpebre. “Germania ne è al corrente?”

Lituania ed Estonia si scambiarono una rapida occhiata. Lituania sollevò le sopracciglia, pizzicò un angolo del labbro inferiore. Estonia slargò le palpebre e lui gli annuì.

Estonia traballò di lato. Imitò la posa di Lituania, leggermente più gobbo e con lo sguardo più chino. Tenne una nocca ferma sugli occhiali per non farli scivolare in avanti. “Dovrebbe... dovrebbe trovarsi ancora in Francia.” Ruotò solo le pupille, senza sollevare la fronte. “Dubito che si siano confrontati prima di questa scelta improvvisa.”

Russia simulò uno sguardo pensoso, alto sul soffitto. Posò la punta dell’indice sul labbro inferiore. “Uhm, sì, lo credo anch’io.” Scrollò le spalle, tornando a sorridere. “Dopotutto, Germania ha parecchio da fare al momento.” Fece due morbidi passi di lato, la sciarpa sventolante tra le caviglie sfiorò le gambe. Il tono di voce divenne più basso, un’ombra gelida si posò sul sorriso, raffreddando l’aria. “Speriamo che non se la prenda troppo quando verrà a sapere che la notizia è giunta prima alle mie orecchie che alle sue.”

Estonia e Lituania si guardarono di nuovo. Nessuno dei due spiccicò parola.

“Io non credo, signore,” pigolò Lettonia.

Tutti lo guardarono, nessuno parlò.

Lettonia si strofinò la nuca e sorrise. Labbra e sguardo tremavano come le ginocchia. “In fondo, se il signor Germania non si è arrabbiato dopo che lei si è tenuto il controllo di Finlandia, nonostante la promessa di dividervi il carbone, non credo che lo farà per questo.”

Estonia e Lituania sbiancarono. Gli occhi sgranati e le bocche spalancate come avessero appena ricevuto una secchiata di acqua ghiacciata sulla schiena. Uno spasmo di panico li fece sobbalzare di lato, Estonia si prese la nocca tra le labbra, sussurrando tra i denti stretti.

“S-scemo, cosa dici?”

Lettonia lo guardò dal basso, non capendo.

I passi di Russia che si avvicinavano fecero correre i brividi sulle gambe a tutti e tre. Lunghi e viscidi artigli freddi che si arrampicavano dai piedi, risalivano le ginocchia e scorrevano lungo la spina dorsale, fino a mordere il collo. L’ombra di Russia investì Lettonia. Gli sorrideva.

“Ma questo è successo perché, se io decido di ottenere una cosa...” Sollevò un braccio e premette il palmo sulla sua testa. Le dita strofinarono tra i capelli, Lettonia si paralizzò sotto il duro e pesante tocco che lo avvitava al terreno. Russia chinò le spalle. Il viso sorridente fronteggiò quello di Lettonia. “La ottengo e basta, piccolo Lettonia.”

Estonia e Lituania si allontanarono di altri due passi verso la parete.

Russia distese il sorriso continuando a sfregare la mano tra le ciocche fulve del piccolo. “Non sei d’accordo anche tu?”

Lettonia annuì tremando. Le prime lacrime cominciarono ad affiorare dagli occhioni lucidi. “S-sissignore.”

Le dita scivolarono giù dal suo capo. Russia ritirò la mano portandola dietro la schiena. Fece un passo di lato, diede le spalle ai baltici.

“Comunque, l’entrata del piccolo Italia potrebbe rivelarsi vantaggiosa dal mio punto di vista.” Un altro passo, più fitto, il suono più cupo. Russia sollevò gli angoli delle labbra. “Dopotutto, lui e Germania sono molto amici.”

Lituania fece volare un’occhiata preoccupata in direzione di Estonia. Un’altra scarica di brividi lo strinse in un abbraccio pizzicante che entrava fin nelle ossa. L’aria tornò fredda e viscida.

Russia voltò il capo, le labbra ancora stese nel lieve sorriso parlavano sfiorando l’intreccio della sciarpa. Gli occhi si accesero. Due lampi viola nell’ombra.

“E ora so con che arma ricattare e manipolare Germania, nel caso decidesse di fare qualche sciocchezza nei miei confronti.”

Una dolce risata chiuse la frase.

 

.

 

Cina schiuse il palmo, sollevò la mano contro il riflesso rossiccio del tramonto e il braccio divenne una sagoma nera contro il disco scarlatto. Le dita si separarono lievemente, lasciarono vedere il verde della fogliolina racchiusa dalla presa. Cina sospirò. Un soffio di vento tiepido agitò la manica tesa fin sopra il polso, scosse i capelli legati sopra la spalla.

“Nemmeno Francia ce l’ha fatta.” Sbatté lentamente le palpebre. L’abbaglio del tramonto era tutto riflesso nei suoi occhi. “E ora siamo già arrivati a questo.”

Richiamò il braccio togliendolo dall’immagine del sole. Chiuse le dita sulla morbida fibra della foglia e poggiò il pugno alle labbra. Il profumo della linfa aveva già impregnato la pelle, gli solleticò la punta del naso.

“Me lo sentivo nelle ossa.” Le unghie sfregarono tra le venature più chiare in rilievo sulla foglia. Cina sospirò di nuovo, più a fondo, e un velo di tristezza gli mise il viso in ombra. Scosse il capo. “Occidentali...” Agitò le dita, sentendo la fogliolina accartocciarsi nel pugno. “E io che mi illudevo che avrebbero saputo chiuderla entro un anno, invece non stanno facendo altro che allargare la piaga aperta da Germania.”

L’aria passò di nuovo. Sollevò i capelli agitandoli dietro la schiena, sulle spalle, e le punte sfiorarono le labbra. Cina abbassò il braccio. Stese la mano lungo il fianco, e l’orlo della manica arrivò alle nocche.

“Non prevedo niente di buono.” Arricciò un angolo delle labbra. “Soprattutto ora che siamo letteralmente tutti nelle sole mani di Inghilterra.” Sfregò il pollice contro la foglia, rivolse il palmo verso il cielo, senza scollare il braccio dal fianco, e separò le dita. “Se anche lui cederà...” Il vento travolse la mano, sollevò la foglia dal palmo e la soffiò contro il disco del sole. Cina vide la foglia avvitarsi su se stessa, spingersi più in alto, di nuovo in basso, e diventare un puntino nero in mezzo al rosso. Aprì un palmo e poggiò il fianco della mano sulla fronte. “Nemmeno io riesco a prevedere come potrebbe finire per tutti noi.” La foglia svanì contro il tramonto.

 

.

 

Il vento scosse i capelli corvini contro le guance. Giappone prese due ciocche, le tolse dalla fronte portandosele dietro l’orecchio, e tenne la mano sollevata sul viso. “Come?” Un sopracciglio si storse in un’espressione a metà tra il confuso e il preoccupato.

L’ufficiale fece un passo verso il bordo della piattaforma navale, si portò davanti a Giappone tenendo le braccia lungo i fianchi. L’antenna radio – più simile all’albero maestro di una nave – si ergeva dietro la figura dell’uomo, la punta metallica trafitta da spessi spuntoni scintillanti toccava le nuvole nel cielo grigio. Un gruppo di uomini stava lavorando sullo stormo degli Zero posteggiati ai fianchi della pista di decollo. Due di loro erano chini sulle ruote, e uno era accovacciato dentro la cabina di pilotaggio, sporto verso la coda. Una cassetta degli attrezzi era aperta su una delle ali del mezzo.

Una scossa d’aria mosse la giacca di Giappone poggiata sulle spalle, le maniche a ciondoloni sbatterono contro i fianchi. L’uniforme dell’ufficiale rimase ingessata attorno al petto e lungo il busto.

“Hanno deciso di dare prima l’annuncio al popolo,” disse l’uomo. “Non hanno inviato nessuna dichiarazione ufficiale in precedenza.” Un ronzio coprì il suono del vento che soffiava contro i due uomini. L’ufficiale sollevò il naso al cielo e seguì il volo del caccia sopra le loro teste. L’ombra si allargò sulla piattaforma navale, nascose il sole, e sfrecciò via. Tornò la luce opaca, e l’ufficiale scrollò le spalle. “Hanno fatto tutto da soli.” Un lieve sospiro gli piegò il viso in un’espressione sconsolata.

Giappone afferrò una spallina della giacca e la avvicinò al collo. Sollevò il bavero contro la guancia, e fissò la distesa del mare davanti a sé. Il colore scuro delle onde si riflesse nei suoi occhi.

“Nemmeno a Germania-san?”

Due puntini si mossero lungo la linea d’orizzonte. Scintille metalliche si accesero sulle piccole sagome, confondendole con la schiuma sollevata dalle onde in lontananza. Due corazzate.

“Ne dubito,” rispose l’ufficiale. “È molto probabile che anche lui sarà colto di sorpresa esattamente come noi.”

Giappone sospirò. Sollevò le sopracciglia, gli angoli delle labbra si incurvarono lievemente verso il basso, una luce malinconica e preoccupata gli passò attraverso gli occhi. Un vortice di vento scompigliò la frangia, la pesante aria di mare aperto zaffò via l’odore di olio, di carburante e di ferro. Un motore ruggì alle sue spalle, il ronzio di un’elica gli pizzicò l’orecchio, qualcuno urlò, e il rombo acuto si spense.

Gli occhi di Giappone restarono sul mare. Un brivido lo scosse, corse sotto la giacca che sventolava sulle spalle, e gli avvolse il collo scoperto. Il vento non era freddo, ma Giappone raggelò comunque.

“Signore.”

Giappone voltò lo sguardo. L’ufficiale si era spostato di lato, lasciandosi l’antenna trasmittente sul fianco. La sua figura si ergeva davanti all’asta da cui sventolava la bandiera giapponese.

L’uomo irrigidì la posa d’attenti. “Dovremmo inviare una lettera di congratulazioni e un augurio per il futuro?”

Giappone storse un sopracciglio. Abbassò gli occhi, percorrendo con lo sguardo la linea bianca che divideva la pista di decollo. Due Zero procedevano in fila a passo d’uomo dietro un ufficiale che camminava all’indietro sbracciando rapidi movimenti con due bandiere rosse strette tra i pugni. Le eliche immobili, i motori spenti.  

Giappone scosse il capo. “Non credo sia il caso di farlo.” Sollevò nuovamente il braccio verso la giacca e tirò la spallina in avanti, contro il petto. Camminò seguendo il bordo della piattaforma di cemento. Gli occhi bassi verso le onde che si spaccavano contro le pareti affondate nel mare, e la spuma bianca che si arrampicava sul cemento inumidito. “Preferirei aspettare di sapere cosa ne pensa Germania-san in proposito.”

I passi dell’ufficiale lo seguirono. “Vuole che la mettiamo in contatto con lui?”

Giappone tornò a scuotere la testa. “No.” Fermò la camminata. Lo scroscio di un’onda più violenta schizzò un forte spruzzo d’acqua che macchiò la parte asciutta della piattaforma. “Non sarebbe educato da parte nostra disturbarlo in un momento delicato come questo, la campagna di Francia non si è ancora conclusa, dopotutto.” Si voltò verso l’ufficiale. Gli occhi sorvolarono la figura dell’uomo, percorsero il profilo dell’asta che reggeva la bandiera giapponese, seguirono i movimenti ondulatori del lenzuolo che si stendeva, si raccoglieva su se stesso, e finiva piegato dagli sbuffi di vento salmastro. Giappone tenne la fronte alta, unì le mani dietro la schiena, e gonfiò il petto. Lo strato appannato di insicurezza scivolò dal viso, rivelò la luce dello sguardo fermo all’orizzonte. “Germania-san sta dando del suo meglio, e ora che anche Italia-kun ha deciso di impegnarsi al nostro fianco, tutto quello che posso fare è mettercela tutta per essere all’altezza dei miei alleati.” Abbassò gli occhi, incrociandoli con quelli dell’ufficiale. Un piccolo sorriso d’incoraggiamento gli sollevò le labbra. “Impegniamoci a fondo per non tradire la loro fiducia.”

L’ufficiale batté i tacchi. I due Zero attraversarono la pista alle sue spalle. I caccia e l’uomo che li guidava sparirono dalla vista di Giappone.

“Sissignore.”

Giappone annuì, e l’ufficiale si allontanò, dirigendosi alla base.

Altre esclamazioni si unirono al soffiare del vento, il rumore di un’elica partì, per spegnersi dopo qualche secondo. Una seconda ombra tornò a oscurare il sole. Giappone sollevò la punta del naso aprendo un palmo davanti alla fronte. Tenne la giacca ferma sulle spalle con una mano sola. La sagoma nera di un caccia oscurò il pallido disco sfocato tra le nubi. L’aereo volò via, portandosi dietro il ronzio dei motori.

Giappone sospirò. Il sorriso sbiadì, la luce negli occhi si spense, tornò la vena preoccupata, la sottile piega che inarcava le sopracciglia nell’espressione malinconica. Abbassò le palpebre, lasciò uscire un altro sospiro che gli sgonfiò il petto. “Aah.” Scosse il capo. “Italia-kun...”

 

.

 

“Ha fatto cosa?”

Prussia sollevò le braccia al soffitto e sventolò i palmi. “Sorpresa!”

Germania sbiancò, il cono della lampada a olio che gli illuminava il viso di profilo splendette sulla guancia diventata lattea. Gli occhi vacillarono, le pupille ristrette traballarono nell’iride, dalla bocca rimasta socchiusa uscì un sibilo che fece tremare il labbro inferiore. Germania piegò i gomiti sul tavolo, li lasciò scivolare in avanti, poggiando il petto sul bordo di legno. Aprì le mani sul capo, le dita corsero tra i capelli, tirarono la frangia all’indietro e i palmi si fermarono sulle tempie. Lo sguardo, basso, pietrificato, fisso sul riflesso ondeggiante della lampada giallognola. Smise di pensare.

L’ombra di Prussia si allargò lungo le pareti della tenda da campo, i passi si avvicinarono al tavolo e le mani premettero sullo spigolo. “Che c’è,” Prussia saltò sul bordo del tavolo, le gambe a ciondoloni, “non sei felice?” Un’aspra risatina terminò la frase.

Germania sollevò la fronte, passò i palmi sul viso. La luce di un occhio splendette tra gli spazi delle dita, un abbaglio azzurro trafisse Prussia.

“Perché una notizia del genere devo venirla a sapere da te e non direttamente da lui?” Un brivido di rabbia gli pizzicò la base del collo.

Prussia sollevò gli occhi al soffitto, dove i nodi delle corde si intrecciavano tra gli spazi della tela, e arricciò la punta del naso. Inarcò il sopracciglio in un’espressione di stizza, un piede dondolante sbatté contro la gamba del tavolo.

“Sono corso più in fretta che potevo proprio perché sapevo che nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di venire da te a dirtelo in faccia.” Aprì una mano sul petto, posando le punte delle dita sulle braccia della croce di ferro. “Dovresti ringraziarmi.”

Germania sbuffò dentro la mano ancora aperta sul viso. Strizzò le palpebre, lasciò scorrere i polpastrelli fino alle tempie e le massaggiò con movimenti circolari. Storse un angolo delle labbra verso il basso, lo smalto dei denti stridette.

“Quello scemo.”

La fiamma della lampada si impennò fino a toccare il coperchio annerito della lanterna. Il riflesso arancio splendette sugli intagli a rombi del vetro, ingrossò l’ombra della figura china contro le pareti della tenda immersa nella notte. La sagoma ondeggiava sotto il lumino traballante, la tenda si colorò delle sfumature del fuoco. Germania fece correre la mano dalla fronte alla nuca, e un’onda dorata attraversò i capelli.            

“Non gli avevo detto di aspettare prima di prendere decisioni del genere?”

Lo sghignazzo di Prussia fece traballare il tavolo. “Ma dai, perché ti preoccupi, West?” Un suo piede tornò a colpire la gamba di legno. Prussia spalancò le braccia e inclinò le spalle all’indietro, dondolando sullo spigolo del tavolo. “Dopotutto, la campagna sta procedendo alla grande, ormai siamo a un passo dalla resa dei francesi e dalla firma dell’armistizio.” Fece roteare il polso. “Dopo questo, sarà uno scherzo occuparci anche di Inghilterra, e chiuderemo la cosa in un paio di settimane.” Annodò i piedi attorno alla gamba del tavolo, smettendo di dondolare. Raddrizzò la schiena, infilò due dita sotto il colletto della giacca e aprì i primi due bottoni. Si massaggiò il collo, facendo tintinnare la croce di ferro. Prussia sollevò un angolo della bocca e rivolse il sorriso ghignante a Germania. “L’entrata nei giochi dei due fratellini non sarà di alcun impiccio.”

Germania tornò ad appoggiare il peso del capo sul gomito piegato. I polpastrelli spremuti sulle palpebre, l’ombra del palmo a coprirgli la fronte. La mano aperta sul tavolo fece tamburellare le dita sulla superficie di legno.

“Ma perché lo ha fatto? Che sia...” Trattenne il fiato, le unghie si immobilizzarono. Germania prese un piccolo respiro e abbassò la voce. “Che sia perché crede che ora la guerra sia già in mano nostra e che quindi non dovrà mettersi in rischio?” Le dita batterono piccoli colpi ovattati dal legno. “Oppure perché pensa che da adesso in poi avremo vita facile?”

Sentì lo sguardo di Prussia abbassarsi su di lui.

Prussia slanciò le gambe e atterrò con un balzo giù dal tavolo. Lisciò la giacca con tre piccole spazzolate. “Se vuoi proprio saperlo...” Aggiustò il bavero della giacca, voltò il capo all’indietro, verso Germania, con ancora le mani strette sul colletto. “Secondo me lo ha fatto per te.”

Germania inarcò un sopracciglio. Gli lanciò un’occhiata storta senza sollevare la fronte dal tavolo. La lampada a olio illuminava solo per metà la figura di Prussia, apriva una scintilla sul braccio inferiore della croce di ferro e gli colorava le ciocche dei capelli di arancio.

Prussia fece un passo verso il tavolo, aprì un palmo al soffitto e scrollò le spalle. “Da quando abbiamo siglato il patto avete avuto ben poche occasioni per starvene soli.” Piegò i gomiti sul bordo, fece strisciare le braccia e il petto in avanti, avvicinò il viso a quello di Germania. Il ghigno sempre più largo e splendente sotto il bagliore rosso della fiammella. “Avrà pensato che così avrebbe potuto starti dietro durante le campagne e le battaglie.” Gli mostrò le mani chiuse sulle punte delle dita come a formare due piccoli becchi. Sollevò i becchi davanti al naso e li fece scontrare in piccoli scatti. Assottigliò il sorriso. “Tu e lui soli soletti.”

Germania aggrottò la fronte, da sotto le palpebre socchiuse partì un’occhiataccia che splendette più della luce della lanterna. Gettò il capo di lato e tornò ad aprire la mano sulla fronte. L’ombra nascose il rossore delle guance.

“No,” borbottò. “Italia si spaventa troppo davanti a queste cose. Stento a credere che abbia superato la paura delle battaglie di punto in bianco. Anche...” Scatti più secchi e nervosi scossero le unghie contro la superficie del tavolo. “Anche se si trattasse di stare vicino a me.”

Prussia strisciò all’indietro, allargò le spalle, gonfiò il petto mostrandosi in tutta la sua grandezza. “Oh, be’...” Aprì la mano sotto la gola, fissò il soffitto e il riflesso rosso della lanterna gli accerchiò le iridi. “Allora lo avrà fatto per il sottoscritto.”

Germania fece roteare lo sguardo. “Ancora meno probabile.”

“C’è gente che venderebbe l’anima pur di fiancheggiarmi in battaglia!” Prussia gli si avvicinò in punta di piedi. Stese l’indice, gli punzecchiò la guancia con l’unghia, esibendo l’arcata dentale alla luce della fiammella. “Che c’è, West, sei geloso all’idea?”

“Non...” Germania si tolse la mano di Prussia dal viso. Sfregò il palmo dove lo aveva punzecchiato, e voltò lo sguardo. “Non dire idiozie!”

“Ooh!” Prussia stese anche l’altro indice. Le dita spinsero sulla spalla, lungo il braccio, e risalirono il petto. “Ma allora sotto quell’ammasso di muscoli c’è davvero un cuore.”

“Sparisci!” Germania sbatté il pugno sul tavolo. La fiammella si ritirò per un istante, lasciandoli al buio.

Prussia nascose il rantolio di risate incrociando le mani sulla bocca, si chiuse nelle spalle e corse via lasciandosi dietro una scia di risate. I lembi della tenda si richiusero, la tela tornò piatta, le corde slacciate immobili, tese verso il basso.

Germania emise un lungo sospiro, inalò l’aria fresca della notte che odorava di muschio umido e di corteccia bagnata. La lanterna sfarfallò, emise uno sbuffo di fumo, il morbido e caldo profumo dell’olio intiepidì l’aria, gli scaldò le guance. Germania tornò a prendersi il capo con le mani premute contro le tempie e le dita affondate nei capelli. Guardava l’ombra della fiamma sul tavolo, le sfumature gialle e arancio che lo coloravano e scurivano i noduli nel legno.

“Italia.” Un rapido tremito gli attraversò la voce. Germania passò la mano sul viso, il palmo si fermò davanti alle labbra. “No, perché diavolo sei...”

 

.

 

“Entrato in guerra?”

Francia lasciò scendere la mano dalla superficie di ferro. I bozzoli dei bulloni si ingrossavano sotto il palmo, gli spazi infossati tra le lastre si curvavano sotto il suo tocco, il metallo freddo e ruvido scaricò un lieve solletico lungo la pelle.

Uno dei due ufficiali davanti a lui chinò il capo. “Ci dispiace.” Il profilo del sole basso e rosso si apriva tra lui e il collega, toccando i fianchi di entrambi. Gli scuri raggi del tramonto si tendevano nell’aria come fili luminosi, passavano sopra le spalle dei due uomini, brillavano sulle piastrine cucite nell’uniforme, e colpivano la gamba della Torre Eiffel. La luce rossastra scavava ombre nere che si estendevano tra un bullone e l’altro.

L’ufficiale sollevò la fronte, scambiò una breve occhiata con il collega, e si aggiustò il berretto sulla fronte. “Forse...” Arricciò le labbra, stropicciò uno sguardo nervoso, e tenne la mano alzata, stretta alla frontiera del cappello. “Forse non avremmo dovuto dirglielo, in un momento come questo, intendo.”

Francia distolse lo sguardo. Le dita ancora ferme sul metallo si mossero tra gli spazi delle lastre, risalirono un rigonfiamento circolare. Piegò lievemente le falangi, sfregando le unghie sulle increspature del metallo. Francia alzò un sopracciglio. Un piccolo sbuffo gli fece sollevare un angolo della bocca. “Be’, non sarebbe rimasto nascosto a lungo, comunque.” Il sorrisetto amaro stese un’ombra tra le palpebre. I polpastrelli continuarono a carezzare la gamba della torre. Il metallo arrossato dal tramonto si intiepidì. “Prima o poi lo avrei comunque scoperto.”

Gli occhi dei due ufficiali tornarono a incrociarsi. L’uomo che era stato in silenzio annuì. Il suo collega ricambiò il gesto, raddrizzò le spalle, e fece un piccolo passo in avanti. La luce del sole alle sue spalle scivolò dalla guancia, gli avvolse il collo.

“S-signore.”

Francia ruotò gli occhi verso di lui. Stette immobile, senza togliere la mano dalla torre.

L’ufficiale si schiarì la voce. “Abbiamo ritirato le truppe dai confini, la Maginot è scoperta e stiamo aumentando la sicurezza qui a Parigi, se...” Profonde rughe gli incresparono la fronte, infossarono pieghe di stanchezza sui bordi delle palpebre. “Se ora Italia decidesse di attaccare fiancheggiando Germania, noi...”

Le dita di Francia premettero sul ferro fino a sentire i sottilissimi granelli della vernice pizzicargli i polpastrelli. Piegò il capo, sfiorò la gamba di metallo con la fronte, e il raggio di sole gli colpì la guancia. Una ciocca di capelli scivolò dall’orecchio, gli nascose un occhio coprendolo dalla luce rossa riflessa sulla superficie di ferro. Sospirò. Sollevò il viso e fece correre una mano tra i capelli, pettinandoli dietro le spalle.

“Se il destino vuole che succeda, non possiamo farci nulla.” La luce del tramonto passava attraverso gli spazi che frammentavano la torre, la trafiggevano da parte a parte, come una pioggia di lance rosse. Francia non riusciva a vederne la cima. “La nostra priorità ora è evitare inutili spargimenti di sangue sulla popolazione, quindi non fatevi prendere dal panico e continuate a tenere aperta la città.”

I due ufficiali unirono le gambe, raddrizzarono le spalle. “Sissignore,” dissero in coro.

La mano di Francia scese dal metallo, ciondolò da un fianco. Francia incrociò le gambe e appoggiò la spalla al piede della torre. Lo sguardo restò alto, ipnotizzato dalle luci che trafiggevano le viscere della costruzione. Un breve sospiro sconsolato gli fece sollevare le sopracciglia. “Ah, Italia.” Scosse il capo. “Non mi sarei mai immaginato di rischiare di prenderle persino da lui.” Annodò le braccia al petto, inclinò il capo di lato poggiando una tempia sul ferro. Era tiepido. “Il lato positivo è che non mi sarà possibile cadere più in basso di così.” Sollevò una mano e riprese a carezzare gli spazi incavati tra le lastre di metallo. Le ombre dei due ufficiali si rimpicciolirono per poi svanire alle sue spalle. Il sottile rumore dei tacchi divenne un eco soffuso. Francia batté due piccole carezze sulla gamba della torre. Meglio. Solo lui e lei. “Germania potrà anche piantare la sua bandiera sull’intera nazione...” Strinse il pugno. Le unghie si incrinarono contro la superficie ruvida e granulosa. “Ma nemmeno lui potrà riuscire a sconfortare il mio animo più di quanto non lo sia già.”

 

 

   
 
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