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Autore: zorrorosso    21/04/2015    0 recensioni
Ritornando dalla Louisiana, Elwood crede di essersi perso, per poi invece arrivare ad un'altra lenta conclusione: qualcuno lo sta cercando.
***Specifica contenuti forti: linguaggio.
Genere: Commedia, Fantasy, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU, Missing Moments, Otherverse | Avvertimenti: Contenuti forti
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Parte 1

Accendino

 

Il motore della Ford aveva un rumore fastidioso e continuo.

Viaggiava senza fermarsi.

L’alba non arrivava mai, era sempre notte, il serbatoio dell’auto era sempre pieno e la lunga coda delle auto della polizia li stava ancora seguendo a debita distanza e velocità regolare.

Inizialmente Elwood rispettò tutti i limiti, seguendo alla perfezione i segnali stradali, nel tentativo di dare a Buster i buon esempio, ma guidare su quella strada buia, cominciò ad essere sempre più difficile e capire quale fosse la reale velocità dell’auto cominciò a diventare impossibile: il tachimetro cominciò a segnare cinquantacinque miglia orarie, ma potevano essere trenta, allo stesso modo di novanta.

Anche Buster continuò a fissare nel vuoto della notte la strada di fronte a se, in un periodo di tempo che sembrò interminabile. Minuti, ore, giorni, mesi, anni... Il tempo sembrava non finire mai.

Entrambi controllarono distrattamente il segnale del serbatoio della Bluesmobile per notare se si stesse svuotando della benzina, se ci fosse una stazione di servizio nelle vicinanze.

Niente.

Il serbatoio era ancora pieno, l’auto guidava ancora nel buio, verso Nord, senza raggiungere nessuna direzione, le luci delle auto al loro seguito sembravano soltanto aumentare.

Elwood scosse la testa, sbuffò ed alzò le spalle. Volse lo sguardo verso il ragazzino, con un sorriso bonario e poi di nuovo verso la strada per alcuni minuti.

Improvvisamente alzò un sopracciglio da sotto gli occhiali da sole, come colto da un’idea geniale. Tolse una mano dal volante e frugò in cerca di qualche cosa nel cruscotto, dopo altro tempo tirò fuori un accendisigari. Non era quello originale dell’auto, ad occhio e croce sembrava quello di una Dodge.

Buster lo osservò con ritrovato interesse.

Elwood inserì l’accendino dove sarebbe andato quello originale e lo accese. Allo stesso tempo schiacciò la leva del gas con tutta la forza possibile.

La luce che illuminò l’accendino non era rossa, ma prese subito un tono violaceo e poi di un blu brillante. L’abitacolo si illuminò lentamente di una luce sempre più bianca ed intensa, come se fosse giorno, poi fino a rendere tutto completamente invisibile nella luce.

 

I raggi luminosi non avevano una provenienza precisa. Ai due sembrò di essere avvolti in un’aura di gas luminoso dalla quale, al centro comparì, confidente, la figura minuta ed agghindata di Queen Mousette. Si fece avanti e si guardò attorno, cercandoli come se non potesse vederli.

La strega alzò le braccia e arricciò le mani in una posizione innaturale, inspirando profondamente con il naso. I suoi occhi verdi fissarono prima Buster e poi si aggrottarono sulla figura scettica di Elwood, che cercò di tirarsi indietro dal volante con uno strano timore.

Gli occhi di Queen Mousette si spalancarono sulle lenti nere dei suoi occhiali da sole, piegò la testa in un movimento strano e, agitando una mano sul suo volto come se fosse uno strano ventaglio disse:

“Buh!”.

La strega scomparve e con lei la luce che li aveva abbagliati.

L’auto rallentò e si fermò senza l’aiuto dei freni, parcheggiata sul ciglio della strada: il serbatoio era vuoto. Elwood notò Buster addormentato ed il suo orologio dorato aveva il vetro rotto: era fermo sulle 3:33.

 

***

 

Scostò i lunghi capelli biondi dalla faccia bianca e sudata, gli occhi dalle iridi blu rotearono all’indietro, arrossati, sballati, come se si fosse fatto di qualche cosa, per poi riaccasciarsi sulla tazza del cesso. Rialzò la testa e tese il mento rotondo, per mostrarle i denti radi, gialli, in un sorriso patetico.

La migliore voce soul che avesse mai avuto l’occasione di ascoltare dal vivo era ora in ginocchio, ubriaco fradicio, con un braccio appoggiato sulla maniglia dello scarico. Aprì di nuovo bocca, ma non ne fuoriuscirono melodie soavi, canzoni ruggenti o parole d’amore.

La sua maglietta era sporca di vomito, birra e qualcos’altro di cui non voleva sapere.

Aveva fatto l’abitudine a quell’odore nauseabondo, il solito: sudore, alcohol e vomito.

Tante volte lo aveva trovato così in precedenza: gli aveva tenuto la fronte, lo aveva lavato e lo aveva portato a letto, curato e baciato come se fosse un bambino, come se avesse fatto la cosa giusta, lo stronzo.

 

Tuttavia quella volta Ira non si avvicinò.

Lo guardò dalla soglia del bagno, uno dei cubicoli del Pub che gestivano insieme, aggiustando di nuovo il manico della borsa sulla spalla e, con la stessa violenza con cui aveva spalancato la porta pocoprima, la richiuse voltando le spalle per poi accasciare la schiena sulla superficie dura. Stanca, emise un lungo sospiro fissando il soffitto illuminato dalla luce fredda e tremante di una lampada al neon.

“Ira... Tesoro”- mugolò l’uomo dall’altra parte, come se fosse sul punto di rigettare altro in quello scarico disgustoso.

“Vaffanculo Andrew.”- disse risollevandosi ed uscendo con passi veloci. I tacchi bassi risuonarono sulle mattonelle in ceramica, fino a che non raggiunsero il legno del salone principale, con un riecheggiare sordo.

 

La sala e il bar del Pub erano altrettanto sudici: il pavimento era coperto da una patina grigia e viscosa, sulla quale era difficile camminare e stare in piedi.

Il volto perfetto di Jeanette la guardò dritta negli occhi. Era come essere fissati da Aretha Franklin nel fiore degli anni e con il migliore dei trucchi. La ragazza arricciò le labbra con soddisfazione. Erano ancora coperte di un rossetto scuro, era il tentativo di abbozzare un sorriso, le diede una leggera pacca sulla spalla.

“Bene! Era ora! Tieni.”- disse porgendole un cappotto lungo. La messa in piega dei suoi capelli castani, allisciati con cura, ma naturalmente crespi, era ancora impeccabile anche dopo quasi otto ore di lavoro ed almeno quattro passate a ballare dimenarsi nel coro della band. Neppure una goccia di sudore sulla fronte ed il trucco non era colato dagli angoli degli occhi, né aveva macchiato le palpebre della riga nera di mascara come capitava sempre a lei.

Ira la guardò con attenzione, alla ricerca di quel piccolo difetto che la rendesse umana, che non la facesse sembrare così naturalmente superiore in tutto, ma non lo trovò.

 

“Cleopatra ha appena chiuso le porte, capo!”- urlò sguaiata una voce dal bar dietro di loro, un uomo abbastanza giovane, dalle spalle larghe e le mani troppo grosse per i bicchieri che stava asciugando, sventolo’ uno strofinaccio e si sollevò sul vecchio bancone di legno del bar, per sedersi comodamente tra la lavastoviglie e diverse spine di birra, mostrandole le spalle. Avrebbe potuto sollevare lo stesso bancone con altrettanta facilità, o mangiarselo, a seconda dell’occasione.

Cleopatra, interpellato, si girò verso di loro ed in silenzio e, ancora a testa bassa, fece un cenno di reverenza con le dita. Il suo vero nome era Kals. Non era proprio il soprannome più adatto ad un uomo, pensò Ira, mentre lui stava diligentemente pulendo i tavoli, curvando su di loro tutta la sua altezza. Per raggiungerli doveva anche piegare leggermente le ginocchia.

Anche se probabilmente i lunghi capelli castani, legati ordinatamente, la frangia che ricadeva sugli occhi dalle folte ciglia erano caratteristiche non del tutto maschili; i lunghi baffi a manubrio e la mosca che accentuava il labbro inferiore non lasciavano altrettanti dubbi ai suoi interlocutori.

 

“Grazie Edou...”- rispose Ira verso l’uomo del bar, facendo finta di non aver visto il suo fondoschiena, scoperto sulla vita dei pantaloni e ancora appoggiato sul bancone, lo stesso dove decine di clienti venivano serviti tutti i giorni.

Allungò un braccio nudo nella fodera di raso fredda, provò un brivido quando raggiunse le spalle e si sentì subito meglio. Si avvicinò al centro della sala e batté sonoramente le mani, riecheggiando nel silenzio.

“È tutto per oggi! Tutti a casa!”- disse infine a voce alta, riaggiustando subito il collo del cappotto.

A quelle parole Edou scese agilmente dal bancone e si tolse il grembiule, gettandolo distrattamente nel lavandino, altrettanto agilmente raggiunse Kals e gli prese il braccio.

“Hai sentito! Abbiamo finito! Andiamo!”- disse all’amico con uno strattone.

Kals continuò il suo lavoro senza neanche notarlo.

“Ma adesso o domattina che differenza fa?”- chiese poco dopo, irritato dalla sua impazienza.

 

Ira li guardò alzando le spalle.

“Sono fuori da questo posto! Ricordatevi di buttare fuori Andrew dal bagno quando uscite e...”- Ira si voltò amareggiata verso la scena chiusa del locale, gli strumenti allineati, i cavi arrotolati e la batteria in ordine. Alta quanto di uno degli amplificatori, e vestita dello stesso colore, una ragazza stava sistemando le ultime cose per lo spettacolo del giorno dopo.

“Ira...”- disse lei alzandosi, con un cenno di saluto.

“Lynn”- rispose voltandole sgarbatamente le spalle, senza ricambiare la cortesia.

 

Jeanette aveva già aperto la porta sul retro e le faceva segno di raggiungerla.

Fuori albeggiava.

Era più tardi del solito. La strada sembrava più lunga del solito.

“Puoi stare da me per stanotte”- disse Jeanette al volante dell’auto.

Ira la guardò ed abbassò la testa.

“Ho già una casa”- sussurrò nel frusciare costante del motore ed il silenzio dell’abitacolo.

“No! Lo sai come andrà a finire se torni indietro”- Jeanette la corresse con severità.

Ira annuì.

“Da quanto va avanti questa storia? Sei mesi? Un anno?”- chiese spazientita, con gli occhi sulla strada.

“Non lo so... Mesi suppongo. Lynn chiude sempre il locale ed Andrew con lei. In fondo voi lavorate insieme nella Band, probabilmente la conosci meglio di me...”- rispose Ira alzando le spalle.

“Lynn...”- ripeté l’amica voltando la testa in corrispondenza di un incrocio.

Jeanette rallentò senza fermarsi e ripartì quasi subito, alzando velocemente il volume della radio. Sam and Dave, “Soul Sister, brown sugar”.

Ira ricordava quella canzone. L’aveva sentita tante volte...

 

“Kals diceva che hanno una stanza in più nel loro appartamento. Cercano un coinquilino. Potrei andare da loro...”- rifletté Ira.

“Chi? Tu Cleopatra e l’altro cinghiale del Pub? Cos’è, non ne hai avuto abbastanza di Andrew?”- chiese Jeanette disgustata dall’idea dell'amica associata a quella dei due strani tizi.

“Edou non è affatto come Andrew! E Kals... Insomma non capisco che male c’è a portare i capelli lunghi. In fondo anche io ho un nome da uomo... Viviamo in un mondo libero!”- ribatté Ira, difendendo incondizionatamente i suoi stretti colleghi.

“Libera opinione, Ira non è un nome. Dovresti cambiarlo”- la bellezza indiscussa di Jeanette contrastava spesso con i suoi pareri, a dir poco discutibili.

 

“È una logica strana...”- rispose Ira senza soffermarsi troppo sulle sue parole -”C’entra il numero nove...”- spiegò distrattamente -”Il nono giorno di qualcosa... Non ricordo. Che ne dici di Opal?”- chiese sbadigliando dal sonno e dalla stanchezza accumulati durante la notte di lavoro. Il fatto che Ira si fosse dimenticata di come fosse stato scelto il suo nome era una menzogna. Jeanette ricordò troppo tardi di come Ira fosse stata adottata da bambina e cercò subito di cambiare discorso.

“Ti piacerà fare il terzo in comodo nel loro nido d’amore?”- commentò con tono di scherno.

“Kals ed Edou? Credi davvero che stiano insieme?”- chiese lei ad occhi chiusi.

Jeanette strinse lo sguardo verso la strada e rise.

“Sono soli e di gran lunga sopra i vent’anni... Non ti sembra strano?”- chiese serenamente .

“Sono musicisti squattrinati. Andrew non li aveva assunti per questo?”- chiese Ira retoricamente.

Jeanette continuò a ridacchiare.

“Li ha assunti per stare con te al bar”- disse volgendole un’occhiata veloce.

Ira non suonava ormai da tempo per gestire il servizio del bar. Lo stesso valeva per loro, anche se erano stati assunti per suonare e cantare, neanche loro avevano mai lasciato il bar: non c’erano state alternative in quei lunghi mesi.

L’unica voce maschile della band era Andrew, Jeanette e Lynn erano le voci femminili.  

 

Andrew era un tipo abbastanza possessivo. Conosceva bene i trucchi del mestiere di un amante traditore. Non avrebbe mai assunto un uomo più attraente di lui come barista, per lo meno nel suo giudizio. Ira alzò le spalle con indifferenza.

“Se stanno insieme sono affari loro...”- ribatté chiudendo la portiera dell’auto e seguendola nel palazzo in cui viveva.

 

Gli ultimi lembi della notte lasciarono spazio ad un sole bianco, sulla città fosca. Ira si sdraio’ sul divano di velluto verde e bruciature di sigaretta. Si addormentò immediatamente.

 

Mattino, per meglio dire, primo pomeriggio.

Ira entrò sotto la doccia ad occhi chiusi.

Uscendo, asciugò con la mano lo specchio appannato e lo osservò per notare, esausta ed affamata, la sua immagine allo specchio.

I capelli bagnati sulle spalle le ricordarono quelli di Andrew. Erano biondi e lunghi allo stesso modo, ma lei amava portarli legati. Aprendo velocemente una delle ante dell’armadietto, prese le forbici dallo scaffale, nell’intenzione di tagliarli, proprio come in quel momento cercava di troncare quella storia assurda: lui, lei, Lynn e il Pub.

Adesso che la condizione tra lei, Andrew e Lynn era stata definitivamente chiarita, mancava quella tra lei ed il Pub in cui aveva lavorato per così tanto tempo e che gestiva con lui.

 

Oh Andrew...

Alcuni le avevano già fatto notare quanto il suo ex le somigliasse: stessi occhi, stessi capelli, stessa altezza. Tra di loro correvano circa dieci anni di differenza, anche se spesso sembrava essere lui quello di dieci anni più giovane.

Non era bello, non era eccessivamente intelligente. Tuttavia era molto corteggiato: aveva una bella voce quando era sobrio e, come cantante della band, non gli mancavano di certo groupies. Erano stati insieme diverso tempo ormai e non ricordava quasi più quale fosse stata la ragione a farli innamorare.

Ricordava come si fossero conosciuti al ballo della scuola, durante il suo ultimo anno, lui era il cantante della band, che suonò una delle migliori versioni di Midnight Hour che avesse mai ascoltato.

Aveva buon orecchio per la sua voce ed aveva cominciato da poco a suonare. Sapeva che avrebbe continuato per quella strada e fece di tutto per non lasciarsi sfuggire nessuna occasione, per lo meno all’inizio.

Pensò che l’idea di gestire un Pub dove avere una gig fissa tutte le sere fosse una buona soluzione ed accettò di buon grado la sua offerta, ma presto si rese conto di come il suo ruolo fosse solo quello di barista e la musica, a poco a poco, andò scomparendo dal suo repertorio serale.

 

Edou guardò dallo spioncino e notò il volto del suo ex-capo fisso sulla porta. Si guardò indietro, cercò invano di aggiustare i suoi capelli ricci, corti, tirandoli indietro con una mano, mentre con l’altra riaggiustò la vita dei pantaloni senza cintura. Aveva la barba lunga e una canottiera bianca, abbastanza pulita, ma non troppo.

“Ah! Ira... A cosa dobbiamo questa visita?”- chiese facendola entrare grattandosi dietro l’orecchio con un sorriso falso. Era apparentemente disturbato da quella visita improvvisa, ma probabilmente le stava portando una sorta di rispetto formale, per quanto Edou non sembrava proprio il genere di persona formale, piuttosto il contrario. Lo dimostrò subito strisciando i piedi nudi sul pavimento e sbadigliando con la stessa grazia di un mammifero marino.

Forse si comportava così nel ricordo di averla avuta come suo capo in quei pochi mesi di lavoro. Edou ed Andrew erano molto differenti. C’era qualche cosa nella voce che li accomunava, ma lui sembrava mancare della stessa sicurezza o, per meglio dire, dell’arrogante confidenza.

L’appartamento dei due aveva solo due stanze, la cucina era un piccolo lavandino alla sua sinistra e, nella stessa stanza, più in fondo, c’era un letto singolo con un comodino che rientrava in un angolo in fondo, senza quasi occupare spazio. Alcune cassette di plastica rossa spuntavano da sotto il letto, fungendo probabilmente da guardaroba.

“Siete in cerca di un coinquilino?”- chiese lei evitando di guardarsi ulteriormente attorno.

"Certo..."- disse lui con indecisione, per poi gettarsi sul divano con un tonfo sordo ed accendere la tv.

"Puoi lasciarmi il suo numero di telefono lí, lo chiamo tra un po’"- continuó in uno sbadiglio, indicando con una mano alcuni pezzetti di carta attaccati allo sportello del frigorifero proprio sotto il lavandino della cucina, mentre con l'altra cambiava incessantemente canale.

Sulla macchina a filtro, proprio di fronte ad Ira, la caraffa si riempí di caffè, svuotando il serbatoio d'acqua in un gorgolìo che fece comparire e scomparire Kals come una specie di fantasma senza volto, in pigiama.

"Caffé?"- chiese Edou senza guardarla e senza servirla. L’odore gradevole invase presto la stanza.

Ira non rispose, ma prese una tazza pulita dallo scolapiatti e la riempí fino all'orlo.

“Non avete un bagno?”- chiese con indifferenza.

“Il bagno è in fondo al corridoio”- rispose lui, voltadosi di scatto verso l’altra stanza.

“Kaaaaals!”- chiamò subito dopo.

Lui arrivò dopo qualche minuto di silenzio, vestito e pettinato, la barba rasata ed i lunghi baffi aggiustati con un pizzico di cera. Si adagiò con timidezza sullo stesso divano, infossando la schiena ed unì le ginocchia con un fare quasi difensivo. Al confronto sembravano due esatti opposti l’uno dell’altro, ma sembravano capirsi in un linguaggio fatto di strani gesti.

Le ricordarono qualcosa, qualcuno.

Sorseggiò il caffè con lentezza cercando di scavare nella memoria un ricordo che non riaffiorò.

“Quale... Sarebbe la stanza in affitto?”- chiese Ira, in tono vagamente pensieroso e con leggero imbarazzo.

I due si guardarono, annuirono tra di loro ed alzarono contemporaneamente le spalle con un cenno indifferente.

“È... Questa”- disse Kals mostrando il soggiorno ed il letto in un angolo.

“Quattrocento dollari al mese, spese escluse”- aggiunse Edou con un ampio sorriso.

“Per un letto?! Vorrete scherzare! Ho appena perso il lavoro!”- commentò lei.

Kals guardò l’amico con perplessità.

“Duecento. Spese incluse”- continuò Edou, battendo una mano sul bracciolo del divano.

“Centocinquanta. Nessuno vi offrirebbe di più per una schifezza simile!”- contrattò lei, appoggiando la tazza sullo stesso tavolino dove lui stava appoggiando le gambe.

Kals incrociò il suo sguardo ed annuì, abbozzando un sorriso benevolo.

“Merda...”- sbottò Edou, mentre annuì con riluttanza all’offerta.

“Grazie!”- esclamò lei oltrepassandoli con soddisfazione ed appoggiando la borsa sul letto.

 

  
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