Il generale se ne stava lì in piedi, impettito, fiero, in solitudine sulla collinetta di ceneri.

I lunghi baffi grigi erano come trucioli d'argento; la sua pelle, ruvida e scura, somigliava ad una corazza di bronzo; per quei campi rasi al suolo i suoi occhi correvano falsamente orgogliosi saltando ora corpi privi di vita, ora fuochi, ora alberi abbattuti.

Il soldato si portò una mano al petto. Le sue dita erano tozze, le unghie corte, i calli dolevano ogni giorno di più poggiandosi
contro il metallo della medaglia conficcata nel tessuto della sua uniforme.

Il vecchio guardò l'orizzonte errando con la mente attraverso il fumo, la cenere, lo stridore di poco prima. Alzò gli occhi al cielo,
grigio e pesante, e si lasciò pervadere dall'estrema speranza che quel tetto irraggiungibile, prima o poi, sarebbe potuto cadere.

Il suo esercito lo aspettava e lui, mano al petto e sguardo determinato, stava ritto come un palo con i piedi puntati nel terreno,
i baffi dritti e ordinati, gli occhi neri in fiamme. Aspettava solamente un segno.

D'un tratto una goccia di posò sulla sua guancia fredda e liscia al punto che nessuno avrebbe saputo dire se fosse fatto di
marmo più l'involucro che il suo contenuto o viceversa.

Era in quei momenti, quando le lacrime del cielo cadevano su tutto nascondendo le gocce lasciate scorrere dagli occhi del
soldato, che si sentiva come se per tutta la sua vita – e così sempre sarebbe stato – la medaglia fosse stata infilzata non
tanto sulla divisa, quanto nel suo petto.
Fu un temporale rapido: così come venne se ne andò portando via quei rapidi istanti di umanità dal generale più di quanto
stare da solo non avrebbe potuto fare.

L'uomo si voltò, riprese in volto l'espressione rigida da battaglia, strinse il suo scudo e si incamminò lasciandosi alle spalle il
campo raso al suolo.


Nessun paese sarebbe mai stato annientato al pari del suo cuore.