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Autore: Polyjuice Potion    22/04/2015    2 recensioni
Gerard, un ragazzino di diciassette anni appassionato di serial killers e misteri irrisolti, trova davanti alla porta di casa una scatola contenente sette audio cassette. Per ogni lato di esse appartiene una vicenda legata a una persona che ha spinto Frank Iero a togliersi la vita. Tredici colpevoli, tredici storie diverse. E lui sarà obbligato ad ascoltarle tutte e ad aspettare il suo nome, a scontare la sua pena.
[Storia liberamente ispirata al libro "Tredici" di Jay Asher]
Genere: Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Frank Iero, Gerard Way
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Cassetta 1, lato A
 


Lascio cadere la scatola a terra non appena mi rendo conto di cosa contiene. Di solito non mi spavento molto facilmente, ma quello che vedo sulle cassette ormai obsolete ha tutta l’aria di essere sangue. Le tracce di un assassino? Un errore fatale? Mi chino a terra per raccogliere le cassette e mi chiedo chi mai le ascolterà. Chi possiede ancora un mangianastri? Assurdo. Ed è in questo momento che mi accorgo che il colore rossastro che le ha macchiate non è sangue di chissà quale vittima, bensì smalto rosso. Le giro una ad una e noto che sono numerate da uno a sette, con un altro smalto, questa volta di colore blu. Chi le ha spedite direttamente a casa mia deve essere un artista. Non c’è nessun indirizzo, a parte il mio, nessun nome. Non so chi le abbia spedite, né da dove arrivino.
Non so cosa farmene, così le rimetto tutte nella scatola e la richiudo con lo scotch. La appoggio sulla scrivania, indeciso su cosa farmene, e all’improvviso pensieri contrastanti cominciano a frullarmi in testa. Magari è una “capsula del futuro” alla quale gli abitanti del passato hanno affidato i loro segreti, e io me li sto perdendo. Mi passo una mano tra i capelli corvini ridendo e penso che, infondo, non ho niente da perdere. E soprattutto non mi costa nulla. Faccio mente locale su chi potrebbe possedere un mangianastri (qualcuno che non sia già morto, possibilmente) e giungo alla conclusione che il nonno deve per forza averne uno. Scendo le scale con la scatola sotto un braccio, le cassette che fanno rumore ad ogni passo. Un cd non starebbe stato meglio?
-Vado dal nonno. Ho bisogno di una cosa- butto lì a mia madre, intenta a cucinare il pranzo.
-E non mangi?- mi chiede lei, senza nemmeno staccare gli occhi dalle pentole e guardarmi in faccia.
-Se non ti dispiace pranzerei dal nonno, per oggi- e faccio per uscire dalla porta, quando la signora Way mi chiama di nuovo.
-Gerard!- urla, come se fossi sordo –cerca di tornare presto, devi studiare. La tua media sta calando e se non ti metti sotto rischi di…-
-Sì, mamma, lo so- la interrompo -Grazie per ricordarmelo ogni giorno-
-Un’ultima cosa, Gerard. Mi dispiace per il tuo amico- si gira, finalmente, e mi guarda negli occhi. Così tanto da far male.
-Non abbiamo mai avuto l’opportunità di parlarne. Lo so che è brutto perdere un amico, davvero, ma non puoi permetterti di smettere di studiare. Anche se è per colpa del dispiacere-
-Chi ti ha detto che voglio parlarne ora?- la mia lingua biforcuta colpisce ancora. E con questo, esco definitivamente di casa.
 
Imbocco la via del nonno in modo poco convinto, con un po’ di sensi di colpa. Ho appena preso la patente, devo ancora imparare molte cose pratiche. Ad esempio, come si parcheggia per bene. Lascio la macchina nel vialetto e tiro il freno a mano, che fa un rumore a dir poco disgustoso. Mi stropiccio gli occhi con una mano sola, mentre con l’altra cerco di tirare fuori la chiave.
Suono il campanello e ci vogliono tre minuti buoni prima che mio nonno senta e mi venga ad aprire. Tutto normale. Non appena lo vedo, gli sorrido e gli getto le braccia al collo. Lui ricambia. Non parliamo molto, noi due, è una relazione fatta di gesti.
-Bene, figliolo. Ti serve qualcosa?- mi fa togliere la felpa nera di un gruppo che ormai non ricordo neanche, dato che il logo sulla schiena non esiste più a forza di lavatrici e lavaggi a mano.
-In realtà sì. Ho trovato queste cassette in un armadio in soffitta, e mi chiedevo se tu avessi un mangianastri o qualcosa del genere- quanto sono bravo a raccontare balle? Appoggio la scatola sul tavolino in ingresso e non appena il nonno osa metterci una mano sopra, gli scocco un’occhiata che vale più di mille parole. Ritrae la mano.
-Vedo cosa posso fare-
Si ritira in quella che suppongo sia camera sua, o magari il ripostiglio. Nel frattempo, la curiosità cresce. Odio l’attesa. L’attesa è ciò che ti fotte. Bisogna essere pazienti e basta. Comincio a tamburellare le dita sul tavolo, già apparecchiato per il pranzo, e mi metto ad osservare le foto appese ai muri, dove una volta c’erano i quadri. Il nonna e la nonna, in ogni foto. I suoi nipoti, me compreso, sbucano ogni tanto, in qualche fotografia di Natale o del Ringraziamento. E’ bello pensare a quanto fossero legati, nonostante io abbia appena conosciuto sua moglie. Avevo quattro anni quando morì. Mi ricordo poco e niente di lei, solo qualche sorriso, lei che mi prepara il gelato il giorno del mio compleanno, io che dormo insieme al nonno, di pomeriggio, e lei che arriva per svegliarlo quando deve andare a lavorare. E basta. Quando il nonno ritorna, smetto improvvisamente di guardare le foto, e vedo con molto piacere che sta reggendo in mano quello che sembra davvero un mangianastri. SI’, CAZZO. Me lo porge con un sorriso, insieme a un paio di cuffie probabilmente risalenti alla preistoria. Mi chiede se ho fame e gli rispondo di sì, assolutamente. Ci sediamo entrambi a tavola mentre la pasta finisce di cuocersi e comincio a smanettare sull’aggeggio. Prendo la cassetta con il numero 1 pitturato sopra, premo EJECT e ci infilo la prima cassetta. Mi metto le cuffie, chiudo lo sportellino con un clic e premo PLAY.
Salve!
PAUSE.
Per un momento, sento le gambe cedere. Se non fosse perché sono seduto, probabilmente sarei caduto a terra. E’ lui. Mi è bastata quella parola, quel solo suono uscito dalla sua bocca, con quell’accento tanto British che lui amava (ama?) sfoggiare, fiero delle sue origini britanniche. Tossisco, non appena mi rendo conto che il nonno mi sta guardando.
-Sicuro di stare bene?- mi chiede. Le sue parole arrivano attutite alle mie orecchie, ancora coperte dalle cuffie. Me le tolgo.
-Io… sì. Mi sono appena ricordato che domani ho un compito in classe e devo assolutamente andare da un mio compagno per, ecco, rivedere degli appunti. M-mi dispiace, okay? Scusami. E grazie per questo- alzo il mangianastri e lo butto nella scatola e senza proferire altra parola, esco di casa.
 
Mi scaravento in macchina e lancio letteralmente la scatola piena di cassettine sul sedile di fianco a me. La mia testa sta scoppiando e le lacrime minacciano di uscire. Cristo. Magari mi sono sbagliato. Magari ho sentito male. Magari è stato solo un errore, tutto un errore. Per esserne certo, però, devo ascoltare quella cassetta, quella che ho iniziato. Avvio il motore e mi metto alla ricerca di un posto tranquillo dove poter parcheggiare e godermi a pieno questo incubo chiamato Frank Iero.
Alla fine, decido di accostare l’auto di fianco ad un parco giochi ancora deserto. E’ troppo presto per venire a giocare. Ma comunque, rimango in macchina. Rimetto le cuffie e dico addio alla mia sanità mentale.
Mi sembra quasi di vedervi. Le vostre facce sbalordite mentre ascoltate questa voce che in realtà il mondo non dovrebbe più sentire. Ne avete il diritto, di essere spaventati. Lo sarei anch’io. E comunque sì, sono Frank Iero e in questo momento sono morto. Cioè, in questo momento per voi… ascoltatori.
Non mi sbagliavo, prima. E’ davvero lui. Si sente un fruscio di sottofondo, come se Frank abbia indosso un mantello. Non so neanche se devo parlare di lui al presente o al passato e mi sembra di vivere un incubo. Me lo immagino, mentre registra queste sette cassette, magari per terra e al freddo, magari poco prima di uccidersi.
Vi chiederete il motivo, vi chiederete perché proprio voi. Ebbene, non voglio andarmene senza lasciare qualche traccia di me, del mio passaggio. E no, non voglio farvi sentire colpevoli, voglio solo rendervi un po’ più partecipi.
Colpevoli di cosa? Frank, in che cosa mi hai messo in mezzo? Comincio a giocherellare con il portachiavi della chiave dell’auto, sfogando la mia ansia su quel giocattolino.
Ecco, vedete…
Fa una pausa, probabilmente non sa quali parole utilizzare.
Dovrete mandare queste cassette alla persona che verrà nominata dopo di voi. Tutto qui. E se non lo farete… niente, se non lo farete, avrò la certezza che siete dei pezzi di merda, fino in fondo.
Prende un respiro.
Voi siete, in effetti, i motivi per i quali ho deciso di togliermi la vita. Esatto. In poche ore da adesso sarò morto, ma quando voi starete ascoltando queste registrazioni, io me ne sarò andato e non potrete fare niente per sistemare i vostri pasticci. Ma, alla fine, non è neanche tutta colpa vostra. Avete tutti agito da ragazzini quali siete, senza pensare alle conseguenze. Non fatevi prendere dal panico, non ora, perlomeno.
All’improvviso, un forte senso di nausea mi pervade lo stomaco. Sento stringere, stringere dappertutto, da dentro, non riesco a respirare. Mi accorgo di avere i denti stretti, serrati, e apro la bocca, prendendo aria. Io sono colpevole di averlo ucciso? Io, Gerard Way? Nell’ultimo periodo non avevo neanche parlato con lui, non ne avevo proprio niente a che fare. Purtroppo.
Bene, cominciamo. Professor Robson, lei è il primo.
Conosco Robson personalmente e non mi sorprende che l’abbia inserito in questa cosa. E’ l’allenatore della squadra di basket delle medie, nonché l’insegnante di educazione fisica.
Forse pochi di voi lo sanno, ma io arrivai qui nell’estate prima dell’ultimo anno di scuole medie. Non conoscevo nessuno, ma ero bravo nello sport, e così decisi di provare ad entrare nella squadra di pallacanestro. Nonostante io sia sempre stato basso di statura, venivo sempre preso. E credevo che sarebbe stato facile anche in America. Ovviamente, mi sbagliavo. Ero convinto che sarei riuscito a farmi degli amici grazie allo sport, ma lei mi ha impedito anche questo. Lo sa cosa si prova, ad essere da solo e preso in giro da un’intera squadra di basket? Non avevo nessuno e lei mi ha pubblicamente umiliato, e così non riuscì a farmi un amico che fosse uno, per tutta la fine delle medie.
Basso, solo e gay. Perché sì, oltre ad essere un tappo sono anche irrimediabilmente frocio. Non per molto, comunque.
Tipico di Frank. Non ha mai nascosto il suo stile di vita, al contrario mio, e questa è stata, per certi versi, la sua sfortuna.
Ma non stavo parlando di questo.
Ricordo quando mi presentai dopo scuola, in palestra. Ero stato tranquillo tutta la mattina, perché sapevo che sarebbe andato tutto bene. E invece, l’incubo stava proprio per cominciare. Stetti in spogliatoio con gli altri ragazzi, nonostante mi fossi già cambiato a casa. Li squadrai uno ad uno, ma non posso negare di essere rimasto colpito dal capitano. Aveva due occhi azzurri che mi fecero quasi paura. Li vedevo da lontano e brillavano come diamanti. E il modo in cui sorrideva…
Poco dopo, capii che il nome del capitano era Colton. Decisi che avrei fatto una bella, bellissima figura, davanti a lui. Ma sarebbe stato impossibile, perché lei aveva già iniziato a mettere in atto il suo piano distruttivo. Perché, Professor Robson? Perché? Dovevo farmi apprezzare, non detestare.
Vorrei potergli parlare. Dirgli che ci era riuscito, a farsi apprezzare, addirittura amare, da qualcuno. Sarebbe comunque troppo tardi, in ogni caso.
Quando entrai in campo, tutti gli altri ragazzi erano in panchina, tranne Sam Lopez e Josh Ward. Ciao, Sam, so che mi stai ascoltando anche tu. Non temere, il tuo turno arriverà prima di quanto tu possa immaginare.
Ricordo che la prima cosa che pensai fu “Oh no, sono dei giganti!”
Ride di gusto, anche se io non ci trovo nulla di divertente.
Lei mi chiese di presentarmi alla squadra, e così feci. Nessun ragazzo mi stava ascoltando. E’ la sensazione più brutta del mondo, quando si sta dicendo qualcosa di importante e nessuno presta attenzione, non trova? Deve essere abituato a queste cose, essendo un insegnante. E poi qualcuno disse che la partita poteva cominciare. Non seppi mai chi, non riuscii a riconoscere la voce. Non appena lei prese in bocca il fischietto, Sam iniziò a marcarmi. Mi spingeva, e non riuscivo ad intercettare il pallone che volava in alto tra i due giganti. L’altro ragazzo cominciò a fare delle finte. Faceva girare il pallone intorno alla testa, sotto alle gambe, senza mai spostarsi, il che rendeva il tutto molto più imbarazzante. Fino a che Lopez non segnò il primo canestro e senza neanche un po’ di fatica, dato che appena cercavo di spostarmi loro si chiudevano intorno a me, spintonandomi. Volò anche un pugno nello stomaco. Non riuscivo più a respirare. Mi girai verso di lei, prof, per chiedere di segnalare il fallo, ma indovini un po’? Stava ridendo. E anche di gusto.
L’aria stava davvero iniziando a mancarmi. I due ragazzi non si staccavano un attimo da me, che dovetti per forza di cose urlare un “basta!” soffocato. Uscii dal campo che non ci vedevo. Non so se sia stata colpa delle lacrime o dal respiro che mancava, ogni cosa risultava sfocata. Tranne Colton, che era forse l’unico che non sghignazzava di me tra tutta la squadra.
PAUSE.
Esco dalla macchina sbattendo la portella. Mi siedo sulla prima panchina che vedo nel parco ancora deserto e distendo le gambe, che tremano. Tutto questo è successo davvero? O è una storia dell’orrore completamente inventata? Perché Frank Iero era tutto fuorché fallimento. Fuorché lacrime. Lacrime che stanno sgorgando sul mio viso. I miei occhi sono ormai un fiume in piena e non ho fazzoletti né chissà cos’altro per farli smettere. Devo solo continuare ad ascoltare, anche se fa male, anche se è dura, perché alla fine è anche colpa mia se è successo quello che è successo.
Ripenso in fretta a tutto ciò che ho fatto nei miei diciassette anni di vita (quasi diciotto) che potrebbe averlo ferito. E in effetti, qualcosa trovo. Ricomincia la nausea, il senso di colpa, la voglia di scoprire di più e la paura di non farcela, di buttare queste cazzo di cassette giù dal primo ponte che trovo e dimenticare questo incubo. Ma se lo facessi, sarei un pezzo di merda. Lo ha detto Frank. Prendermi le mie responsabilità è il minimo che posso fare, così premo PLAY e finisco il lato A della prima cassetta.
Nessuno mi diede da bere, nessuno mi diede del ghiaccio sulla fronte, nessuno mi fece spazio per sedermi sulla panchina. Rimasi lì, accasciato sul pavimento sporco della palestra, mentre riprendevo fiato e ricominciavo a vedere. E lei continuava ad avere quel sorrisetto sulle labbra che mi disgustava così tanto. Lei lo sapeva che ero un bravo giocatore, lo sapeva. Non voleva darmi la soddisfazione? La soddisfazione gliela sto dando io, ora che mi sto per uccidere. Quindi complimenti, lei è stato il sassolino che si sposta e fa precipitare la valanga. Una valanga che mi ha travolto.
Ricordo ancora le sue precise parole, professore. Sono state come, non saprei, la conferma che il mio peggior incubo si stesse avverando? Più o meno.
Era una cosa tipo: “Mi sembra che tu ti sia divertito abbastanza, per oggi, tappetto. Se vuoi entrare nella squadra, cerca almeno di non morire soffocato per colpa di un ragazzo alto più o meno il doppio di te.”
E tutti risero, di nuovo. Colton compreso.
Uscii dalla palestra senza rivolgere sguardi a nessuno, dato che stavo ormai piangendo. Non mi reggevo in piedi. Quando tornai a casa dissi soltanto che la squadra non mi piaceva e che non ci ero voluto entrare. Fu la mia prima sconfitta, capisce? E mi ero appena trasferito da Londra. Mi ha rovinato, Robson.
C’è una lunga pausa e devo capire se il mangianastri si sia rotto oppure se Frank si sia dimenticato che tredici persone dovrebbero ascoltare queste cassette. Magari ci sta ripensando. Al suicidio, a questa messinscena.
Girate la cassetta.
 
 
Ok, magari potete essere scioccati. Lo so che dovrei aggiornare Nicotine e che sono davvero molto indietro, ma le mie lunghe notti insonni mi hanno portata a partorire questo. Vi consiglio vivamente di leggere il libro che mi ha ispirata a pubblicare questa storia, che ho amato alla follia. Ci tengo a dire che questa storia è sì una frerard, ma non aspettatevi cose troppe romantiche o troppo volgari, dato che è proprio un altro genere. Insomma, avete capito. Spero che questo capitolo vi abbia intrigato e che continuiate a seguire questa fanfiction. Ditemi che cosa ne pensato nelle recensione, cercherò di rispondere a tutti anche se ci metto sempre secoli e a volte non lo faccio neanche. Ma mi perdonate, vero?
Alla prossima (very soon)
 
-Sixx
  
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