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Autore: hikachu    23/04/2015    4 recensioni
Resoconto dei trentuno giorni che sconvolsero la vita di Usagi Tsukino, strappandola alla sua ordinaria vita da ordinaria liceale. Oppure: di come le favole siano solo sogni ad occhi aperti, e i mostri spesso si travestano da principi.
Genere: Angst, Drammatico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Demando/Diamond, Seiya, Un po' tutti, Usagi/Bunny | Coppie: Mamoru/Usagi, Seiya/Usagi
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Nessuna serie
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Capitolo II



2/8/1992, ore 23:40



Il petto di Petz trema. Ha il cuore che le batte all'impazzata e il respiro come se avesse appena corso una maratona. Ha i capelli in disordine, come non li lascerebbe mai vedere a nessuno. È disfatta, svestita, sbucciata; è se stessa in ogni senso, in ogni sospiro, in ogni gemito, senza nascondere nulla. Petz è innamorata.

Tende la mano con tenerezza, per toccare il viso dell'uomo che la sovrasta perché lo ama e vuole dirglielo in ogni maniera possibile, mentre lui le si spinge dentro con una di delicatezza che, all'inizio della loro storia, Petz aveva scambiato per una sorta di riguardo verso di lei, un sintomo d'amore e forse di uno spirito dolce, ma che poi aveva dovuto riconoscere come una caratteristica intrinseca a ciascuna azione compiuta da quest'uomo: l'esitazione tipica della preda, del perdente, che bluffa, indossando la maschera dell'indifferente o del bravo ragazzo. Saphir è più giovane di lei – un fatto che, a fasi alterne, rende Petz ammaliata, protettiva, poi insicura, forse un po' invidiosa – ma la vita l'ha bistrattato a sufficienza da un'età molto tenera perché si dovesse ingegnare e trovare un modo di farsi resiliente, e così ha preso ad imitare suo fratello, o perlomeno a provarci, cercando di trasformare i suoi occhi (blu, blu, blu come il mare profondo, e Petz si sorprende, a volte, a pensare che vorrebbe sprofondarci) in specchi che non riflettono nulla; cancellando ogni traccia d'emozione dal suo bel viso. Tuttavia—

“Hah,” con un sospiro, Saphir si accartoccia su se stesso, ma è fermo, non trema, è ancora padrone di sé: non si tratta di quella reazione primitiva che scuote un uomo o una donna posseduto dall'orgasmo. È un'azione cosciente e di difesa. Saphir piega la testa così da nascondere i propri occhi. Petz capisce. Lei sa già che questo è un preludio e sa che cosa avverrà dopo. Lo sa per esperienza e, spesso, quell'esperienza la rende nervosa, le fa desiderare di prendere a schiaffi Saphir, quest'uomo-ragazzo che in qualche modo, sciocca, si è trovata ad amare.

“Scusami,” dice lui, iniziando a distaccarsi, e lei deve stringere le mani, aggrapparsi con le unghie al lenzuolo per impedirsi di trattenerlo.

“Capita,” dice invece, come se non accadesse tanto, troppo spesso, tra loro. Petz è sempre stata molto diffidente con gli uomini, non ha avuto tanti amanti quanto le sue sorelle, eppure, i suoi trascorsi sono bastati ad insegnarle l'avidità del maschio, il suo cieco istinto a darsi piacere usando una donna, piuttosto che con lei; quel infantile narcisismo che l'aveva portata in primo luogo a disprezzare gli uomini, ma che aveva sempre ritrovato anche in quelli che aveva amato, in quei momenti in cui convenevoli e self-control si squagliavano: la neve delle apparenze sotto il sole della libido. In quei casi, l'aveva accettato a malincuore, come un male necessario, un sacrificio che l'avrebbe resa più cara a colui che, all'epoca, mentalmente etichettava già l'uomo della sua vita. Ma poi ne aveva avuto abbastanza. Si era odiata per quel compromesso più di quanto avesse odiato gli uomini che l'avevano usata, ed aveva incontrato Saphir, che sembrava diverso, che dava senza chiedere e che, in realtà, non si concedeva mai davvero. Si trattava di un altro suo aspetto che, in un primo momento, aveva suscitato tenerezza in Petz, l'aveva fatta sentire quasi in dovere di trattare Saphir come qualcosa di prezioso, che andasse, oltre che amato, preservato con cura, fino a quando non era stata costretta a realizzare che non c'era timidezza o riserbo in lui quando facevano l'amore; piuttosto, Saphir si era già dato a qualcuno che non era lei.

Saphir sospira di nuovo e si alza senza degnarla di uno sguardo. Petz lo guarda chinarsi a raccogliere i vestiti, indossarli con la nonchalance di un uomo che innocentemente si prepara per andare al lavoro, come se quello che l'ha abbandonata sul letto senza un orgasmo fosse un'altra persona. Dovrei lasciarlo, Petz pensa. Lo pensa almeno una volta al giorno, quasi tutti i giorni, però lasciarlo sarebbe troppo come perdere, dire a chi tiene prigioniero il cuore di Saphir: tieni, te lo rendo, sei troppo forte per me. È una becera questione di orgoglio, o così le piace pensare. Ci sono risvolti, tinte ignote in cui questo sentimento di ripicca va a sfumare; colori misteriosi che ad una seconda occhiata riuscirebbero familiari, su cui Petz proibisce a se stessa di soffermarsi. Non sarò mai più debole. Per lei, l'amore è ormai un gioco di forze, una lotta a chi riesce ad impadronirsi dell'impugnatura del guinzaglio.

Saphir continua a non guardarla mentre abbottona la camicia con cura. È un segno collaudato che non ha intenzione di restare nemmeno per dormire insieme. È l'ennesimo affronto.

La camicia è di seta blu notte, una tonalità che riprende i suoi occhi portandoli su una scala più cupa, come a svelarne al mondo le profondità. Sulle spalle brilla un fine apparato di cristalli neri e perline bianche. È un capo elegante ma appariscente, che stona su una persona come Saphir; non sul suo corpo longilineo o con i suoi lineamenti aristocratici, no, ma se lo si compara alle sue espressioni vuote, ai suoi gesti quasi robotici... lì è tutta un'altra storia. La camicia è stata ideata da una mente attiva e vivace, che vuole gridare al mondo: eccomi, sono qui, mentre Saphir vive, giorno dopo giorno, nascondendosi dietro i suoi stessi occhi vuoti. Dove si svela l'arcano di questo paradosso, dunque? Petz sorride sprezzante. La risposta le sovviene immediatamente, come un cadavere che sale a galla, ugualmente putrida ed indesiderata. Le torna in mente il sorriso impacciato di Saphir la prima volta che le ha detto, guarda, questa è la nuova linea di mio fratello; gli brillavano gli occhi di un orgoglio tale, che chiunque altro avrebbe creduto che stesse parlando di una sua creazione. Petz ne era rimasta accecata all'epoca. Aveva desiderato che Saphir potesse sorridere sempre in quel modo. Poi, aveva capito, e finalmente accettato, che quel sorriso era l'eccezione e che era riservato solamente ad una persona. Poi, a quel punto, le era crollato il mondo addosso, e lei lo aveva maledetto con tutte le sue forze.

Petz si tira a sedere, incrocia le gambe ostentando una sicurezza di sé tale, che a guardarla ci si potrebbe dimenticare che è nuda, sudata e ha il cuore spezzato. Emana l'aura di una donna dura ed esperta, il tipo che veste Chanel da capo a piedi e fredda i suoi subordinati con un battito di ciglia. È questa, d'altronde, la Petz che tutti conoscono. “È una camicia importante, quella,” commenta con le mani che frugano nella borsa alla ricerca di bocchino e sigarette. Scandisce le parole con artefatta noncuranza. La sua armatura è un patetico castello di carte, ma Saphir ha la coscienza sporca, tipica di chi ben sa di essere in torto, e non riesca a sfruttare il vantaggio che ha su di lei. Invece, si irrigidisce.

“Oh,” risponde stupidamente. Momentaneamente ignaro che si tratta di un grossolano errore. “È l'ultimo prodotto di Demando. Mi ha chiesto di provarlo per lui prima del lancio della linea.” C'è una scintilla nelle sue parole, una vivacità sommessa ma inconfondibile che era del tutto assente prima, mentre erano aggrovigliati l'uno all'altra.

Petz sistema la sigaretta – sottile, all'aroma di menta – in cima al bocchino e accende. Inspira una boccata con calma studiata. Cerca di concentrarsi sulla sensazione di vuoto che ha dentro. L'amarezza le ha strappato via ogni traccia d'amore o benevolenza per stasera. “Se ci tieni al suo profitto, allora, faresti meglio a mettere da parte i convenevoli, e dirgli che è pacchiana. Demando vuole osare senza sapere dove fermarsi. Vuole fare il rivoluzionario senza conoscere le basi. Forse, qui a Tokyo apprezzeranno il suo gusto per il kitsch, ma a Milano...? Intende forse tornare a Parigi, di nuovo con la coda tra le gambe?”

Ecco. Il volto di Saphir si fa grigio come cenere. Le ombre sotto i suoi occhi diventano più intense. Sembra in bilico tra il pianto e una fredda rabbia carica di intento malevolo. Ecco. Non c'è modo più efficace di fare del male a Saphir che fare del male a Demando. Petz assapora il veleno delle proprie parole sulla lingua; il sapore del mentolo perduto assieme ad ogni briciolo di razionalità. Nella sua testa, nel suo cuore, rimane solo un mantra di odio e di ossessione: ti voglio per me e voglio che tu soffra e se non posso averti, allora voglio che tu soffra ancora di più. L'amore è un coltello, una corona di spine, la spada di Damocle. Petz fuma, si nutre del suo stesso odio, maledicendo secoli di storie, favole e speranze che hanno dipinto l'amore come una panacea.

Lo sguardo di Saphir è gelido. Non è così che dovrebbe apparire un uomo innamorato. Saphir non riconoscerà i propri errori e non le chiederà scusa, non piangerà per lei, per il dolore che le ha causato e non implorerà perdono né sull'altare del suo corpo né su quello del loro amore. Non la salverà, non l'aiuterà. I principi del mondo reale sono ben diversi dalle loro controparti di carta. In questo istante, Saphir la disprezza. Saphir sorride un sorriso vuoto e crudele. “La ringrazio per il premuroso consiglio, ma queste non sono questioni che concernono gli impiegati del dipartimento pubbliche relazioni.” Tieni bene in mente il tuo posto.

Petz sobbalza. Una simile esternazione di ostilità è rara da parte sua. Forse, la odia davvero. Forse, lei ha dato troppo per scontato, e troppo a lungo, proprio quel carattere passivo che gli recrimina. Forse, ha commesso l'errore di perdere di vista il vero Saphir, quello che le aveva sorriso impacciato un giorno ormai lontano, dietro i veli e le ombre dei silenzi di lui e dei suoi stessi desideri. Delle sue stesse paure.

Saphir varca la soglia della suite senza aggiungere altro, senza lasciarle il tempo di rispondere in una maniera qualsiasi. Ora che Petz è sola, la stanza sembra improvvisamente enorme, pronta ad inghiottire lei, improvvisamente così piccola. Ah. Piccola. La parola le mette voglia di urlare. Piccola. Petz solleva il capo e vede se stessa, riflessa e prigioniera nel prezioso specchio con la cornice di legno scuro intarsiato. È pallida e aveva creduto, una volta, che quel pallore la rendesse graziosa, desiderabile come una bambola di porcellana, ma poi era nata Berthier, si era fatta grande, bellissima, e bianca come la luna, circondata da ammiratori, e Petz aveva capito che il suo pallore era smunto, spento, il risultato della fatica e dell'invidia di chi deve lavorare sodo per farsi notare. Lo sguardo di Petz si sposta sulla sua vita, sulle cosce, e ricorda con vergogna la settimana scorsa, quando ha provato il tailleur che aveva acquistato cinque anni prima, proprio per il colloquio con l'atelier Black Moon: non le era riuscito di tirare giù la gonna per bene ed era scoppiata a piangere. Petz ha il terrore di guardare ancora, di avvicinarsi e notare quei segni che la distanza le nasconde, per il momento. Le passa davanti agli occhi il volto di Koan, piccolo, a forma di cuore, con gli occhi grandi ed i lineamenti delicati: nessuno manca mai di complimentarsi con lei, soprattutto qui in Giappone, ed ogni volta, Petz si sente bruciare, morire.

Vorrebbe rompere qualcosa, sfasciare tutto; potrebbe farlo, se potesse smettere, prima, di badare minimamente alla propria reputazione, ma Petz è debole o ostinata, o tutte e due insieme, perciò continua a fumare, a nutrirsi del suo stesso odio. A consumare se stessa, in silenzio.
---

3/8/1992, ore 11:47


Usagi è stesa sul proprio letto. Ha il piede sinistro sollevato su un cuscino a forma di cuore, con i bordi in pizzo, ed una busta di ghiaccio sintetico poggiata delicatamente sulla caviglia: a questo punto non è che una puntigliosità; sua madre che cede alle sue preoccupazioni congenite da mamma chioccia e all'espressione da cucciolo bastonato di Usagi quando le ha detto, beh, direi che sia a posto ora, non credi sia ora che ti alzi, ma ad Usagi, nata in una modesta famiglia che vive di un solo stipendio e con un fratello minore che l'ha presto costretta ad abbandonare i privilegi da figlia unica, capita di rado di poter fare la principessina, dunque ha tutta l'intenzione di approfittarne, finché gliela faranno passare liscia. Gongola e ridacchia, immaginando come, a pranzo, esigerà che Shingo le porti le pietanze – tutte tra i suoi piatti preferiti, perché è convalescente – in camera, su un vassoio, e guai se farà cadere anche solo un goccio d'acqua dal bicchiere preferito di Usagi, un cimelio dei tempi dell'asilo, decorato con coniglietti bianchi. Dopo, chiamerà Ami; mugolerà che si annoia e si sente sola, e suggerirà che la solita riunione pomeridiana si faccia in camera sua, piuttosto che al tempio di Rei; alluderà a quei manga che l'altro giorno aveva adocchiato nella stanza dell'amica, prima che la costringessero ad uscire, e farà tutto con estrema discrezione, parlerà senza parlare, suggerirà senza parole, cosicché Ami si ritrovi a pensare che le idee di Usagi sono in realtà le sue. Si potrebbe dire, in un certo senso, che quando si è estremamente pigri e tonti si ci ritrova costretti a sviluppare un altro tipo di furbizia, invisibile al resto del mondo tranne che a quelli che fanno parte, a loro volta, delle file di una simile feccia, se si vuole andare avanti senza dover cambiare se stessi e fare sforzi reali.

Si trattava, all'epoca, di qualcosa di cui mi compiacevo: per me che non possedevo né talento né carisma né bellezza, portare a termine con successo questi piani infantili era motivo d'orgoglio, anche se non avrei mai potuto vantarmene con nessun altro. I miei genitori non avrebbero mai potuto esclamare con gioia, nel mezzo di una discussione con i vicini, oh, la nostra Usagi è riuscita a farsi aiutare con i compiti dalla studentessa più brava dell'istituto dopo che questa aveva promesso che non l'avrebbe mai più fatto!, eppure, sentivo spesso che avere quel singolo appiglio, per quanto piccolo, per quanto meschino, mi stesse salvando dall'angoscia più totale. Quando l'ansia per il futuro minacciava di sommergermi, potevo illudermi che me la sarei cavata, che potevo farcela anche da sola, che sarei potuta diventare una donna indipendente che Mamoru sarebbe stato fiero di portare all'altare; che un giorno, guardando alla persona che sarei stata allora, mia madre si sarebbe scusata per tutte le accuse di inettitudine che mi aveva rivolto tra infanzia ed adolescenza. Andavo avanti nutrendomi di fantasie, per allontanare fantasmi rovinosi di un avvenire infelice, ma anche per chiudere gli occhi davanti al presente.

Diverse settimane prima, le ragazze mi avevano messo tra le mani alcune brochure informative sulle università che stavano vagamente puntando. Pur condividendo i miei timori ed incertezze, si erano fatte forza, pensando che riuscire a prendere una decisione insieme – quantomeno per non allontanarci più del necessario – fosse più importante. A me erano tremate le mani. Non appena avevo intuito cosa fossero quei fogli patinati, mi era saltato il cuore in gola. Avevo forzato un sorriso e le avevo spinte di forza nella cartella, senza preoccuparmi di evitare che si spiegazzassero. A casa, le avevo nascoste in un cassetto che aprivo di rado, e nei rari momenti in cui mi dicevo, ehi, smettila di fare la stupida, prendi quei cosi e datti una mossa, mi bastava uno sguardo a quel cassetto perché mi salisse il vomito nervoso. Ero un disastro e non sapevo rendermene conto. Ero una bambina. Avevo bisogno di essere onesta, parlare con qualcuno e affrontare il macigno che avevo in petto a testa alta, ma ero una bambina e non sapevo nulla e mi dicevo che dovevo essere forte per essere all'altezza delle persone che amavo; del mio amore, più di ogni altro, che, maturo, adulto, incredibile, indistruttibile, era volato via da me per inseguire un sogno tutto suo.

“Non posso essere da meno,” mormoravo a me stessa. Forse, sarei scoppiata a piangere (accadeva di frequente, quando quel genere di pensieri m'assaliva nella solitudine completa), se mia madre non fosse entrata nella stanza, rumorosa e priva di ogni delicatezza o riguardo, come un ciclone. Hai preso da Ikuko, mi diceva a volte mio padre, sorridendo con un'aria un po' malinconica.

Ikuko urla. “Usagi!” urla. “Ancora a letto?”

Usagi piagnucola. “Ma, mamma, il piede...”

Ikuko non ammette scuse. “È a posto, il piede, ora! Su, alzati e vestiti come si deve: abbiamo ospiti a pranzo!”

“Ospiti?” Usagi sgrana gli occhi: nessuno l'aveva avvertita. Cosa significa tutto questo? Che ne è della sua giornata all'insegna delle coccole e del relax? Non sa nulla e tutto ciò che può fare è osservare sua madre mentre gira intorno al letto e spalanca le ante dell'armadio, pronta a frugare e priva di fiducia nelle scelte stilistiche di sua figlia. Deve trattarsi di una persona importante. “Chi è, mamma?”

Ikuko sospira. Si ferma quasi di colpo, come una marionetta cui hanno tagliato i fili di netto.

“Tuo padre ha ricevuto l'incarico di intervistare uno stilista emergente, venuto in Giappone appositamente per presentare la sua linea ma pare ci sia stato un disguido con l'albergo presso cui avrebbe dovuto soggiornare. È stato un bello shock per gli sponsor, quando proprio lo stilista ha proposto di usare casa nostra come base temporanea, almeno fino a quando non sarà tutto risolto.”

Il cervello di Usagi inizia a friggere: uno stilista, praticamente un divo, nella sua casa, per pranzo, e lei non ha nulla di adeguatamente elegante da mettersi, no, peggio, i suoi capelli hanno bisogno di uno shampoo che però era programmato per il bagno di stasera ché ci mettono una vita ad asciugarsi per bene, e poi, dov'è il lip gloss, quello di marca, che aveva comprato a Shibuya di recente, con i glitter—ah, ce l'ha ancora Minako, quella scroccona!

“Perché non mi hai avvertita prima?” urla mentre con un balzo scende dal letto per dare man forte a sua madre. La busta del ghiaccio volta, fa piroette in aria assieme al cuscino a forma di cuore; dimenticata.

“Tuo padre mi ha chiamata appena un minuto fa.” Ikuko sfoggia un sorriso stanco che rivela, infine, la stanchezza e la preoccupazione celate dal suo solito fare, un po' burbero e un po' irruento. Conoscendo suo padre, Usagi immagina che anche Kenji debba essere preso dall'ansia: sarebbe d'altronde facile, per il caporedattore, prendersela con lui, qualora l'illustre ospite dovesse decidere che la calda ma casareccia accoglienza di casa Tsukino non è di suo gradimento.

“Tesoro, quando hai finito di prepararti, va' al Crown e prendi una torta—oh, forse, però, servire dolci in stile occidentale a qualcuno che proviene dalla Francia sarebbe sciocco—Dici che dovremmo prendere qualcosa di più tradizionale? Però è possibile che non li apprezzerebbe, forse, il divario tra le due culture è troppo—”

La testa impigliata in una camicetta con i bottoni finti e il collo alla Peter Pan, Usagi mugola, nervosa, un “Mamma!” che però viene fuori come un “Mmmmphmph!”. Se Ikuko perde il controllo ora, è certo che colerà tutto a picco con lei. 

“Oh—Oh, giusto, tesoro, hai ragione, non so cosa mi stia prendendo. Ti lascerò i soldi sulla scarpiera nel genkan, mi raccomando, usali tutti per la torta, niente frappè o parfait o videogiochi, intesi? Torna subito!”

La fronte e le sopracciglia di Usagi emergono tra i pizzi del colletto e si piegano in avanti, in un cenno d'assenso. È una buona cosa che Ikuko non possa scorgere l'espressione contrariata di sua figlia.
---

Sulla via del ritorno, il rancore di Usagi verso le sfortunate circostanze odierne e il divieto di sua madre brucia ancora. Il sole di mezzogiorno non fa che nutrire quelle fiamme ruggenti e, in un paradosso che nulla ha di metafisico, nemmeno i litri di sudore che sta versando riescono a lenirle. Insomma, appena l'altro ieri, era stata costretta nel ruolo d'inserviente dalle sue amiche, ora da sua madre che, aggiungendo al danno la beffa, la spedisce al Crown senza neppure darle il tempo (o i liquidi) per una partita a Street Fighter od un parfait al cioccolato. Certo, Motoki, che è un angelo ed anche il miglior amico di Mamoru, ha avuto pietà di lei, offrendole una soda con una pallina di gelato, ma, si sa, se non hai tempo per gustarle, le cose deliziose perdono una buona parte del loro appeal.

Alle 12:12 di quel 3 luglio, Usagi procede, dunque, verso casa, un broncio tremendo sul viso rotondo che, a diciotto anni, ancora conserva qualcosa di bambinesco, e la scatola bianca contenente la torta (con panna, fragole e cioccolato, la sua preferita) che dondola, appesa per il manico alle dita della mano destra. Se si volessero quantificare gli eventi che, a quel punto, stanno ormai per prendere piede; se li si volesse ridurre ad una stringa di fredde lettere che descriva l'inevitabilità di quegli accadimenti, lasciando da parte sentimenti ed esperienze personali, si potrebbe descrivere ciò che accade alle 12:13 come 'Regola Y': la seconda condizione, inevitabile e necessaria, affinché si apra il sipario su questa tragedia d'agosto. La Regola X, il principio di ogni cosa, è un evento già accaduto, ma si paleserà ad Usagi, nella sua vera natura, soltanto molto – troppo – tempo dopo.

La strada che Usagi sta percorrendo è piuttosto stretta; pertanto, essa è costeggiata da un solo marciapiede. Vi è un solo bus che si ferma in questa via perlopiù residenziale, una navetta che percorre lo stesso, breve percorso circolare ad intervalli di quindici minuti, come un serpente che si morde la coda. La fermata, trattandosi di un mezzo con utenza ristretta, avrebbe dovuto avere in dotazione il solito cartello ed una pensilina per difendere dalle intemperie le persone in attesa, tuttavia, il comitato di quartiere, visto il gran numero di anziani residenti in zona, aveva fatto richiesta per, ed ottenuto, l'aggiunta di una panchina. È questa panchina che sta per divenire un punto chiave di questa vicenda, perché è su di essa che, passandovi accanto, Usagi scorge un oggetto, un quadrato dagli angoli smussati, scuro, attaccato ad un portachiavi a pallini che scintilla sotto il sole. Usagi, per sua natura curiosa al punto d'essere impicciona, ovviamente devia dal suo percorso e si avvicina.

“È un cercapersone,” mormora a se stessa mentre scruta l'aggeggio tra le proprie mani, raccolte a coppa. Deve trattarsi di uno degli ultimi modelli: la madre di Ami aveva ceduto il proprio alla figlia dopo aver acquistato un costosissimo cellulare, ma persino quel modello, che aveva suscitato l'invidia delle altre compagne di classe, sembra chiaramente inferiore a questo. Per un momento, Usagi prova ad immaginare la persona che ha potuto permettersi, non solo di acquistare, ma anche di perdere un cercapersone d'avanguardia. È possibile che si tratti di qualcuno talmente ricco, da trattare simili oggetti con la massima noncuranza. Una ragazza comune come Usagi ne sarebbe molto gelosa. Così, pensa lei, se me lo portassi a casa, gli starebbe bene. Ridacchia immaginandosi a sfoggiare l'apparecchio davanti alle amiche, Minako che la prega di lasciarglielo tenere in mano e Rei che lo fissa con la coda dell'occhio ed un'espressione di indifferente disdegno, per nascondere il proprio interesse. Poi, un suono acuto interrompe il sogno ad occhi aperti e la fa sobbalzare: lo schermo del cercapersone si illumina di verde mentre il beep-beep continua. “Ah! No, no! Giuro che non l'avrei preso davvero!” Usagi è nel panico; cerca maldestra un tasto che le permetta di mettere fine al rumore, prima che attiri l'attenzione di qualcun altro: si sente come un ladro colto in flagrante e, sciocca com'è, in quel frangente crede sul serio che potrebbe essere arrestata per aver raccolto una cosa non sua.

Il beep-beep cessa da solo. Usagi ha appena il tempo per tirare un sospiro di sollievo quando un altro segnale sonoro la fa urlare. Lo schermo si accende nuovamente, ma, questa volta, una serie di numeri attira l'attenzione di Usagi, distraendola momentaneamente dalle sue prospettive catastrofiche: 105216. Usagi legge a voce alta: “Dove sei?” e subito dopo, 1019: “Adesso arrivo!”. Qualcuno la sta cercando, o forse sa già dov'è, deve trattarsi del proprietario del cercapersone, ma come ha fatto ad indovinare le poco pure intenzioni di Usagi che, colta di nuovo dal panico, dimentica l'idea di rimetterlo sulla panchina e darsela a gambe, e digita un messaggio di risposta, irrazionalmente convinta che un qualsiasi altro corso d'azione le costerebbe caro: 021016, ti aspetto. Usagi preme invio e si lascia cadere, esausta, sulla panchina galeotta; è come se, a un tratto, non avesse più la forza per nulla, nemmeno per preoccuparsi. Dopo circa un minuto, segue un messaggio che, sorprendentemente, è scritto in hiragana: sei alla fermata. Usagi compone una risposta affermativa e torna ad aspettare, ancora più agitata e curiosa di prima: gli apparecchi in grado di utilizzare i kana sono rari e a dir poco dispendiosi. Sembra che il proprietario sia una persona ancora più fuori dal comune di quanto avesse già ipotizzato.

L'orologio da polso di Usagi segna le 12:21, quando una sagoma sbuca dall'angolo della strada e si dirige, correndo a tutta velocità, nella sua direzione. Usagi si trova, così, faccia a faccia con una figura tanto misteriosa quanto surreale, il tipo di persona che esiste solo nel mondo delle riviste patinate o dei manga per ragazze: abiti alla moda che danno nell'occhio, capelli lunghi ed ossigenati; l'espressione aggressiva del delinquente che marina la scuola in linea con tutto il resto, ma il viso è troppo pulito, i lineamenti troppo delicati. Qualcosa qui stona. Questo ragazzo che la guarda in cagnesco con le mani sui fianchi sembra un principe.

“Beh?” sbotta lui: ha una bella voce, ma il tono rompe l'incantesimo. “Ti sei incantata? Il cercapersone dov'è?”

“Senti un po',” comincia indignata Usagi: la rabbia ha soppiantato ogni traccia di timidezza o soggezione in lei. Non sia mai detto che Usagi Tsukino si lascia calpestare dal primo arrivato solo perché ha un bel faccino.

“Yaten!”

A quel richiamo, il principe-delinquente si volta di scatto, come un bimbo colto con le mani nel vasetto della marmellata. Usagi sbatte le palpebre e torna a guardare nella direzione da cui era sbucato poco prima, scorgendo, questa volta, ben due sagome che si avvicinano a passo svelto.

“Yaten, si può sapere cosa diamine stai combinando, ad urlare così in pubblico?” la sagoma più alta, un ragazzo con gli occhi seri e la fronte larga, parla con un tono non molto differente da quello di una madre sfinita dinnanzi all'ultima marachella del figlio. “Hai intenzione di mettere di nuovo la compagnia in difficoltà?”

Yaten stringe i pugni. “Taiki! Questa qui ha rubato il cercapersone di Seiya!”

Quello che, per esclusione, deve essere Seiya, squadra Usagi per un lungo istante da dietro i suoi occhiali scuri – Rayban in stile aviatore – con un'espressione indecifrabile; poi, per qualche motivo, sorride; Usagi si sente vagamente presa in giro e aggrotta le sopracciglia. Seiya circonda con un braccio le spalle di Yaten, gli scompiglia i capelli con un'aria da fratello maggiore. “Ti ringrazio per la premura, fratellino, ma devi aver preso un abbaglio. Dico, l'hai vista? Ti pare che una bimba con gli abiti da bambolina e un paio di odango in testa possa mai rubare niente a nessuno?”

“Seiya!” l'atteggiamento accondiscendente ha reso Yaten ancora più furioso e Usagi, presa da una strana sorta di empatia per il suo ex assalitore, pensa che non le dispiacerebbe dargli una mano nel riempire di pugni la faccia di questo Seiya. “È precisamente perché sei così, che continuiamo ad accumulare stalker!” Usagi sente, con molta chiarezza, una vena particolarmente grossa che le pulsa, sulla fronte, come in procinto di scoppiare. Questi due meritano di essere riempiti di pugni entrambi. Calma, Usagi, calma, si dice, distaccata ed elegante, distaccata ed elegante, dimostra a questi zotici chi sei veramente. Il problema, tuttavia, è che la vera Usagi è appunto una ragazzina – una bimba – che ha sempre fatto fatica ad imparare le buone maniere e a non lasciarsi coinvolgere in discussioni infantili.

“Ehm,” tossicchia artificiale, goffa. “Le vostre liti mi riguardano ben poco,” scandisce, cercando di ricordare il linguaggio di Ami e Mamoru quando sono impegnati in qualche dissertazione o la stanno riprendendo per una delle sue mancanze. “Riprendetevi questo affare e non mi seccate più!” lancia dunque il cercapersone verso i due litiganti e, prima di voltarsi verso la strada, intravede Yaten fare acrobazie per afferrarlo. Usagi cammina a testa alta, svelta e decisa, verso casa. Con l'aria di una signorina ben educata, solleva il polso sinistro per dare un'occhiata all'orologio – quadrante rotondo e delicato con due sottili strisce di cuoio: un oggetto fine; un regalo di Mamoru – che, questa volta, le rivela un ritardo assicurato, se non si mette subito a correre con tutta l'energia che ha in corpo. Usagi ritorna così se stessa, la ragazzina che non ha nemmeno tempo di fare colazione perché si sveglia sempre troppo tardi, e corre, fino al cancello di scuola, con un toast in bocca; l'immagine della tipica protagonista di shoujo manga, pasticciona al punto giusto da essere vicina alle imperfette lettrici ma con una vena comica che trattiene il tutto dal farsi troppo realistico.

Seiya urla, le mani a coppa intorno alla bocca: “Ehi, testolina buffa! Fermati! Ti offro un parfait per farmi perdonare!” ma Usagi è già troppo lontana, troppo presa dall'ansia che l'immagine, sin troppo familiare, di sua madre che dà i numeri le provoca.

Usagi corre, corre, corre. Eppure, il destino l'ha già raggiunta.








 


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