Prima di leggere: questa storia è correlate a 1998,
per cui per capirla è necessario conoscere il contesto in cui è inserita. Chi
non conosce quella storia (e non ha voglia di leggerla :P) può comunque
prendere questa per quello che è: una sorta di analisi (o meglio opinione
personale) sul perché Vegeta e C18, in qualsiasi universo li si metta, non
potrebbero mai stare insieme (sempre secondo il mio modesto parare).
Per chi segue 1998, i fatti si svolgono nel giorno dopo il ballo; C18 è
già stata da Bulma e Vegeta torna a casa dopo essere stato al parco. Insomma, i
fatti narrati sono legati all’ultimo capitolo pubblicato.
Spero di non essermi spinta troppo in là con i contenuti, che
questa one-shot chiarisca in modo logico alcuni avvenimenti dell’altra storia e
beh, spero che vi piaccia. Fatemi sapere pure cosa ne pensate, nel bene o nel
male. Buona lettura!
La
zattera
Say after me
It's better to be safe than sorry
(A-Ha,
Take on me)
La resa dei conti era infine ad attenderlo seduta davanti
al portone di casa. Andarsene non lo sfiorava affatto e, senza tentennare,
camminò fino a lei a passo sicuro. Non aveva paura di affrontarla, né temeva le
sue lacrime, seppure in genere le situazioni patetiche gli piacessero davvero
molto poco. D'altronde, piacevano ancor meno anche a lei. Per questo, fu con un
certa curiosità che si avvicinò alla ragazza.
Diciotto si alzò in piedi, inconsapevolmente tenera nella cura con
cui aveva scelto i vestiti che, sapeva, le calzavano meglio; decisamente
irritata per l’incuria con cui era stata trattata. Non c’era tuttavia bisogno
di spiegarle il significato della disperazione. Ed era così successo che la
loro somiglianza fosse giunta infine a toccare anche le fibre più vive e
violente dei loro animi, diventati irrecuperabili. Insalvabili. Insieme,
sarebbero affogati: tutta quella rabbia era troppa per entrambi, incapaci di bilanciarsi
sulla zattera delle loro vite. Lo sapevano.
«Bel taglio.» Le disse, passandole una mano sulla nuca. Lei
accolse quel gesto senza scomporsi, se non nello sguardo.
«Mi fai salire?»
Dalla nuca spinosa, la mano scese sul suo fianco spingendola oltre
il portone appena aperto. Un breve contatto destinato a spegnersi nel buio
dell’umido atrio. In silenzio, distanti, salirono la scalinata di marmo, fino
all’appartamento che spesso aveva ascoltato le ribellioni dell’uno e dell’altra
a quel patto tacito che nessuno dei due chiamava “relazione”. Nulla era dunque
stato davvero infranto se non il rispetto che entrambi avevano creduto
reciproco.
Appena in casa, la ragazza sfilò il giubbino lasciandolo con
familiarità sulla poltrona. Nella fluida accuratezza dei suoi gesti sommessi,
svelava, consapevole, il risentimento che di lì a poco sarebbe fluito in un
discorso essenziale.
«Sei un egoista, Vegeta.»
«Opportunista.» La corresse. «Avresti fatto lo stesso, se ti fosse
servito.» Aggiunse.
«A te, invece, non è servito!» Lo prese in giro, il riferimento ai
suoi lividi era chiaro. «Meriteresti una sculacciata.»
Non le rivolse nemmeno un sorriso forzato o un ghigno di sfida,
raggiunse il divano e lì si sedette.
«Cosa vuoi, Diciotto?» Accese la televisione e senza interesse si
rivolse allo schermo, terzo incomodo di una conversazione scomoda.
Erano già terribilmente lontani, come lo si può essere solo alla
fine di una relazione non ancora annunciata ma chiarita da tempo. Eppure, di
parole da dirgli lei ne aveva eccome; ma nessuna di questa sarebbe stata
d’amore. Piuttosto, d’angoscia per l’incertezza di una promessa venuta meno e
mai davvero suggellata.
Soffocava. Decise di aprire la finestra, seguita dall’ingombrante
indifferenza dell’altro a cui doveva trovare aria. Servì solo a perdere le
proprie parole nel clacson di una macchina di passaggio.
Vegeta non le sentì e non le chiese di ripetere; sarebbero state
comunque inutili a cambiare il suo punto di vista.
Diciotto, con la schiena alla strada, le braccia puntate alla
ringhiera odorosa di ruggine, lo osservava e attese invano. La brezza le soffiò
sulla testa nuda e in quella carezza trovò l’illusione di sentirsi i capelli
scompigliarsi sul volto, come chi ha perso un arto. Non le piacque e da quel
soffio ebbe la spinta per sedersi sul divano anche lei. Fianco a fianco, non li
aiutò ad avvicinarsi.
«Mancano i presupposti.» Commentò, saputo, Vegeta, che sfilò gli
occhi dallo schermo per puntarli sul quadro cittadino alla finestra. Lasciò il
divano e le posizioni si invertirono, con lei seduta al suo posto. «Poi non
siamo mai andati fino in fondo. Mi pare questo suggerisca molte cose.»
Molto era lasciato ai pensieri, in quella conversazione
tratteggiata in cui entrambi erano sotto il giogo della vergogna. Lasciar
fluire ciò che ciascuno dei due sentiva era impossibile, né le loro lingue
erano state allenate a raccontare amore, che dopotutto non avevano mai fatto!
Blocco insormontabile questo, su cui scontravano le loro toccate spinte nel disamore
che serbavano per se stessi e che non poteva essere scambiato nemmeno per
passione. Non c’era mai stato un languido trasporto tra loro, quanto il bisogno
disperato di imporsi l’una sull’altro, l’uno per l’altra, a leccar ferite
piuttosto che pelle. Non sarebbero mai riusciti a curarsi. Non a vicenda,
almeno. Alla deriva avrebbero dovuto spingersi, per salvarsi e, senza remore,
aggrapparsi ma alle braccia di altri.
«Arrivare fin lì mi dà fastidio.» Rispose Diciotto, con una
collera rivolta a qualcuno che non era in quella stanza. E non c’erano parole
più semplici di quelle per descrivere una situazione familiare inadeguata.
«Non posso farci niente.» Replicò Vegeta a sua volta. Aveva provato
ad aiutarla, ma per fare l’amore bisognava prima conoscerlo, l’amore, e lui non
ne sapeva abbastanza da poter tergere la coscienza di qualcun altro. Si
perdeva, in quegli attimi, tanto quanto lei ed entrambi finivano per ripudiarsi
a vicenda, inappagati, affamati, dopo aver sudato di voglia e testosterone. Se
per l’una era vergogna nel letto, l’altro vi trovava la propria pochezza.
Allora la rabbia li prendeva, per ragioni diverse ma nello stesso
momento, e diventano una cosa sola e allo stesso tempo distanti, inappropriati.
Arrivava quindi il momento di abbandonare il letto, sulla zattera però restavano:
quel mare era immenso, e loro i porti lontani ma, soprattutto, inesistenti.
Tuttavia, insieme non avrebbero proprio saputo come nuotare
avanti, se non per silenziose supposizioni.
«Dovremmo andarcene.» Disse Diciotto che serbava scarse speranze in
quella proposta. Aveva preteso una salvezza che Vegeta non voleva darle, non
poteva assicurarle; era abbastanza intuitiva da capirlo.
Al contrario, lui aveva avuto il coraggio di venderla a Cell, un
affronto che però perdeva importanza se aggiunto agli altri: il buio non
spaventa se ci si nasce e lei non aveva mai visto che quello. Pensò a suo
padre. «Diciassette vorrebbe ucciderlo.» Aggiunse e, finalmente, qualcosa in
lei si sbloccò e la rabbia defluì via, scorrendo nella prospettiva di
un’allettante libertà. Tuttavia, la realtà tornò a ricordarle che i mezzi
mancavano e la rabbia la raggiunse di nuovo. Ma in quale universo
sarebbero stati forti abbastanza da ribellarsi?
«Accetta la proposta.» Disse Vegeta, cambiando discorso.
Finalmente si staccò dalla ringhiera, e lei si staccò dal divano e insieme si
ritrovarono in mezzo alla stanza, a guardarsi negli occhi. Agli azzurri di lei
mancava di certo qualcosa; quelli di lui non avevano dolcezza. Sfumature di
nero e di azzurro che già per loro splendevano nello sguardo di altri.
«Poi dove andremo?»
«Mi riferivo all’altra.»
«E tu?»
«Io non ho scelta. Ci sono già dentro.» Cacciò banconote e
spiccioli dalla tasca dei jeans e tentò di lanciarli sul tavolino da tè,
distante da lui pochi passi. Gli spiccioli caddero pesanti a terra rotolandosi
per la stanza, le banconote, in mazzo, arrivarono disfatte a destinazione. Come
sempre, la conversazione aveva preso altri scomposti flutti, per evitare
l’impatto con le loro vere emozioni, che rimasero implose e inesplorate,
ancora, per reciproca inettitudine. La forza, di cui avevano bisogno, mancava
ad entrambi.
«Se Freezer lo scoprisse cosa direbbe?»
«Che comunque non sarebbe abbastanza.» Ci scherzò su tiepidamente,
ma era vero che l’usuraio avrebbe chiesto sempre di più e di modi per pagarlo
non ne aveva. E pensò che mentre suo padre era morto, lei avrebbe voluto il suo
morto.
I due giovani rimasero vicini, le parole non dette ricaddero al
loro fianco. La disperazione avanzò nella loro solitudine. Ecco, insieme, erano
incapaci di farsi compagnia. Una consapevolezza che raggiunse a fulmine
entrambi. Si sentirono soli.