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Autore: danilodenardis    24/04/2015    0 recensioni
[Sport, calcio]
PICCOLO OMAGGIO AD UN GRANDE PERSONAGGIO E AD UN CALCIO CHE, PURTROPPO, NON ESISTE PIU'. E' LA STORIA DI UN INCONTRO REALE AVVENUTO TANTI ANNI FA E DI COME UN RAGAZZINO TIFOSO DELLA LAZIO SI INNAMORO' DI QUELLO CHE SAREBBE DIVENTATO UNA BANDIERA DELLA ROMA.
Genere: Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“PER SEMPRE, IL MIO CAPITANO.”
Di Danilo De Nardis
 
 
 
‘’L'uomo saggio impara molte cose dai suoi nemici.’’ 
Aristofane
 
 
 
Ci sono piccole storie che devono essere raccontate. In un mondo invaso dal futile, dall'apparire e dal cercare sempre qualcosa di sbagliato nel proprio antagonista, sia esso il proprio partner o il proprio collega di lavoro, un gesto semplice può toccare il cuore e renderti una persona migliore.
Chi tenterà di farlo, non è uno scrittore professionista, ma un semplice appassionato che serba ancora nel cuore, e lo farà fino alla fine dei suoi giorni, questo piccolo episodio della sua anonima esistenza dove il calcio, nel bene o nel male, n’e’ stato la colonna sonora scandendo forse meglio di qualsiasi altro misuratore del tempo ogni singolo momento, dal più effimero al più importante. E a volte in quelle strane sere dove le piccole e grandi tempeste della vita sembrano avere il sopravvento, piccoli episodi del passato, timidi squarci di sereno, come quello che mi appresto a raccontarvi, ti rasserenano l’anima e ti fanno pensare che, nonostante tutto, sei stato un uomo fortunato. Ed eccolo, in poche righe, il mio pensiero felice che riesce ancora a farmi volare come quel bambino con quella buffa calzamaglia verde, narrato da J.M. Barrie agli inizi del secolo scorso.
"La scelta"
Spiegare cosa vuol dire tifare una squadra di calcio ad una persona cui questo sport non interessa minimamente, è cosa molto ardua.
E' una follia che ti entra nell'anima, che agita i tuoi sogni di bambino, che ti fa' sentire caldo sotto una nevicata e completamente ghiacciato in piena estate.
Ci s’innamora da bambini di questo stramaledetto “passatempo”, tirando i primi calci ad un piccolo e leggero pallone. Poi si comincia a calciare qualsiasi cosa s’incontri nel proprio cammino, cercando di emulare gli eroi della tv, quei ragazzoni grandi e grossi che, con mutandoni e strane maglie colorate, sembrano uscire dallo schermo delle televisioni, con i loro movimenti rapidi, le rincorse affannose, le parate dei portieri e quelle reti che si gonfiano, facendo saltare di gioia quei signori assiepati su quegli strani gradini intorno al campo e i propri padri, che ti abbracciano o bestemmiano per qualcosa di così oggettivamente distante da te e dalla tua quotidianità.
Ricordo ancora il mio povero papà, con quella vecchia televisione a transistor che bisognava accendere un quarto d'ora prima della partita.
Io mi sedevo accanto a lui in religioso silenzio aspettando il momento di capirci qualcosa circa le regole.
Perché tutta quella gente urla, quando quell’uomo vestito di nero usa il fischietto e alza una mano?
Perché quell’azione è stata fermata e quel goal non è valido?
Poco tempo fa, lessi su internet, un modo molto carino per spiegare ad una donna cosa diavolo fosse mai il “fuorigioco”.
La frase era, più o meno, questa:
“Se siamo in un negozio e tu ti trovi oltre l’ultima cassa, se io ti lancio un paio di scarpe “griffate” e tu afferrandole fai suonare l’allarme, è fuorigioco!’’.
Già, molto facile spiegarlo ad una donna in questi termini, ma vai a spiegarlo a un bambino del perché non si deve oltrepassare  al momento di un passaggio quella linea, per di più immaginaria, che rende inutile far gonfiare la rete.
 
Una volta ''scaldatosi'', l'apparecchio cominciava a trasmettere le immagini della partita.
Il più delle volte era la nazionale italiana e poi la ''sua''Juve soprattutto in mezzo alla settimana per le coppe europee e quelle trasmissioni come ''90’ Minuto'' o ancora” Mercoledì sport” che mi ha fatto prendere decine di brutti voti perché restavo di nascosto sveglio fino a molto tardi, per vedere i riflessi filmati delle partite della Coppa Italia o delle coppe europee.
Vallo a spiegare ora ad un bambino che guarda la pay tv, dove si può perfino " frizzare" la partita per andare ad urinare e facendola ripartire dal punto desiderato!
 E si…
Vaglielo a spiegare cosa vuol dire prendere un block notes, armarsi di una riga, di una matita con la gomma nella parte opposta della mina in grafite e di tanta pazienza, annotando e correggendo i risultati della schedina del totocalcio grazie ad una semplice radiolina collegata con “tutto il calcio minuto per minuto” ogni maledetta domenica pomeriggio, con quei boati che precedevano di una frazione di secondo, il commento dei telecronisti, pronti a raccontare a caldo un goal od un avvenimento saliente della partita collegata.
Vagli a spiegare cosa significasse quale fosse la meraviglia di vedere le prime partite di calcio inglese, commentate da un signore di nome Michele Plastino, che ebbe l’intuizione di diffondere per primo quegli incontri cosi distanti tecnicamente e tradizionalmente col nostro calcio.
Già, Il calcio…l’amato, stramaledetto calcio.
Ci sono sicuramente altri sport più nobili e formativi sia dal punto di vista fisico che da quello sociologico.
Ma forse, il fatto che quella palla di poco più pesante di quattrocento grammi, somigli così dannatamente al nostro pianeta persino nelle piccole, impercettibili depressioni dovute alla valvola che emula il polo nord e a quelle cuciture che come fiumi solcano la sua superficie, l’azione stessa di prendere a calci qualcosa che è così similare al palcoscenico delle nostre esistenze, fatte per lo più di grandi delusioni e amarezze, è una specie di rivalsa per ognuno di noi pazzi, inguaribili malati di questa disciplina, che sarebbe riduttivo proporre nei semplici termini di sport. Poco importa se il vento, un avversario, il terreno o la sfortuna ne cambino così repentinamente la traiettoria. La nostra aspirazione è di controllarlo, vincendo la sua imprevedibilità e, se possibile, scagliarlo con violenza o con astuzia in quella rete, metafora della realizzazione dei nostri sogni e aspirazioni, o impedirne di concretizzarli all’avversario di turno.
Poi, ad un certo punto, un istinto quasi atavico ed inspiegabile, dovuto forse alla natura umana di condividere con qualcuno gioie e dolori, retaggio delle mille battaglie che l’uomo ha dovuto combattere schierandosi al fianco di qualcun altro nel corso della sua millenaria storia, irragionevolmente ti richiede una scelta. Una di quelle scelte che fai e che ti porti dietro per tutta la vita e non c’e’ modo o maniera di evitarla. E purtroppo, o per fortuna, ad una malattia del genere non esiste antidoto.
Due sono le cose che non puoi scegliere nella tua vita: chi ti ha partorito e la squadra del cuore. Tutto il resto potrebbe essere non vero, non duraturo o definitivo.
Ma almeno nel mio caso, non fui io a scegliere la mia squadra: fu "Lei" a scegliere me!
M’innamorai della Lazio da piccolissimo, grazie all'iniziale influsso di due miei zii, uno ancora vivente e l'altro purtroppo perso giovanissimo per un male incurabile.
Ho imparato a mie spese, cosa significhi amare questi colori.
Masochismo puro!
La prima immagine che ho di questa squadra bella e maledetta, sono i capelli biondi di un giovanissimo Andrea Agostinelli e i goal di un certo Bruno Giordano ad un ''Torneo di Viareggio''.
Ma credo che alla fine, furono quelle maglie ad assestarmi il colpo decisivo, il mio “falling in love” che continua ad accompagnarmi fedele in questa mia vita.
 
Quello che più mi colpì in quelle divise color del cielo, di quel celeste che trovi nei paesaggi di montagna immuni dalla foschia umida ed inquinata delle grandi città, non erano tanto i colori in se, ma il fatto dell'impercettibile e progressivo scurirsi di quel riflesso cromatico, che dava sempre più verso l'azzurro per via della sudorazione.
 
Era ai miei occhi un simbolo di fierezza e sofferenza, segno tangibile che chi indossava quella casacca, stesse realmente dando tutto se stesso per quella squadra ed i suoi tifosi.
Me ne innamorai, amici miei, come m’innamorai del suo simbolo, quell'aquila ad ali spiegate emblema di forza e libertà.
Stanisław Jerzy Lec disse in un suo celebre aforisma di aver visto gabbie volare, con dentro delle aquile. E almeno per "quella", simbolo dell’ultracentenaria squadra capitolina, sarà sempre cosi. Il tifoso laziale lo sa. Non basteranno tutte le disgrazie di questo mondo a tenerla incatenata senza, prima o poi, poter spiccare il volo.
 
Iniziai così, come tutti i bambini del mondo, a sognare un giorno di giocare per la mia squadra, ad immaginare di vestire quella maglia e addirittura a fare una vera e propria scaletta della mia eventuale, luminosa carriera di calciatore.
Calcolavo che avrei iniziato a giocare in nazionale per i mondiali del 1990, sapendo che quella competizione si sarebbe svolta ogni quadriennio e che una volta laureatomi campione del mondo, avrei mostrato a tutti i telespettatori, la mia maglia celeste sotto quella azzurra dell'Italia.
Nello stesso tempo, nel finire degli anni settanta ed inizi ottanta, da quella stessa maglia celeste vennero solo grandi delusioni.
Anni di serie B, calcio scommesse e in contemporanea le prime vittorie della Roma del grande presidente Dino Viola con lo scudetto del 1983 e la finale di Coppa dei campioni, poi "fortunatamente" persa con il Liverpool, l'anno seguente. L'unica cosa che potevo fare in quegli anni era ''gufare'' contro gli odiati “cugini”e la imparai a memoria la formazione di quella squadra inglese che beffò la compagine giallorossa in quella finale di Roma nel penultimo giorno di maggio del 1984.
Ancora ricordo le clownesche movenze del portiere dei ''Reds'', allorché indussero all'errore Ciccio Graziani e il grande, perché di grande si tratta Bruno Conti.
Tutto mi si può dire forse, tranne quello di non avere la sportività necessaria per esaltare anche un avversario. Nella fattispecie, credo che la cosa mi sia stata trasmessa da mio padre, juventino abbiamo detto, ma che aveva una stima profonda proprio per quel "piccolo grande uomo'' di Nettuno, che lo faceva letteralmente impazzire quando giocava in nazionale. Credo di averlo visto litigare di brutto una sola volta, in un bar e proprio per difenderlo dagli apprezzamenti non proprio carini di uno sconosciuto avventore, che lo aveva insultato e deriso per la sua statura non proprio da corazziere, durante una diretta televisiva.
E dalla mia Lazio, ancora tanta sofferenza.
Qualcuno provò a farmi cambiare “sponda” portandomi più volte nella “Curva Sud” dello Stadio Olimpico, ma io resistetti e non tradii quella mia scelta.
Anzi se possibile, quell’amore crebbe a dismisura.
Me ne andavo in giro a testa alta, con l’aquila degli “ eagles supporters”, uno dei primi gruppi organizzati della “Nord”, disegnata sulla mia “tolfa”.
Barcamenandosi tra i bassifondi della "A" e la serie cadetta, a livello calcistico erano ben pochi i modelli a cui ispirarsi. L’unico forse era” Vincenzino” D'amico, ''il matto'', come lo chiamava sarcasticamente mio padre, perché continuava a dire in dialetto che:
“Se questo c'avesse n'po' de testa, sarebbe er più grande giocatore italiano”.
Ma giocando nel ruolo di libero, quello che oggi i tecnici chiamano ''centrale difensivo dominante'', magari staccato di cinque o sei metri dall'altro difensore, non potei che scegliere altrove.
Due erano i giocatori che colpirono la mia fantasia e che cercai di emulare. Uno aveva il numero "6" della maglia bianconera della Juventus.
Il suo nome era Gaetano Scirea.
L'eleganza fatta calciatore.
Quello che più mi faceva impazzire di lui era quel suo modo di uscire dalla difesa.
Sembrava dire ai suoi compagni:
“Forza ragazzi!Basta difenderci: ora andiamo a segnare”.
 
L'altro, e forse il mio modello per eccellenza, era un ragazzo timidissimo. Ricordo ancora quelle sue rare interviste in cui sembrava avere una fottuta paura della telecamera.
Per sbeffeggiarlo gli davano del ventriloquo, tanto erano impercettibili i movimenti delle sue labbra e tenui i suoni che ne fuoriuscivano.
Quel suo sguardo sempre serio e quel suo tiro al fulmicotone che sembrava bucare la rete ad ogni calcio di punizione o rigore battuto, quel suo modo così austero e autoritario di stare in campo, mi fecero innamorare calcisticamente di lui.
Quel ragazzo indossava una maglia rossa con il numero 10.
Quel ragazzo giocava la maggior parte delle volte in difesa proprio come me.
Quel ragazzo che quando segnava sembrava trasformarsi e ritrovare la felicità, nascosta quasi volontariamente, era il grande Agostino Di Bartolomei.
…ed era della Roma!
 
"L'incontro."
Accadde proprio in quegli anni, in cui la squadra giallorossa era nell'elite del calcio italiano e la mia Lazio costretta ad un'anonima sopravvivenza.
All'epoca giocavo con una piccolissima squadra di Ciampino, cittadina a pochi chilometri dalla capitale, nota ai più per il suo aeroporto. Dimenticatevi i bei campi d’erba sintetica che sono ormai ovunque. Si faceva la “danza della pioggia” per far si che non ci si ritrovasse a giocare in mezzo alla polvere. E quando pioveva, si tornava a casa con borsoni che pesavano tre volte di più rispetto all’andata con le vecchie maglie in tessuto impregnate di fango che credo abbiano fatto più di una volta imprecare la mia cara mamma e guastare un bel po’ di lavatrici. Un bel giorno fummo chiamati a disputare una gara amichevole con l'Omi Mita, una formazione che andava per la maggiore a livello del calcio giovanile della Capitale.
Come al solito mio padre non era presente. Non lo volevo in tribuna. Il solo vedere quei capelli brizzolati mi mettevano un’ansia terribile. Credo che in tutta la mia “sfavillante” carriera, “Penna Bianca”, questo era il soprannome di mio padre a causa della sua chioma brizzolata, abbia visto solo un paio di gare. Ma sono sicuro che di nascosto qualcuna l’abbia “rubata” a mia insaputa, furtivamente appostato dietro qualche pilone o cartellone pubblicitario.
Quella partita finì inesorabilmente in goleada. Non ricordo il punteggio esatto, ma era troppo il divario tecnico e tattico. Ogni volta che si disputavano partite del genere, si poteva notare la grande differenza con società come la nostra, tenuta in piedi per far divertire i ragazzi, senza chiedere loro nulla in cambio.
Nessuno sponsor, non una lira era sborsata per giocare, né per i materiali tecnici inesorabilmente di scarsa qualità.
Bastava che un manipolo di uomini si riunisse in uno scantinato e decidesse il da farsi e sborsava la propria quota di partecipazione.
Il gap era comunque notevole.
Abbigliamento tecnico di ultima generazione, una rosa di giocatori extralarge, con numerazioni che arrivavano fin quasi al centinaio, come nel calcio moderno, cosa stranissima per l’epoca e taglie degli stessi che sembravano di due categorie superiori.
Quei “ragazzini” sembravano i nostri zii e correvano e saltavano gli avversari come birilli.
Finita quella "Via Crucis'', si tornò mestamente negli spogliatoi, con la consapevolezza di essere inferiori all'avversario, ma pronti caparbiamente a reagire nella gara successiva, magari con qualcuno più alla nostra portata.
Proprio mentre ero per spogliarmi ed entrare sotto la doccia, in quei larghi spogliatoi che nulla avevano a che fare con i gabbiotti di lamiera del nostro campo, fui chiamato dal mio allenatore. Sicuro di un imminente rimprovero per qualche intervento sbagliato, mi avviai mestamente verso la porta.
Non ci potevo credere ma era proprio lui, “Ago”, in carne ed ossa, accompagnato da un altro signore che poi seppi si trattava di Giacomo Losi, un giocatore della Roma degli anni 50.
In quel momento mi sembrava di vivere un sogno, proprio come in quelle situazioni d’incredibile felicità, in quei fotogrammi che scorreranno via in un flash-back al termine della vita, dove si andranno a condensare le emozioni più forti che avremo vissuto in questo nostro percorso. Ma tale fu l’emozione in quel momento, come spesso capita, che non riuscii a rendermi conto di quello che stava succedendo.
Era venuto lì proprio per me e per congratularsi della mia prestazione.
Era strano vederlo in jeans e maglia senza la sua tenuta da gioco.
Dopo una timida stretta di mano, mi rinnovò i complimenti, dicendomi che però sarei dovuto dimagrire un pochino perché ero un po' “cicciottello” ma che avevo grinta da vendere, cosa che, a suo dire, nel calcio era la più importante, forse più della tecnica e della corsa.
E poi avvenne la domanda fatidica:
  • Di che squadra sei?   -
In quel preciso momento sarei voluto sprofondare e forse non nego che per una volta, e per non dare un dispiacere al mio idolo, sia stato tentato di rinnegare la mia fede calcistica.
Ma poi, preso da un lampo d'orgoglio, per una volta lo guardai fisso negli occhi e dissi con il tono della voce più cupo e fiero che avevo dissi semplicemente:
                                                                 - Lazio!-
Il suo viso si rabbuiò un pochino e una risata trapelò dalle labbra di “Giacomino” Losi e del mio allenatore.
“Allora non ti fa piacere ricevere i complimenti da me?”
Fu proprio il mio mister ad interrompere quel silenzio di alcuni secondi che a me sembrarono un'eternità’.
Proprio mentre prendevo a calci il nulla per alleviare la tensione, sentii le sue parole che m’invitavano a mostrare dove "le" tenessi.
Lui, il mio “mister” sapeva di quello mio strano rito. Aveva più volte visto cosa combinavo nella vestizione prima di ogni partita o allenamento che fosse.
La “sua” era nel piede destro, proprio sotto il calzettone.
Per non farla rovinare era sostenuta, sul retro, da un pezzetto di cartoncino e avvolta dalla pellicola trasparente che si usa per conservare i cibi.
Era lì, a destra, perché doveva servire come un amuleto qualora fosse capitato di tirare un rigore o una punizione dal limite dell'aria.
Nell'altra calza “quella” di Scirea che avrebbe dovuto sospingermi in qualche mia sporadica incursione in avanti.
Entrambe erano sistemate proprio dietro il polpaccio.
All'epoca i parastinchi erano un optional costoso e ingombrante che non era richiesto dal regolamento e quindi bastava un pezzetto di nastro adesivo proprio sotto il ginocchio per tenere su il tutto ed il gioco era fatto.
“La” tirai fuori, coperta dal “domo pack”, rigata da qualche goccia di sudore ma ancora integra e gliela mostrai, tenendo sempre lo sguardo ben basso, in segno di vergogna e rispetto.
La figurina “Panini” di Agostino Di Bartolomei!
 
 Sentii una grossa risata arrivare da parte degli altri due astanti e poi finalmente riuscii a trovare la forza di vedere i suoi occhi.
Da essi, trapelava quella sorta di commozione che hanno in genere quegli uomini che non vogliono mostrare i loro sentimenti agli altri, come quei padri talmente premurosi o ancorati a strani preconcetti, che non si vogliono far vedere piangere davanti ai propri figli.
Uno psicologo dei nostri tempi, vi dirà sicuramente come tale comportamento sia educativamente e pedagogicamente sbagliato per i propri figli, ma vi posso assicurare che è anche il mio modo di educare i miei figli, forse ancora attaccato a certi valori del passato.
Non disse una sola parola “Ago” alla vista di quel suo piccolo ritratto.
Ricordo solo quella sua grande mano poggiata sopra la mia testa bagnata, il sorriso forzato verso Losi, la stretta di mano con il mio allenatore e lo sbattere con forza i palmi delle mani come a dire che la scena l'aveva emozionato e molto.
Essere idolatrato da amico, è cosa facile, soprattutto per personaggi come lui.
Esserlo diventato di quel bambino della Lazio, aveva forse toccato le corde più profonde del suo cuore, quel cuore innamorato di quel calcio che da lì a qualche anno si dimenticò completamente di lui e che avrebbe potuto salvarlo, dandogli nuovi stimoli e una nuova ragione di vita, dopo la brillante carriera di calciatore. E a volte, ancora oggi a trent’anni di distanza, a volte mi sembra ancora di sentirla quella sua enorme mano che mi accarezza la testa senza alcun timore di bagnarsi del mio sudore. Sarei voluto essere lì a Castellabate, quel maledetto 30 maggio del 1994, per dirgli solamente che io non mi ero mai dimenticato di lui, strappandogli via quella rivoltella per poi abbracciarlo forte, come dopo un suo goal su uno dei suoi leggendari calci di punizione e ricordargli, ancora una volta, che lui era stato per un anonimo calciatore di provincia allora, e per un uomo di più di quarant’anni oggi e fino alla fine dei suoi giorni, il “suo capitano”, anche se non aveva mai vestito quella maglia con i colori del cielo che tendono a scurirsi come il blu della notte.
FINE
 
 
 
   
 
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