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Autore: L_Lizzy    25/04/2015    1 recensioni
Associazione Ricerca Dotati.
Un nome, una garanzia e proprio dietro l'angolo c'è qualcuno pronto a portarti via l'impero che hai costruito. Ma non temere, saprai difenderlo se credi nelle tue capacità. Fai delle tue debolezze nuove forze.
Attacca e non voltarti indietro poichè Lui non ti ha riservato alcuna carineria.
Una storia che salta da passato a presente e, perchè no, tra un po' anche futuro.
Genere: Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non era stato semplice mettere insieme la squadra ma avevo bisogno di tutti quanti. Ognuno di loro aveva un ruolo preciso, un compito da rispettare perché mai avrei rinunciato al mio obiettivo e mai prima d’ora mi era sembrato di poter essere tanto vicino alla vittoria di questa battaglia. Ebbene sì, battaglia, poiché la guerra vera avrà inizio nel momento in cui Lui mi fornirà il nome che da ormai anni sto cercando. Confido nelle mie capacità e sono sicuro di non potere sbagliare questa volta. Non ho null’altro da perdere e Lui non può vincere come ha fatto in passato quando ho lasciato che colpisse dove non credevo di poter cedere.
Ora che il lavoro mi ha tolto il sonno e che Lui mi ha tolto quel poco di cuore che ancora avevo sono pronto a restituirgli lo stesso trattamento che lui ha riservato a me.
Non sarà per nulla facile portare a termine quello che sto organizzando ma se per farla pagare a chi mi ha privato di coloro che amavo dovrò mettere in gioco tutto me stesso non esiterò, non avrò tentennamenti o ripensamenti di sorta.
Domani stesso metterò in atto la prima vera e propria fase del mio progetto.
Domani mi sentirò di un passo più vicino a questa piccola vittoria personale.

* * *

Sono nato diverso e in quanto tale i miei genitori mi hanno trattato fino a quando, stanchi dell’alone grigio che aleggiava sulle loro spalle, una mattina fecero le valige e se ne andarono lasciandomi solo. Avevo diciassette anni e non sapevo cosa mi aspettasse al di fuori della mia cameretta poiché per arginare la mia negatività mi vi segregarono. Non mi era permesso uscire poiché avrei fatto appassire le piante di mia madre solo scendendo nel soggiorno mi diceva papà quando picchiavo i pugni sul battente chiedendogli il perché di tutto quello. Ricordo poco e nulla dei primi tempi, e ovviamente intendo dire di quando potevo ancora girare in quei novanta metri quadrati di appartamento. Pochi ricordi mi erano rimasti dei primi anni di vita quando ancora la situazione non era insostenibile, quando la cosa più preoccupante che la mia presenza in una stanza causava erano i litigi tra i miei genitori. Prima mi dissero di non fermarmi più al parco giochi dopo scuola, poi mi vietarono di frequentare le lezioni e infine spaventati da qualcosa che non sapevano come affrontare mi impedirono di praticare qualsiasi attività che prevedesse il contatto con altre persone per via dell’effetto che avevo su di esse. Dovunque mi portassero qualcosa andava storto, per qualche motivo nessuno riusciva a spiegarsi perché i gessetti vorticassero per la classe, perché i vetri delle finestre si rompessero al mio passaggio, perché i neonati piangessero vedendomi o la ragione per la quale attorno a me non vi era mai nessuno di allegro. Avevo come un’aurea negativa che gravava su di me, stare in mia compagnia non dava vita a nulla di buono, mai. Come quella volta in cui credettero fosse stata colpa mia se Charlie, il cane del vicino, avesse attraversato la strada nel momento stesso in cui vi stava passando un’auto solo perché fino a poco prima gli stavo accarezzando il pelo. Oppure come quando ai giardinetti erano sicuri che fossi stato io a convincere Manny, un bimbo che ancora andava all’asilo, a salire sullo scivolo e lasciarsi cadere a terra dal lato della scaletta. Fu dopo una serie di nefasti incidenti che i miei genitori finirono per segregarmi in camera limitandosi a portarmi i pasti, smettendo poi di costringersi a quei due minuti di conversazione durante la quale mi promettevano che presto avrebbero trovato una soluzione.
Fino ai dodici anni provai a fare cambiare loro idea promettendo che mi sarei comportato bene, che non avrei fatto nulla di male, che sarei diventato il bambino perfetto che invidiavano tanto a tutti. Lottavo per uscire, piangevo e mi scagliavo contro la porta. Li imploravo, pregavo per la libertà che mi era stata negata fino a quando la stessa aurea che li rendeva così preoccupati non m’inglobò. Non valeva più la pena lottare per qualcosa che non avrei raggiunto e semplicemente mi arresi all’evidenza, quella sfortuna era vera, reale, ed io non potevo fare nulla per contrastarla. Allora non vi fu più spazio per gli sfoghi, intorno e dentro  me vigeva solo una calma piatta. I miei cinque sensi non generavano più sensazioni, era come vivere in una bolla. Non mi rendevo conto di come i poster fossero caduti dalle pareti e di come esse si stessero scrostando dell’intonaco così come, non sentivo le assi del pavimento in parquet alzarsi e spaccarsi. I giorni passavano senza che io me ne potessi accorgere intervallati dai pasti durante i quali nemmeno mi rendevo conto di stare mangiando proprio come se stessi osservando quell’azione compiuta da qualcun altro. Non esistevano più i sapori, la sensazione dell’acqua che scendeva per la gola o la soddisfazione di affondare i denti in un tozzo di pane. Quando non compivo queste azioni, dettate solo dall’abitudine, sembravo dormire con gli occhi aperti, in attesa di una svolta che non sapevo se e quando sarebbe arrivata.

* * *

Non sono né panettiere né avvocato, il mio non è proprio uno di quei lavori che si possono considerare comuni. Non è un lavoro di ufficio che mi annoia ma piuttosto uno di quei lavori che ti fanno viaggiare per il mondo, che ti danno la possibilità di esplorarlo in lungo ed in largo in cerca di qualcosa.
Per alcuni questo qualcosa sono hotel economici da inserire nelle guide turistiche, per altri ristoranti rinomati da far affondare nelle critiche, per me no. Mi ritengo fortunato, nessuno ha mai fatto il mio lavoro e probabilmente quando la mia vita avrà fine morirà con me. Lo porterò nella mia tomba e non so se questa conclusione possa essere considerata benevola o malevola. Positiva lo è di certo poiché sono convinto che non la pensino come me in tanti, che siano più le persone che, come i miei genitori, si rifiutano di accettare la verità che si trovano sotto gli occhi trecentosettantacinque giorni l'anno. Tante sono le persone che si rifiutano di guardare la verità negli occhi ed ammettere che qualcosa di diverso esiste per davvero, che non è sogno o finzione ma realtà concreta. Il fatto che tutti i miei sforzi un giorno finiranno per essere inutili, buttati nel dimenticatoio, cestinati da una società che non è pronta ad accettarli, mi intristisce e non poco. Sapere di essere l'unico a sperare in un futuro per tutti coloro che non sono come dovrebbero essere non può farmi più male. L'unico a cui stanno a cuore le situazioni di tutti loro, l'unico pronto a proteggerli e rassicurarli invece di allontanarli.
Ad ogni modo, come stavo dicendo poco più su, la mia non è un'attività consueta ma piuttosto un'idea che è nata nella mia mente quando ancora ero piccolo, e che, mano a mano, si è espansa senza che io potessi contrastarla. Senza un come o un perché improvvisamente le sue radici si erano talmente insinuate all'interno della mia testa da non poterne più uscire; da rimanerne intrappolate continuando a variare, ad ampliarsi, ad evolversi. Fin quando dall'idea non è nata una certezza e da essa un compito. La certezza di essere l'unico in grado di poter tenere a cuore le sorti di chi mi era simile. Da un compito è derivato poi un obbligo che mi ha portato a cercare coloro che potevano essermi di aiuto. Ammetto che non è stato per niente facile iniziare un'attività come questa, di queste dimensioni, di questa portata. Molteplici sono stati i battenti che mi si sono chiusi sul naso così come numerosi sono stati i rifiuti di quei collaboratori che cercavo di ottenere senza risultati. Non so per quanto tempo l'unica cosa che raccoglievo dai miei sforzi erano risate ironiche e pacche sulle spalle, bisbigli nemmeno tanto velati che sentivo sussurrare appena le porte degli ascensori si chiudevano dandomi quel minuto di pace che provavo dopo aver concluso un colloquio. La convinzione di aver fatto quello che potevo, di non essermi fatto buttare giù da quei gradassi che mi additavano come pazzo.
Poi tutto di un tratto mi si presentarono una, due, tre possibilità. Per quanto avessi cercato senza sosta le mie fatiche iniziavano a dare i loro frutti. Paradossalmente avevo incentrato la mia ricerca su coloro che ritenevo i così detti ''veterani'' del commercio e rimasi stupito quando gli aiuti che cercavo giunsero da giovani che precedentemente non avevo nemmeno preso in considerazione.
Dal nulla, forti nella nostra collaborazione, lavorammo gli uni con gli altri fino a dare un futuro a quel progetto che ogni giorno sembrava essere più realizzabile. Di nuovo le mie idee si trasformarono a contatto con quelle menti che avevano così tanto da offrirmi.
Così prese forma l'Ard, Associazione Ricerca Dotati, che, per definizione, consisteva in un'organizzazione collettiva per il perseguimento di uno scopo ideale, non economico.
Dare una casa ai Dotati, istruirli, toglierli dalle strade, smettere di farli esibire come fenomeni da baraccone e finalmente dare loro la possibilità di riscattarsi, questo è il nostro obiettivo.

* * *

Non possedevo più alcuna facoltà quando finii soggiogato da quello che era il mio potere. Incapace di pensare ad altro che al nulla il mio corpo nel tempo mutava, cresceva inarrestabile; i capelli si facevano più lunghi, gli occhi più scuri fino a diventare neri poiché non avevo più quella premura di aprire e chiudere le imposte ogni giorno. Il mio fisico cresceva provato perché sempre costretto nella medesima posizione, la mia mente maturava con esso e, senza che me ne potessi rendere conto, anche quella negatività che mi circondava non faceva che espandersi e nel farlo mi privava di quella forza che il mio organismo sembrava tenersi stretta con unghie e denti. Ancora la mente non aveva compreso cosa avesse scaturito quella sete di energia ma, di nuovo, il mio potere l’aveva preceduta.
Al mio risveglio non seppi dire quando tempo avessi passato in quella forma vegetativa e nemmeno come avessi fatto ad uscirne. Ricordo di avere iniziato dal nulla a parlare e mentre una parte di me m’intimava di abbassare la voce per non fare incollerire i miei genitori l’altra rideva, facendosi beffa della situazione. Questa divisione interna vi è tutt’ora, ancora mi capita che il potere abbia la meglio sulla razionalità ma in modo controllato; si limita appunto ad un dialogo che ha dell’inverosimile.
Come dicevo, per via della catarsi non mi resi conto della realtà fin quando l’aurea, o chi per essa, non mi intimò di darmi una svegliata, di aprire finalmente gli occhi.
E intorno a me non trovai le pareti dipinte di arancio della mia cameretta, non vi era più il parquet dai legni di colori diversi che mamma tanto amava. Ero immerso nella devastazione, nel mezzo di un buco nero senza inizio ma con una fine ben netta. Ricordo di essermi guardato intorno ed avere notato l’armadio crollato sul letto con le sue ante aperte come braccia spalancate che arrancavano cercando aiuto, notato la scrivania di cui vi era rimasto solo il cassetto pieno di quella che sembrava essere polvere. Le tende, un tempo bianche e verdi, erano di un tono di grigio smorto e inermi erano cadute chissà quando ai piedi della finestra rigorosamente chiusa. In un modo o nell’altro, penso sempre per via del fatto che anche se la mia mente non è connessa il mio potere registra e immagazzina tutto ciò che mi accade intorno, non mi stupii più di tanto del caos che mi circondava ma della porta che dava sul corridoio, ormai nemmeno più porta. Come fosse un buco nella parete si stagliava in fronte a me coi suoi bordi frastagliati e irregolari invitandomi a uscire da quella prigione.
Allora mi alzai e, un passo dopo l’altro, mi avvicinai.
Potevo davvero uscire?
Presi il coraggio a due mani e, spinto da qualcosa di più grande, avanzai fino a varcarne quella che un tempo doveva esserne stata la soglia.
Non trovai rimproveri o grida come inconsciamente mi sarei aspettato anzi, li aspettai anche, impalato su due piedi per non so quanto tempo. Percorsi con lo sguardo il corridoio notando i quadri storti e l’accumulo di polvere negli angoli chiedendomi se fossi stato io a fare tutto quello. Ricordo di essermi avvicinato titubante alla stanza dei miei genitori, di aver abbassato la maniglia e di averla spinta un poco facendola aprire su di uno scenario che scoprii essere desolatamente vuoto. I profumi di mia madre avevano riempito l’aria rendendola irrespirabile e nauseante, la sveglia di mio padre non era più dove doveva, al suo posto solo altra polvere. Se ancora non mi ero reso realmente conto dello stato della casa, continuando a immaginare giustificazioni e scuse che si ammassavano le une alle altre, mi bastò scendere a pian terreno. La scala che ricordavo non vi era più. I gradini sani, per così dire, erano presenti a gruppi di due o tre, intervallati da alcuni che sembravano essere ceduti sotto d’un passo troppo pesante. Del corrimano ne era rimasto solo le scheletro. Prestando attenzione a dove stessi mettendo i piedi mi stupii del silenzio che sembrava circondare la casa.
Superata la cucina e giunto in salotto seppi per certo che ero solo.
Solo da chissà quanto tempo.
Il televisore era attraversato orizzontalmente da una crepa profonda che dava l’impressione di poter guardare cosa vi fosse dietro a quello schermo da venti pollici. La fodera del divano squarciata nascondeva la testa del telecomando che spuntava tra il bracciolo ed il cuscino sinistro, dallo scrittoio di mio padre dovevano essere caduta una delle sue risme di fogli che allora trovai sparsi per il pavimento.
La finestra che dava sulla strada, proprio accanto alla porta d’ingresso, era aperta. Fuori era notte, il buio inghiottiva persino la luce rada emanata dai lampioni rendendo impossibile distinguere la forma di ciò che si trovava al di fuori, Solo quando ebbi realizzato che non era giorno ricordo di avere iniziato a sentire le braccia intorpidirsi e le gambe tremare. Sforzandomi mi trascinai allo specchio nel quale mia madre era solita riflettersi prima di uscire per essere sicura di essere sempre in ordine.
Per quanto i miei occhi si sforzassero di rendere nitida la mia sagoma, anche solo distinguerla da quello sfondo che mi trovavo alle spalle, non riuscii a specchiarmici.
Che il mio potere mi avesse privato delle apparenze? Del mio aspetto?
Ero davvero stato io?
Troppe erano le domande cui ancora non potevo dare una risposta.
Rivolgendo le spalle al muro mi lasciai scivolare fino al pavimento.
Rannicchiato con la testa fra le ginocchia mi chiedevo perché.
Perché io?
Avevo diciassette anni, mi ero appena risvegliato per cadere in un incubo forse peggiore di quello che già stavo vivendo.







Angolino autrice:
Allora... direi di iniziare col dire che sono ancora viva. 
So di essere sparita ma se stessi qui ad elencarvi tutto quello che è successo in questo anno e mezzo non finirei prima di Natale prossimo. Non so se ancora sono capace di mettere insieme qualcosa di decente ma come al solito l'idea è arrivata, io ho iniziato a parlarne a destra e a manca per dei consigli e ora tutti si aspettano un capolavoro. Insomma dico io, vi ho chiesto solo se preferivate un protagonista moro o biondo! Quindi, tutti profetizzano grandi cose per questa storia e ho come l'impressione che mi uccideranno presto perchè un impegno simile adesso non credo di riuscire a seguirlo in modo coerente. 
E nulla. Volevo testare questo pseudo prologo/capitolo per vedere cosa ne pensate.
Non siate tirchi e lasciate una recensione che oggi c'è bel tempo (?).

L_lizzy
  
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