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Autore: Hermione Weasley    27/04/2015    6 recensioni
I gradini scricchiolarono sotto il suo peso.
Clint, avvolto in una coperta, sedeva sul parapetto ligneo che correva lungo il portico a cingere la casa su tre lati. Il viso segnato dalla stanchezza, non mancò comunque di rivolgerle un sorriso.
“Non ti ho sentita uscire,” l'accolse, soffermandosi sui suoi capelli spettinati dal vento, il volto congestionato, il sudore a dare un riflesso quasi perlaceo alla sua pelle pallida.
“Non volevo farmi sentire.”
[Clint/Natasha]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'A doppio filo'
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Questa storia è un missing moment della raccolta A doppio filo, si collocherebbe tra le one-shot VI e VII, ma non c'è eccessivo bisogno di averle lette per capire gli avvenimenti di questa. Scritta per Sheep01 che mi ha lanciato il prompt "fattoria" ormai mesi orsono. Meglio tardi che mai :P Il titolo è ripreso da Bedroom Hymns di Florence + the Machines. La canzone non c'entra moltissimo, ma è super sexy e mi ha ispirata mentre scrivevo. Il filo conduttore poi, è suggerito da quella. Deliri ulteriori alla fine della storia! Buona lettura :)
Disclaimer: i personaggi di questa storia appartengono a Marvel e Disney. Non è stata scritta a scopo di lucro, ma per puro divertimento.



Sweating Our Confessions

 

 

I suoi passi incontravano la resistenza del terreno ancora umido dopo l'acquazzone della notte precedente: i piedi affondavano nell'erba fradicia, impedendole di muoversi rapidamente come avrebbe voluto.

L'aria, però, fresca e pungente, le sfiorava il viso, le spalle e le braccia scoperte, raggelando il sudore che le copriva la pelle.

Dopo quasi un'ora di corsa i muscoli delle gambe cominciavano a reclamare pietà: non era passato che un giorno dalla missione in Messico e – per quanto avesse voluto illudersi altrimenti – il suo corpo non si era ancora del tutto ripreso.

Rallentò fino a fermarsi, appoggiandosi allo steccato che divideva il prato incolto dall'appezzamento di terra che ricopriva gran parte della collina. Le tenebre della notte si accingevano finalmente a cedere il passo alla tenue luce rosata dell'alba; la nebbia aleggiava silenziosa, come esalata dal suolo, ad avvolgere tutto ciò che la circondava.

Il cuore ancora in tumulto per lo sforzo, Natasha fece scivolare lo sguardo sul paesaggio immobile, fumoso, apparentemente immutabile. Trovava una certa difficoltà a conciliare tutta quella pace con il caos a cui era abituata: gli eventi di New York non avevano fatto proprio niente per semplificarle la vita. Eppure, una parte di lei si ritrovava a desiderare quel susseguirsi turbolento di compiti, emergenze, crisi che non le concedevano neppure il tempo di pensare, solo di essere ed esserci sempre e comunque.

Il Messico, e con lui il direttore Fury, l'aveva costretta a prendersi una pausa. Ma quel posto – col suo odore di terra bagnata, il sopito cinguettare degli uccelli rifugiatisi nei boschi circostanti, il mulino a vento a disegnare un'ombra sempre più definita sulla collina – non contribuiva minimamente ad aiutarla a rilassarsi. La confusione che le era montata in petto in quegli ultimi mesi non trovava alcun contrappunto in quell'atmosfera di pace senza tempo, dove le stagioni si susseguono ciclicamente, all'infinito: il malessere che aveva tentato di ignorare minacciava di esplodere una volta per tutte... e la vicinanza di Clint, si era accorta, non aiutava affatto.

Riecco il mal di stomaco.

L'agitazione a chiuderle la gola.

La folle smania di prendere a pugni tutto e tutti, di correre, urlare, annientarsi in qualcosa o qualcuno.

Il sole, intanto, cominciava a far capolino oltre il fianco orientale della collina.

Decisa a sfuggire al tiepido, sgradito abbraccio dei suoi raggi, Natasha scattò di nuovo in corsa.

 

I gradini scricchiolarono sotto il suo peso.

Clint, avvolto in una coperta, sedeva sul parapetto ligneo che correva lungo il portico a cingere la casa su tre lati. Il viso segnato dalla stanchezza, non mancò comunque di rivolgerle un sorriso.

“Non ti ho sentita uscire,” l'accolse, soffermandosi sui suoi capelli spettinati dal vento, il volto congestionato, il sudore a dare un riflesso quasi perlaceo alla sua pelle pallida.

“Non volevo farmi sentire.” Ebbe l'accortezza di sfilarsi le scarpe sporche e abbandonarle poco distante. “Speravo stessi dormendo,” aggiunse in una pacata accusa.

Lo vide stringersi nelle spalle, distogliere lo sguardo insonne per puntarlo sul cerchio del sole, sempre più alto e caldo sulla linea sinuosa dell'orizzonte.

Avrebbe voluto fargli mille domande, rispondere a quelle che Clint non aveva il coraggio di porle, ma decise altrimenti.

Rientrò in casa per preparare un po' di caffè: ne riempì due tazze e tornò sui propri passi. Gliene offrì una e tenne l'altra per sé, arrampicandosi sul parapetto per sedersi accanto a lui.

Il silenzio li avvolse mentre, fianco a fianco, la luce del mattino li raggiungeva.

 

*

 

Lo schiocco del legno spezzato aveva attirato la sua attenzione.

Si affacciò appena in tempo per vedere Clint sfilarsi la camicia e gettarla a terra di malo modo, prima di riprendere con le proprie operazioni. I suoi colpi si abbattevano con foga: i ciocchi, uno dopo l'altro, esplodevano in scintille di schegge.

Aveva dibattuto con se stessa prima di mandare tutto al diavolo e uscire dalla porta sul retro.

Il sole di mezzogiorno cadeva a picco sullo spiazzo che separava la casa dal bosco; faceva brillare le braccia sudate di Clint, le gocce che, furibonde, tentavano di rimanere aggrappate alla sua fronte, ma che finivano immancabilmente per precipitargli lungo il viso, sulla canottiera nera.

“A che ti serve tutta quella legna?” Gli chiese, non appena gli fu abbastanza vicina da farsi sentire.

“Per il fuoco,” replicò, senza concedersi neanche una pausa per ricambiare il suo sguardo.

Fu sul punto di ribattere che nel bel mezzo di luglio non ci sarebbe stato bisogno di alcun fuoco, ma si morse la lingua, costringendosi a tacere.

“Posso provare?” Tentò invece.

Ottenne, se non altro, di farsi guardare – guardare davvero.

Natasha sostenne tenacemente lo smarrimento che gli animava l'espressione, riflettendo il suo turbamento col proprio.

Clint restò a fissarla per un lungo attimo e poi, finalmente, abbassò la scure, le braccia e le spalle piegate da quell'insensata fatica, dalle parole non dette sospese nello spazio che li separava. Rilasciò un basso sospiro, forse una mezza risata e poi scosse il capo, come per liberarsi di un qualche pensiero molesto.

“Sai come fare?” Le fece cenno di avvicinarsi.

“Non può essere poi così complicato.”

Non c'era alcun bisogno di specificare che l'aveva già fatto almeno mille volte, in Russia quando non era altro che una ragazzina, ma anche durante alcune missioni che l'avevano vista dispersa in qualche desolato, gelido punto del globo. Clint lo sapeva, perché era stato con lei in alcune di quelle, ma l'assecondò comunque: complici attori di una finzione necessaria come l'aria che respiravano, una tregua dalla battaglia combattuta a suon di sguardi rubati e scomodi silenzi e che andava trascinandosi ormai da settimane.

L'aiutò a mettersi in posizione, manovrandola delicatamente; le mostrò come tenere la scure per non ferirsi, le mani calde e arrossate dallo sforzo sulle sue.

Mentre Natasha cercava di cancellare il ricordo del corpo di Clint sul suo, mentre l'odore della sua pelle tornava a tormentarla – vivo, come pochi mesi prima – la lama dell'accetta affondò nel legno.

 

*

 

“Stai barando!”

L'accusa rimbalzò sulle pareti illuminate dalla poca luce che filtrava dalle finestre serrate. Il caldo opprimeva la stanza e appesantiva l'aria, le lame luminose del sole impietoso ad infilzare la casa con i suoi fendenti di pulviscolo e afa pomeridiana.

“Non sapevo che le opzioni possibili fossero: uno, vinci tu; due, sto barando,” gli rispose sarcasticamente, sistemandosi meglio sulla porzione di divano che Clint le aveva concesso.

Le mani le sudavano attorno al controller della console ripescata da una delle tante scatole che occupavano l'ingresso dell'abitazione: solo uno degli infiniti regali che il mondo aveva deciso di elargire ai Vendicatori di New York in segno di gratitudine. Oggetti inutili e vuoti, incapaci di rimarginare alcuna ferita, buoni solo a riempire i tempi morti, ad ingannare la noia.

Mentre la sua auto tagliava il traguardo per la quinta volta consecutiva, Natasha dovette ammettere a se stessa di non aver pianificato proprio niente di ciò che aveva fatto in quelle ultime quarantotto ore. Si era resa conto di aver commesso un grave errore quando si era ritrovata davanti Clint, sorpreso e confuso sulla soglia del suo rifugio in campagna; il temporale notturno ad imperversare furiosamente tutt'intorno, lei fradicia fin nelle ossa e neanche lo straccio di un invito a giustificare la sua presenza.

Sandwich lasciati a metà e bottiglie di birra mezze vuote punteggiavano il pavimento del salotto.

L'intera casa dava l'idea di un lavoro ancora in corso e Clint con quella; forse lei stessa insieme a loro.

“Dovrebbe esistere un'opzione in cui non mi umili,” ribatté lui. “Rivincita?”

“Non ti sei ancora stancato...”

“Se ti vuoi arrendere, non devi far altro che dirlo.”

“... di perdere?”

“Che stronza,” Clint sbuffò una risata, dando l'avvio all'ennesima partita.

“Puoi ancora ritirarti, Barton,” simulò una serenità d'animo che non le apparteneva, torturandolo con voce cantilenante.

“Io? Mai. Ho rinunciato ad un piano d'estrazione anni fa, ricordi?”

“C'ero anch'io, ricordi?” Gli fece eco, un'occhiata esplicita a sottolineare il concetto.

Per la sesta volta, si chiese se farlo vincere non sarebbe stata la mossa migliore.

Per la sesta volta, decise di no.

 

*

 

Si risvegliò di soprassalto allo sbattere violento della porta d'ingresso.

Ebbe appena il tempo di accorgersi della penombra che riempiva la stanza, della luce aranciata del tramonto che andava ormai spengendosi del tutto, prima che l'assenza di Clint non si imponesse quasi dolorosamente alla sua attenzione.

Si rimise frettolosamente in piedi, accorgendosi delle macchie di sudore che il corpo di lui aveva impresso sul divano. Ma l'aria della sera era fresca, l'afa dissolta insieme al giorno... doveva essere stato un incubo a strapparlo al sonno che li aveva colti di sorpresa, i loro occhi gravati dal peso di troppe notti insonni.

Scavalcò il tavolino malamente posizionato davanti al divano, calciò per sbaglio una delle bottiglie vuote disseminate sul pavimento e raggiunse la porta. Uscì sul portico e giù per i gradini, riconoscendo la figura di Clint svariati metri più avanti. Decise di assecondare l'istinto, di seguirlo, aumentare il passo e mettersi praticamente a correre per raggiungerlo, l'erba ancora calda sotto i piedi nudi.

Non ci fu bisogno di chiamarlo per attirare la sua attenzione: la ignorò per una manciata di secondi, dopodiché mise fine alla sua marcia senza meta lungo il prato adiacente al campo. Si appoggiò alla sgangherata recinzione di legno che segnava il confine su quel tratto e continuò a darle le spalle.

“Che hai visto?” Chiese, trattenendosi a stento dall'obbligarlo a farsi guardare.

Il sudore gli bagnava la maglietta in mezzo alle scapole e attorno al collo ancora umido. Esitò a risponderle e poi scosse il capo, le spalle di nuovo piegate sotto una pressione apparentemente insopportabile. Lasciò che il silenzio, il canto dei grilli e il soffio del vento si acquietassero intorno a loro, che la pausa si prolungasse... prima di voltarsi verso di lei, il viso esausto e segnato dalla stanchezza.

“Non è stata una buona idea,” lo sentì bisbigliare. Mentre ancora evitava di incrociare il suo sguardo, Clint era riuscito a liberarsi delle parole che avrebbe voluto dirle sin dall'inizio.

“Che cosa?”

“Venire fin qua.”

Nonostante Natasha sapesse che aveva ragione, nonostante condividesse a pieno, si impedì di mostrargli la benché minima indulgenza.

“Perché?”

“Lo sai perché,” sussurrò scompostamente, formulando la risposta quasi a fatica.

“Come faccio a saperlo se non mi parli?”

“Non-”

“E' per quello che è successo dopo New York, giusto?” Lo sfidò apertamente, aprendo un vaso di Pandora che avrebbe volentieri lasciato chiuso per sempre.

Perché il ricordo della sua bocca, delle sue mani ruvide chiuse attorno ai suoi seni, ai suoi fianchi, il calore del suo corpo e delle sue braccia, il suono della sua voce roca e disperata a risuonarle nelle orecchie... erano tutte cose che aveva creduto di poter gestire. Ma era stata solo una delle tante illusioni che aveva tentato di darsi a bere.

“Se ho fatto un errore,” riprese, mascherando d'astio la vergogna, “non devi far altro che dirmelo. Se vuoi che dimentichiamo tutto...”

“Non voglio dimenticare,” parlò con voce più chiara, guardandola adesso con una certa urgenza, la colpa evidente su tutto il volto.

“Se è perché ho...” fu costretta a fermarsi per un attimo, quasi la parola si rifiutasse di uscirle di bocca. “Se è per le mie... lacrime,” esalò bruscamente, malgrado tutto disgustata dal termine e dalle sue implicazioni, “lo sai che non-”

“Lo so perché stavi piangendo. Lo so che non avresti mai fatto niente che non volevi davvero... neanche per me.”

La confessione ebbe l'effetto di farla irrigidire, ma Clint continuava a non guardarla. Si dette mentalmente della stupida: ovviamente sapeva perché aveva pianto, come avrebbero potuto esserci dei malintesi? Dopotutto era con Clint che aveva a che fare, non con uno sconosciuto incapace di decifrarla.

“Però è stata una pessima idea,” gli rammentò dopo un lungo istante di silenzio.

“Lo sai che in... i-in queste cose faccio schifo, Nat.”

“Di quali cose stai parlando? Il sesso?” Stavolta non aveva intenzione di concedergli tregua.

“No... insomma, anche,” parve ripensarci, “non nel senso che faccio schifo nel sesso.”

“E' quello che hai appena detto,” puntualizzò, avvicinandosi di un passo per impedirgli di sfuggire nuovamente ai suoi occhi.

Non è quello che volevo dire,” insisté, la troppa vicinanza ad accrescere il disagio.

“Cosa volevi dire, allora?”

“Faccio schifo in queste cose. Di solito quando vado a letto con qualcuno...”

“Non sono qualcuno.”

“... finisco sempre per mandare tutto a puttane.” Trattenne un sospirò gravoso, indietreggiando appena, come a ristabilire le distanze.

“Non c'è niente da mandare a puttane. Tu non mi devi niente, Clint.”

“Non è vero. Ti devo un sacco di cose.”

“Io non voglio niente.”

“Rischio di rovinare tutto... finirai per-”

“Andarmene?”

Le sembrò sul punto di rispondere, ma finì per richiudere la bocca e limitarsi ad annuire, accompagnando il cenno con un flebile sorriso.

“Non è quello che fanno tutti alla fine?” Chiese in un soffio inudibile, infastidendosi da solo per quella manifestazione di debolezza non richiesta.

“Io non vado da nessuna parte, Clint,” allungò una mano, sfiorandogli il viso per costringerlo a sollevare il mento e ricambiare finalmente il suo sguardo. “Nessun piano d'estrazione, ricordi?”

Lo vide deglutire a fatica, focalizzare faticosamente sul suo viso e poi sbattere le palpebre una, due, tre volte, per assicurarsi di essere sveglio, di non essere prigioniero dell'ennesimo incubo. Serrò le labbra, lasciandosi prendere da un tremore improvviso, impercettibile; si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore, sforzandosi di riprendere il controllo, di aggrapparsi alla realtà circostante.

Restò a guardarla, ancorandosi a lei finché Natasha non vide il suo smarrimento – la sua paura – sciogliersi in un mezzo sorriso.

“C'ero anch'io, ricordi?” Le ritorse debolmente.

“Lo so.”

“Natasha... ?”

Si costrinse a ritrarsi appena per non invadere il suo spazio e lo esortò ad andare avanti.

“Perché sei venuta fin qui?”

“Avevo voglia di vederti.” Il suo cervello si era affannato alla ricerca di una risposta abbastanza convincente, ma alla fine la sincerità aveva avuto la meglio: era troppo stanca per deflettere, ingannare, distrarre.

“Quindi sei corsa nella mia... fattoria?” Una punta della sua solita, scanzonata arroganza.

“Non sono sicura la si possa definire fattoria.”

“Come la definiresti, allora?”

“Una baracca in mezzo ai boschi?”

Clint si mise a ridere, alleggerendo di colpo l'atmosfera.

“Non c'è niente da ridere, Barton,” lo mise in guardia, il tono artificiosamente serio, “questa è una baracca in mezzo ai boschi.”

“Te l'ho detto che sei una stronza?”

“Comincio a credere che sia il mio secondo nome.”

“E io chi sarei? La strega cattiva?”

“La strega cattiva aveva il buon senso di avere qualcosa di commestibile dentro casa...” alzò una mano per impedirgli di ribattere, “e la birra non conta come commestibile.”

“Sei ingiusta... lo sai che il 'da consumarsi preferibilmente' è il consumismo che cerca di fotterti?”

“Non quando il formaggio è scaduto da sei mesi.”

“Formaggio con la muffa fatto in casa! Non si compra anche al supermercato, comunque?”

“Sei un idiota.”

“Un idiota con una fattoria, bella.”

“Bella io o bella la fattoria?”

“Vedi? Te l'ho detto, vengo a letto con te e già mi chiedi di scegliere tra te e il mio vero amore.”

“La fattoria?”

“Pensavo non si potesse definire fattoria,” puntualizzò, scimmiottando il suo tono di voce.

“Probabilmente dovremmo rifarlo e decidere chi ti piace di più,” decretò solennemente.

“Mi sembra un'ottima idea.”

“Credevo avessi detto pessima idea.”

“No, ho detto che non era una buona idea. Infatti è ottima.”

“Sei uno stronzo, Barton.”

“E' per questo che ti piaccio.”

“Nessuno ha detto che mi piaci,” ci tenne a precisare, dandogli le spalle per puntare dritta alla casa, improvvisamente più bianca sotto la luce della luna.

“Ehi!” La voce di Clint la inseguì giù per il prato. “Eri seria quando hai detto che dovremmo rifarlo?”

Natasha non si voltò, lasciando che fosse il dito medio che aveva alzato nella sua direzione a parlare per lei.

 

*

 

Il sudore impregnava le lenzuola, i loro capelli sparsi sui cuscini schiacciati, i loro arti intrecciati in un brusco, goffo abbraccio. Il vento della notte soffiava pigramente dalla finestra socchiusa, dando solo un minimo sollievo alla pelle accaldata dei loro corpi indolenziti.

“Clint...” Gli occhi chiusi, il volto vicinissimo al suo e i loro respiri bollenti a mescolarsi l'uno nell'altro – le parole le uscirono come un sussurro. “Perché proprio questo posto?”

Il piacevole torpore, che aveva finalmente sostituito il disagio, era ormai sul punto di strapparla definitivamente alla coscienza dei sensi; eppure, nonostante comprendesse fin troppo bene perché New York l'avesse costretto a chiudersi in se stesso per raccogliere i pezzi e ricomporre il puzzle, continuava a chiedersi perché avesse scelto quella casa dispersa nel niente per farlo.

“Perché ci sei tu... nuda.”

Natasha gli pizzicò impietosamente la pancia scoperta prima che Clint riuscisse ad afferrarle il polso per tenerglielo fermo. Si sentì addosso il suo sguardo, ma non sollevò le palpebre.

“Perché mi piace il silenzio,” le concesse. “Mi aiuta a pensare.”

“E' snervante...”

“Riposante.”

“... come te.”

“Stronza.”

“Fattore.”

“Dovrebbe essere un insulto?”

“Secondo te?”

Strinse la presa sulla sua mano, accennando ad una qualche ritorsione che non arrivò mai.

“Parliamo di cose serie: quella cosa che hai fatto prima, appoggiati al muro...”

“Hai detto serie.”

“... credi che potresti rifarla?”

“Dipende.”

“Da cosa?”

“Se rifai la cosa con la bocca,” alluse. “Non quella dell'inizio, quella a metà.”

“Modest-”

Gli torse malamente il capezzolo destro con la mano libera, zittendolo prima che potesse avere il tempo di formulare una risposta di cui sarebbe stata costretta a farlo pentire.

“AHIA!” Protestò a gran voce, sussultando per la sorpresa mentre si curava di bloccarle anche l'altro polso. “Okay, okay,” esalò, come per stabilire una tregua. “Affare fatto?”

Natasha riaprì gli occhi, improvvisamente svegli, più verdi e vivaci, e gli sorrise.

“Affare fatto.”


_________________________________________

La one-shot è stata scritta meeesi fa, a rileggerla dopo aver visto (quel mega-fail di) Age of Ultron mi viene da ridere (o piangere, dipende). Manco a dirlo d'ora in avanti tutto ciò che scriverò devierà nettamente dal canon dei film. Ho tante idee che mi frullano per la testa e poco tempo (e voglia, diciamocelo) di metterle nero su bianco, ma prometto che non sparirò, né mi lascerò scoraggiare dalla fanfiction malscritta di Joss Whedon (altrimenti nota come Avengers 2). Sì, lo so che non me l'ha chiesto nessuno di rimanere, ma mi andava di dirlo :P Adesso siete tutti più calmi immagino... *ahem*
Anyway, supereremo anche questa.
Vi ringrazio se siete arrivati fin qua! Ringraziamenti di rito ad Eli/Sheep01, sostegno morale, compagna di scleri, beta e quant'altro, sperando si rimetta presto! :*
Per tutti gli altri, ci vediamo... in giro.
S.
  
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