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Autore: Jude_InTheSkyWithDiamonds    27/04/2015    1 recensioni
[Cinder]
Come ho fatto ad andare avanti?
Ho semplicemente imparato ad usare le mie doti.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Una delle cose che ricordo chiaramente di tutta la mia vita è la presenza costante della pioggia ad ogni cambio di direzione, ad ogni evento importante.
Pioveva quando i miei genitori morirono, ammalati di Letumosi. Ancora mi chiedo il perché io ne sia stato immune. Avevo soltanto cinque anni, alla fine. Come possono gli anticorpi di un bambino riuscire a resistere ad uno dei peggiori virus di questi ultimi anni?

Ho difficoltà a ricordare il viso dei miei genitori. Non sono riuscito a prendere neanche una loro foto quando sono stato portato via da casa. E quando ci sono tornato ormai era tutto distrutto.
Soltanto il sorriso di mia madre, e la sua voce quando pronunciava il mio nome. Peter.
Le volevo bene.

Vivevamo in una modesta casa in periferia della città. Non era molto grande, seppur dotata di un bel giardino pieno di fiori e di un albero, sulla quale mio padre aveva iniziato a costruire una capanna. Non riuscì mai a completarla. Si ammalò dopo pochi mesi, e l’unica cosa che aveva costruito era la base. Legno scuro, leggermente pendente per via di un problema con un ramo spezzato durante un temporale. Un fulmine aveva colpito quell’albero, lasciando miracolosamente illeso il tronco ed il pavimento della capanna. Sembrava quasi che il cielo volesse che io salissi su quell’albero, che avessi quella capanna sospesa nell’aria, quasi come se volassi. Purtroppo non fu così.

La mia stanza era abbastanza piccola, ma dopotutto un bambino piccolo come me non aveva bisogno di molto. Un letto dalle lenzuola disegnate con personaggi delle favole, le stesse che mia madre mi raccontava la sera prima di addormentarmi. Ogni giorno una diversa.
Il letto era posizionato sotto la grande finestra. Il resto della stanza era impegnata soltanto da un grosso cesto in cui tenevo i giocattoli – o meglio avrei dovuto, dato che invece preferivo lasciarli lungo tutto il pavimento, quasi come fossero delle guardie a controllare il mio sonno – ed un piccolo armadio per i vestiti.
Ero felice.
Fino a quando non si ammalarono.

Non ricordo molto di quel periodo. Ripeto, avevo soltanto cinque anni quando morirono. Quanto può essere durata la malattia? Quattro? Cinque mesi? Come può un bambino rendersi conto del tempo che passava?
Ricordo soltanto che avevano smesso entrambi di andare a lavorare, e stavano molto più tempo a letto. I loro volti diventavano più incavati, e la pelle si scorticava, si riempiva di bolle porpora. E poi non si mossero più.
Ho passato.. non ricordo se cinque o sette giorni raggomitolato in un angolo della loro stanza da letto. Con le mani sugli occhi o sulle orecchie. Avevo paura delle loro orbite incavate, degli occhi vitrei che sembravano fissarmi, e della mascella contratta che sembrava storcere il loro viso in un sadico ghigno. Ma non volevo lasciarli. Erano i miei genitori, e volevo loro bene.
Tink, la mia androide, modello pixie, continuava ad urlarmi di andare via di li. Di lasciare quella casa e di cercare un altro posto. O mi avrebbero preso.

Se tutti pensate che gli androidi  siano soltanto degli stupidi robot che aiutino i viventi, obbedendo loro, non avete mai conosciuto Tinkerbell. Mi era stata regalata da mamma per il mio quinto compleanno, qualche mese prima della loro malattia. Tink aveva una sua personalità. Era molto protettiva, ma anche gelosa, e vendicativa. Odiava particolarmente una mia compagna di giochi, Wendy. Una volta le ha tirato i capelli, facendola scoppiare a piangere. Non ricordo neanche perché. Non l’ho più rivista. Spero sia ancora viva.

Era una notte di pioggia quando mi portarono via.
Ero ancora raggomitolato nel mio angolo, quando Tink iniziò a bisbigliare. Dovevamo scappare. Loro erano arrivati. Ma io non avrei mai lasciato la mia mamma. Presi una spada giocattolo che, non so come, avevo di fianco a me. Avrei impedito loro qualsiasi cosa. Ma ero soltanto un bambino piccolo, gracile e leggermente malnutrito. Mi presero di peso e mi buttarono a forza in un librante. Era sporco e puzzava di alghe morte. Non so perché alghe, ma era così. Non ricordo molto altro. Soltanto di arrivare li. L’orfanatrofio Neverland.

Aveva un nome piacevole ed esotico. Faceva pensare a quei luoghi delle favole che raccontava mia madre.
In realtà non aveva nulla di fantastico. Era un casermone, grande e lurido. Gli orfani erano davvero pochi. Erano molti a soffrire di Letumosi, ed anche i bambini si ammalavano e morivano. Spesso da soli e spesso restavano così, senza sepoltura, ad imputridirsi.
Vi erano molte stanze, ma erano spesso subaffittate. Noi orfani stavamo in una stanza non molto grande, piena di letti. Li dormivamo e li dovevamo stare. Vi era poi la Sala mensa, con una sola tavolata. Il mangiare faceva schifo, ma nessuno si sarebbe mai azzardato a dire qualcosa.
Vi erano poi delle stanze dove nessuno di noi doveva entrare. Quelle dei “carnefici” come li chiamo io. Ed una stanza a cui solo a volte era concesso l’ingresso. Ci sono stato un paio di volte.

L’orfanatrofio era gestito da una coppia. Una grassa matrona che si occupava di preparare la nostra sbobba, ed il marito. Era alto, rinsecchito. Dalle lunghe dita giallastre e piene di calli. Gli piacevano i bambini a Mr T.
Ricordo la sua voce melliflua, e le sue dita fredde.
Sapeva come prenderci. Come farci fare tutto quello che voleva. Bastava rendere tutto un gioco.
Era un gioco quando ti costringeva a pulire i pavimenti con uno spazzolino. Era un gioco quando ti chiudeva in uno sgabuzzino per due giorni senza mangiare, senza permetterti di andare in bagno. Ed era un gioco quando ti spogliava, marchiandoti la pelle e facendo ogni cosa sporca gli passava per la mente.
Gli piacevo.
Avevo, bhe ho, un bel viso e sembravo più piccolo della mia età. A lui piacevano quelli piccoli. Quando superavi i quindici anni non gli andavi più a genio. Ormai eri un uomo o una donna. Ma il mio corpo magro e senza muscoli, il viso da ragazzino, continuarono ad andargli bene fino a quando non decisi di scappare, con gli sperduti, come ci facevamo chiamare.
Non avevo paura di lui.
Mi ha insegnato una lezione importante. Basta avere un bel faccino per poter ottenere tutto quello che vuoi. E lui fu solo il primo ad insegnarmi questo.

Quando raggiunsi i diciassette anni me ne andai. Non ero solo. Con me vi erano alcuni ragazzi con cui avevo stretto particolarmente durante i dodici anni rinchiuso li dentro.
All’inizio stavamo in gruppo.
Era facile procurarsi da mangiare quando si era in tanti. Un paio distraevano il proprietario di un negozio, gli altri rubavano il mangiare.
Sono stati cinque mesi felici. Eravamo liberi.
Ma poi tutto finì. I miei amici iniziarono a sparire. Un paio si ammalarono. Altri vennero catturati. Uno, beato lui, riuscì invece a trovare una brava ragazza. Lei e la sua famiglia lo adottarono. Adesso loro vivono insieme in una casetta in città. Hanno una vita modesta ma sembrano felice.

Come ho fatto ad andare avanti?
Ho semplicemente imparato ad usare le mie doti.

Vivevo per strada. Quando andava male dormivo nella panchina di un parco, con lo stomaco che brontolava. Quando andava bene dormivo a casa di persone a cui piaceva soltanto il mio aspetto. Non mi sentivo sfruttato. Sono sempre stato consenziente. È impossibile vivere puliti, bisogna sporcarsi le mani per andare avanti.
Ho fatto di tutto in quel periodo. Ogni cosa veniva loro in mente di farmi, accadeva.
Quando ero fortunato volevano soltanto qualcuno che li ascoltasse, che li facesse ridere, con cui bere una birra insieme. Un paio di volte è successo. Ed io sono bravo ad ascoltare e a fare ridere. A farli divertire.
La maggior parte delle volte mi capitava di svegliarmi la mattina, senza idea di ciò che era successo, con dolori ovunque. Ancora non riesco ad avere ricordi chiari di quelle sere, sai? Solo immagini sfocate.
Tinkerbell stava sempre con me.
Odiava quegli uomini – si erano spesso uomini, purtroppo – con cui passavo le mie notti e la abbandonavo nel nostro ritrovo di fortuna. Si arrabbiava, non mi parlava per ore. Ma poi tornava sempre da me. Era la mia unica amica.

Poi per un periodo ho scoperto quella polverina. Un solo tiro e raggiugevi il paese delle meraviglie e l’isola che non c’è. Con quella era tutto più facile, tutto più bello.
Non durò molto però. I costi erano saliti ed era sempre più difficile. E non avevo il tempo. Ero troppo impegnato a cercare di risalire il fondo, ad aggrapparmi ad una fune sempre più sottile, per tirarmi via dal fango.
Adesso?
Adesso sono qui. Direi che è un ottimo presupposto, non pensi anche tu?
  
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