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Autore: Dama DeLupottis    28/04/2015    1 recensioni
Certe volte si dice che il dolore va dimenticato, che bisogna conservare soltanto i ricordi felici. In realtà è la sofferenza a plasmarci, a renderci ciò che siamo. Per questo non voglio cancellare quello che ho passato, non voglio dimenticare, perché il dolore è la mia forza. Un altro motivo per cui ho deciso di scrivere e pubblicare questo, è che nessuno ti chiede cosa si prova a perdere una persona cara, nessuno fa domande, perché al momento sembrano inopportune, e da lì in poi, l’argomento finisce tra i tabù. In questo modo viene tolta anche l’opportunità di condividere, di usare un amico come valvola di sfogo, anziché reprimere tutto dentro. Nessuno si è offerto di farlo con me…e per questo…io scelgo di condividere con degli estranei. Magari fra tanti, una persona, dopo aver letto questo, si sentirà meno sola, e altre magari, riconosceranno quanto siano sciocche e inutili le preoccupazioni giornaliere che ci assillano.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il giorno più triste della mia vita. Molti direbbero che sia stato il 12 febbraio 2000. In realtà si sbagliano. O forse mi sbaglio io, potrebbe anche essere. Quel che è certo, è che quel giorno ha sconvolto la mia vita, lasciandomi una cicatrice invisibile, una delle più dolorose che abbia mai dovuto sopportare. Chi è stato ad infliggermela? Mia madre, o forse mio padre, o meglio ancora il destino, che chissà perché…fra tante bambine, ha scelto proprio me.
 
A comunicarmi la notizia in ogni caso, è stata mia madre, con la frase: “Il papà è volato in cielo”. Qual è stata la mia reazione? Una bambina normale avrebbe pianto. Io invece…ho riso. Bizzarro eh? Ho riso di fronte al suo volto quasi sfigurato dal dolore. Non lo facevo per cattiveria, semplicemente…non ci credevo. Le ho detto: “No stai scherzando! Non è vero!”, ho continuato così per quasi un minuto, credendo che lei avrebbe ceduto e mi avrebbe detto la verità. Ma purtroppo, quella, era la verità. A poco servivano le parole “cielo” ed “angeli” per addolcirla. Avevo solo sei anni, ma capivo perfettamente che non avrei mai più rivisto il mio caro papà.
 
A dire il vero, l’avevo quasi sospettato, vedendolo così stanco in quel letto bianco d’ospedale, ma anche in quei giorni, mi davo della stupida e mi dicevo: “E’ forte! Guarirà!” Perché appunto, non ci credevo, ma stando ai fatti…dovevo imparare a farlo.
 
Non ricordo cosa ho pensato nel momento in cui ho realizzato questo, forse niente. Ricordo però di aver detto: “Meglio!” e al rimprovero inorridito di mia madre ho risposto: “Ma l’hai detto anche tu quando è morta la zia! Hai detto che era meglio così perché aveva smesso di soffrire!” Questo era ciò che intendevo, perché, come ho detto prima, ero piccola, ma ne avevo vista tanta di sofferenza nei suoi occhi, insieme a rabbia, tristezza, rassegnazione. Neanche ora riesco ad immaginare quanto possa soffrire un padre, sapendo con certezza che non vedrà mai sua figlia crescere. Dev’essere devastante! Forse ancora di più che esserne la figlia in questione.
 
In ogni caso, mi sono limitata a quella frase di circostanza, non volevo piangere perché anche lei si sforzava di non farlo. Continuavo a dirmi che doveva succedere prima o poi, che non avrebbe potuto continuare a vivere così, anche se io speravo davvero che sarebbe guarito. Nella vasca da bagno però, non ho più resistito e ho cominciato a singhiozzare fino quasi a farmi mancare il respiro. Non ricordo ciò che mi disse, ma poco importa, perché tanto niente sarebbe riuscito a consolarmi, nemmeno il fatto che si trovasse in Paradiso. O forse un pochino sì, forse a quei tempi, bastava ancora.
 
Andammo in ospedale, e scesi anch’io nella sala mortuaria, lo vidi, ma non piansi, perché sembrava così sereno e tranquillo, come se stesse dormendo. Lui stesso mi aveva detto quella frase, quando per la prima volta, in braccio a lui, a cinque anni,  avevo fatto visita ad una signora morta. Mi aveva sussurrato all’orecchio: “Guarda! Sembra che dorme!” La morte, stando fra le sue braccia, non faceva così paura, perché con lui mi sentivo al sicuro. Non riuscivo a capire perché una donna, non voleva far scendere sua figlia a vederlo, in fondo a mio parere, non faceva paura, e non doveva fargliene, perché tanto quello era mio padre e non il suo. Invece tutto, quel giorno, funzionava al contrario: lei era triste, io invece saltellavo cercando di mostrarmi felice, beccandomi un sacco di rimproveri da parte di mio nonno. Non riesco tuttora a giustificare quel comportamento assurdo, ma si sa, ognuno al dolore, reagisce a modo suo.
 
Anche al funerale mi sono imposta di mantenere quella maschera da dura: sono stata forse l’unica tra i parenti stretti a non versare una lacrima. Lo facevo per mostrarmi forte agli occhi degli altri, di fronte a mia zia, vedova da un anno, ma soprattutto, di fronte a mia mamma, vedova per la seconda volta.
Non piansi quando la bara venne calata sotto terra, né quando venne ricoperta, al contrario delle mie amiche, che non sono riuscite a restarmi accanto e sono tornate in lacrime dai loro genitori. Io non capivo tutto il loro dolore, in fondo, come ho detto prima, il padre era il mio.
 
A questo punto penserete che forse non ero molto affezionata a lui…beh vi sbagliate! A mio parere era il padre migliore del mondo, il mio eroe! E forse proprio per questo, non riuscivo ad accettare la sua morte, a tal punto che inconsciamente la negavo.
 
Sì, proprio così! Le notti successive non ho fatto altro che sognare mio papà sorridente, che mi raccontava più e più volte di come aveva rotto la bara e fosse uscito dalla terra. In poche parole…di come fosse resuscitato, per rimanere al mio fianco ancora tanti e tanti giorni.
 
Poi con il tempo, anche il mio cocciuto cervello se n’è fatto una ragione, ha smesso di sognarlo, di parlare di lui, e addirittura di pensarlo. Con il tempo ho scordato la sua voce, ma proseguendo con gli anni, la ferita che pensavo si rimarginasse, si riapriva sempre di più. Bastava vedere una bambina che dopo il catechismo correva incontro “all’uomo della sua vita” per farmi venire subito gli occhi lucidi.
 
Ma… dobbiamo ancora arrivare al giorno più triste della mia vita: il 9 febbraio 2011, ossia il funerale della mia cara nonnina, sua madre, morta anche lei a causa di un maledetto tumore. La sua scomparsa, mi ha sfasciato il cuore. La consideravo come una seconda mamma per me, anzi, la mia, quella vera, una volta ha detto “si può dire che ti ha cresciuta lei!”
 
Sì, io anziché avere una madre e un padre, dai sei anni ai diciassette, ho avuto una madre e una nonna, la migliore che potessi desiderare. Lei è sempre stata una guida per me. Per i primi tempi, è stata la mia babysitter in un certo senso, perché mia mamma ovviamente, ha dovuto rimboccarsi le maniche tornando a lavorare, e dovendo superare numerose difficoltà, tra le quali le minacce di uno stalker che si era invaghito di lei, quando ancora non esisteva la legge volta a tutelare situazioni del genere.
 
Comunque, tralasciando questo incubo, che in parte anch’io ho vissuto, mia nonna si è sempre presa cura di me, insegnandomi le buone maniere e soprattutto, dandomi tanto da mangiare, come qualsiasi brava nonna è solita fare.
 
Lei, ancora oggi, è il mio modello di vita: ha sopportato un marito freddo e molto rigido, sia con lei che con i figli, ha lavorato nei campi per anni sotto il sole, ha perso un figlio, ha lottato contro un tumore e l’ha sconfitto, ma ha perso contro l’ultimo, battendosi però per mesi e mesi contro quella malattia che la divorava da dentro, senza mai perdere la sua grinta, il suo sorriso e soprattutto, la sua fede. Si spegneva con essa, in preghiera, dopo giorni di agonia, sotto una massiccia dose di morfina.
 
Il mio mondo crollò alla notizia della sua morte, nonostante avessi avuto mesi di tempo per prepararmi. Lei era la mia forza, sempre e in ogni caso, sia che dovessi affrontare un compito in classe, una visita poco piacevole o un intervento chirurgico. Il suo ottimismo mi tranquillizzava, e anche mentre si spegneva in quel letto d’ospedale, mi rassicurava dicendomi che l’intervento di riposizionamento mandibolare e mascellare che avrei dovuto affrontare un anno più tardi, sarebbe andato tutto bene. “ Starai bene!” mi disse: “Andrà tutto bene. Deve andare bene!”.
 
E’ morta di sera, mentre io su facebook chattavo con mio cugino, dandogli consigli su come conquistare una ragazza. Solitamente mia nonna trascorreva le sue vacanze estive in montagna a rimproverarlo per i suoi infiniti dispetti nei miei confronti: creavamo sempre un casino assurdo attorno a lei, ma era sempre felice di averci in vacanza insieme. Un nuovo inizio era quello di quella sera. Mio cugino ha detto: “Sarà stata felice di vederci andare d’accordo per una volta!” Io però, anziché sorridere, continuavo a piangere, cercando di nascondermi da mia mamma e gli scrivevo: “Sono devastata!” e alla sua risposta: “Lo sono anch’io!” mi sentivo meno sola.
 
Mia mamma ormai non piangeva più, probabilmente perché aveva finito le lacrime nel lontano 2000 e continuava a dire a tutti: “Lo sapevamo. Eravamo preparati!” Forse sì, lo sapevo, ma niente poteva prepararmi a questo. Niente poteva prepararmi al giorno del suo funerale, nel quale rivissi anche quello di mio padre, e quello di mio nonno (avvenuto nel 2009).
 
Tutte quelle perdite dolorose si sono sommate insieme e di fronte agli sguardi compassionevoli che mi rivolgeva la gente al cimitero, sono scoppiata in singhiozzi atroci. Nessuno dei miei famigliari però si è avvicinato: mi hanno lasciata sola, ad affrontare il mio dolore, forse perché non volevano dare spettacolo, facendomi piangere ancora di più, forse perché sapevano che il mio orgoglio non se lo sarebbe mai perdonato, o forse perché semplicemente si sentivano impotenti di fronte a tutto quello che provavo.
 
Sentivo che la mia vita, come era stata sino ad allora, era finita, che una parte di me era morta con lei, come altre parti se n’erano andate con mio papà e mio nonno. Non le avrei mai riavute indietro. Non sarei stata più la stessa. La persona che conoscevo, era morta per sempre, e temevo la persona che un ignoto futuro mi avrebbe fatto diventare. Quale altra sofferenza mi avrebbe riservato? Chi sarebbe stato il prossimo a lasciarmi? E quando? In che modo? Sarei riuscita a sopravvivere ancora una volta?
 
Davanti a me vedevo solo il vuoto. Rimanevano soltanto ricordi dolorosi e nessuno che fosse in grado di darmi la forza di reagire. Ormai non potevo più contare sulla sua, spettava soltanto a me trovarla, ma in quel momento non avevo la minima idea di come fare, volevo soltanto lasciarmi andare.
 
Questo è stato decisamente il giorno più brutto della mia vita, il giorno in cui mi sono sentita sola, sconfitta e disperata. La profezia dei Maya, riguardo alla fine del mondo prevista per dicembre 2012, non mi creava più ansia, anzi,…mi dava sollievo. Ero quasi felice, e speranzosa che si avverasse, per poter raggiungere tutti i miei cari, nel caso esistesse un qualcosa dopo la morte, o soltanto smettere di soffrire in caso contrario.
 
Ora, non voglio che pensiate che volevo suicidarmi. Non mi ha mai sfiorato l’idea, però…in quei giorni, non avevo paura di morire, semplicemente perché non credevo di aver qualcosa da perdere.
 
Eppure mi sono rialzata, dopo pianti strazianti, dopo aver urlato più volte “Perché mi hai lasciato?” ho deciso di voltare pagina anche per lei, che non avrebbe assolutamente voluto vedermi così. E oggi…sto bene, per modo di dire.  A volte ci sono dei giorni in cui piango, perché vorrei riabbracciare i miei nonni, e ancor di più mio padre, soprattutto perché mi rendo conto che so molto poco di lui, che non ho avuto il tempo di chiedergli parecchie cose; però tengo duro, affronto tutte le prove che la vita mi pone davanti, sia fisiche che psicologiche e più vado avanti, più mi sembra che niente possa più scalfirmi tanto (se non la perdita di un’altra persona cara). Non c’è delusione d’amore o d’amicizia che tenga, non c’è dolore più grande rispetto a quello che ho passato e che ho vinto, ma tanta forza, e voglia di vivere.
 
E oggi, che mi preoccupo e mi affliggo per uno stupido esame, o per una laurea che sembra irraggiungibile, continuo a ripetere a me stessa: “Se questa è la tua più grande preoccupazione, vuol dire che al momento, hai davvero una bella vita”.
 

 
  
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