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Autore: Tresor    28/04/2015    2 recensioni
Un attimo.
Uno soltanto di disorientamento.
Come quando cerchi di dare al cervello il tempo di realizzare e decodificare un’immagine che sta guardando e che non riconosce immediatamente.
Un solo istante Marco fissò il corpo sottile e perfetto che gli si era schiuso davanti, scoperto improvvisamente dalla candida pelliccia di ermellino.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 1





Un attimo.

Uno soltanto di disorientamento.

Come quando cerchi di dare al cervello il tempo di realizzare e decodificare un’immagine che sta guardando e che non riconosce immediatamente.

Un solo istante Marco fissò il corpo sottile e perfetto che gli si era schiuso davanti, scoperto improvvisamente dalla candida pelliccia di ermellino.

E schizzò indietro, imprimendo una spinta alle ruote della poltrona su cui era seduto.

Uno stridio sul pavimento lucido e si ritrovò a qualche metro di distanza.

Scattò in piedi e distolse lo sguardo dalla sofisticata quanto esigua biancheria intima che appena copriva le grazie di Elisabeth Maison.

Le iridi verdi si assottigliarono pericolosamente e gliele puntò negli occhi, sconcertato e furioso.

  • Che diavolo stai facendo? Copriti immediatamente ed esci di qui! – Le intimò, i denti serrati per l’indignazione, la voce un ruggito basso, sinistro.

La donna di rimando gli sorrise senza lasciarsi impressionare dal suo scatto ribelle, quasi lo avesse previsto, e avanzò di qualche passo sulle vertiginose Laboutin di vernice nera.

  • Sicuro che non ti interessa nemmeno un pochino? – Lo provocò, il tono suadente e allusivo.

  • Grazie, no! E ora vattene, per favore, e fingerò che questo non sia mai accaduto. –

  • Oh, ma non è ancora accaduto niente! ... – Lo liquidò lei con un gesto elegante delle dita laccate di rosso.

Marco aggirò l’enorme scrivania e afferrò il cordless, allontanandosi al centro dell’ufficio per mettere ulteriore distanza tra sé e quella pazza.

Pigiò un pulsante e attese pochi secondi.

  • Signore? – Fece la voce profonda dell’addetto alla sicurezza dall’altra parte.

  • James, puoi venire nel mio ufficio? Ho bisogno che accompagni fuori una persona indesiderata. -

  • Si, signore, arrivo! –

Marco richiuse la comunicazione e gettò l’apparecchio attraverso lo spazio sul divano a pochi metri da loro.

  • Ricomponiti ed esci, Elisabeth, la tua visita non è gradita. – La apostrofò gelido.

Non poteva crederci che stesse accadendo davvero.

Non aveva mai fatto niente per indurla a prendersi alcuna libertà.

Perché diavolo erano finiti in quella situazione assurda senza che nemmeno avesse potuto prevederlo?

  • Non vuoi ripensarci, mio bellissimo ragazzo prodigio? ... Potremo divertirci io e te… -

  • Sono già impegnato, non mi interessano le tue profferte. –

  • Impegnato con la principessa? – Un gesto grazioso della mano affusolata attraversò l’aria noncurante, mentre sul viso perfettamente truccato le si dipingeva un’espressione di disgusto. – Un uomo come te non può accontentarsi di un… -

  • Non osare pronunciare neanche una parola meno che rispettosa su Irene, bada! –

Lei sospirò come se avesse dovuto avere molta pazienza con lui.

  • Oh, non volevo dir nulla di male! ... – Lo liquidò leggera. – Ma mi sono sempre domandata se sua altezza fosse abbastanza per soddisfare gli appetiti di un uomo come te… -

  • Non credo siano questioni di tua pertinenza, esci o ti faccio sbattere fuori! –

  • Si, ho sentito che sta arrivando il tuo tirapiedi… ma fai ancora in tempo per fermarlo e riconsiderare le… -

La porta automatica si aprì d’un tratto e Marco si girò sollevato dell’arrivo di James: finalmente avrebbe messo fine a quell’incongruenza e se ne sarebbe tornato a casa.

  • Cazzo! –

Un sorriso divertito si allargò sul volto di Elisabeth, che nel frattempo non si era neppure preoccupata di ricomporsi, mentre due occhi azzurri si sgranavano su di lei e sulle sue curve impunemente messe in mostra.

I piedi di Irene rallentarono fino a fermarsi del tutto davanti a una scena che non riconosceva.

Aveva sbagliato ufficio.

Si disse convinta.

Anche se l’arredamento era quello dell’ufficio di Marco.

E i colori.

E le enormi vetrate al soffitto da cui si vedeva il Tamigi e il Tower Bridge.

Ma qualcosa non andava lo stesso.

All’improvviso, d’istinto, girò su se stessa, sopraffatta da un imprevisto e fastidioso bisogno di fuggire, e si gettò fuori dalla porta da cui era entrata.

Non capì perché d’un tratto il cuore aveva preso a batterle forte e il respiro faceva fatica a uscirle.

Pigiò il pulsante dell’ascensore e attese un tempo infinito che le porte si spalancassero e la riaccogliessero per riportarla giù.

  • Irene, ti prego! –

La voce di Marco, dietro di lei, la inseguì.

Ma lei non si volse, continuando a spingere il pulsante anche quando le porte si aprirono al piano.

Le girava la testa.

Entrò e spinse un bottone a caso sul touch screen dei piani.

L’uomo entrò con lei e le porte si richiusero.

L’ascensore cominciò a scendere.

  • Irene, ti prego, ascoltami! – Tentò senza fiato, cercando di scorgere il suo viso.

Ma Irene gli aveva voltato le spalle e fissava ostinatamente, pur senza vederlo, il panorama notturno di Londra che scorreva fuori dalle vetrate della cabina.

Respirava appena, lo stomaco contratto da un dolore sordo e sconosciuto.

E tremava come se avesse avuto improvvisamente freddo.

  • Non è successo niente, Irene, credimi. –

Lei non si mosse.

  • Amore, per favore, girati! –

La preghiera divenne un soffio.

Un sussurro nel silenzio della abitacolo di cristallo.

Un grido disperato senza voce.

Frugò nelle tasche della giacca, trovò il mazzo di chiavi che cercava, ne prese una dalla forma singolare e la strisciò contro la fotocellula sulla plancia della tastiera a parete alle sue spalle.

Di colpo l’ascensore rallentò fino a fermarsi del tutto.

56° piano.

Irene trasalì per la sorpresa, ma continuò a rimanere nella sua posizione ostinatamente.

Dopo un momento un suono elettronico proveniente dall’interfono li sorprese.

Marco rispose a James che lo chiamava.

  • Signore, ha fermato lei l’ascensore? – Prevedibile la domanda dalla voce dell’uomo.

Marco ispirò e rilasciò il fiato.

  • Si, James, sono stato io… Miss Blackney è con me. – Rispose con voce ferma.

  • D’accordo… - James assentì, esitante, ma non sembrò convinto. – Avete bisogno di qualcosa, signore? –

Marco si concesse una pausa, nella quale guardò Irene, immobilizzata davanti a lui.

  • Tra poco ci muoviamo… - Disse poi. Gli parve di vedere un sussulto lungo le braccia di lei. Ma non ne fu sicuro. – James, scorti fuori dallo Shard la persona che è rimasta nel mio ufficio, per favore! –

  • Certo, signore, provvedo subito! ... –

  • Grazie. –

Una pausa dall’altra parte.

Poi…

  • Le serve altro, signore? –

  • No, la ringrazio, scendiamo tra poco, ci dia qualche minuto. –

  • Naturalmente, signore. –

La comunicazione si interruppe e il silenzio avvolse nuovamente l’ambiente.

  • Sblocca immediatamente l’ascensore! –

La voce monocorde di Irene lo raggiunse facendolo sobbalzare per la sorpresa.

Marco ispirò di nuovo, profondamente.

  • No, devi ascoltarmi! – Replicò cercando di mantenere una calma che non provava affatto.

  • Non c’è nulla da dire. –

  • Si, invece. Non è successo niente… -

Irene si lasciò sfuggire un gemito prima che avesse potuto controllarlo.

E si detestò.

Avrebbe voluto padroneggiare meglio lo stordimento che provava.

La fitta di dolore atroce che le si stava propagando in ogni fibra del corpo e che era partita dal centro del cuore come una scheggia impazzita e affilata.

Senza preavviso.

Spezzandola.

  • Ascoltami… Non nego niente di quello che hai appena visto… -

Irene tremò ancora, sgomenta.

E Marco se ne rese conto.

Ma si impose di non cedere alla disperazione che pur stava cercando di divorarlo.

Se l’avesse lasciata prevalere, non sarebbe più riuscito a parlare.

E non se lo poteva permettere prima di aver fatto ogni tentativo per farle comprendere come erano andate le cose.

  • tuttavia non ne sono responsabile… Elisabeth Maison è arrivata qualche minuto fa nel mio ufficio per … -

  • Non voglio sentire niente… -

  • per la cena di beneficenza della prossima settimana… Le ho spiegato che noi avevamo già versato il nostro contributo. Ha risposto che ne era al corrente, ma che non era quello che le interessava.

Io ero seduto dietro la scrivania.

Lei l’ha aggirata e si è fermata davanti a me.

Non ho capito il suo gesto finché non ha fatto scorrere le mani lungo i bordi della pelliccia e l’ha scostata da sé per mostrarmi che non aveva niente addosso.

Mi sono allontanato immediatamente e mi sono alzato, intimandole di ricomporsi e andarsene.

E poi ho chiamato James perché la accompagnasse all’ingresso.

Puoi chiederglielo per conferma: l’hai incrociato in corridoio arrivando. –

Irene scrollò la testa come a voler lasciare fuori da sé quella spiegazione inutile.

  • Non ha più nessuna importanza… - Mormorò inerme.

  • Si che ne ha… Non ho fatto niente… non l’ho toccata… non le ho chiesto io di venire stasera… neppure sapevo che si sarebbe presentata… non l’ho desiderata, né mi importa niente di lei…

Irene, ti prego, credimi.

Non c’entro niente.

Me la sono ritrovata addosso all’improvviso senza sospettare le sue intenzioni. –

Irene emise un suono strano, come una risata.

  • Sblocca questo maledetto ascensore, ti ho detto! – Ripeté ostinata.

  • NO! –

Stavolta Marco alzò la voce e lei trasalì.

Lui se ne accorse e buttò fuori l’ennesimo respiro frustrato, cercando di controllare la voce.

Ma avrebbe voluto urlare.

Rompere qualcosa.

Distruggere.

Tanta erano la furia e l’esasperazione.

E la paura.

Delle conseguenze.

  • Guardami, per favore! – Le chiese più dolcemente.

Ovviamente lei non gli diede ascolto.

  • Ti prego, Irene, guardami! – Le ripeté, la voce una nota bassa, quasi un sibilo tra le labbra esangui.

Ancora gli si oppose.

Allora lui ridusse la già esigua distanza tra loro e d’un tratto Irene percepì l’oppressione della sua presenza alle spalle.

E con essa il calore familiare del suo corpo.

E il suo respiro agitato tra i capelli.

Tremò d’aspettativa e di timore.

Sentì la sua furia come un’onda di energia pura che la avvolgeva.

E l’impotenza che gli suscitava la propria opposizione.

Si addossò ancor più al corrimano che la divideva dal vetro come a volersi allontanare.

Non riusciva quasi a sopportare la sua vicinanza, malgrado ogni cellula di sé urlasse la propria appartenenza a quelle di lui.

  • Irene, ti supplico… Tu conosci ogni mia espressione, ogni mio odore di quando facciamo l’amore io e te… guardami, ti prego: ho la faccia o l’aspetto di uno che stava facendo sesso? Guardami e dimmelo! –

Le mani di lei si aggrapparono al corrimano.

Gli sembrava quasi di svenire per la nausea al solo pensiero di doversi voltare e vedere quel che non avrebbe voluto sapere.

  • Fammi uscire di qui! – Pregò ancora, stavolta con minor fermezza.

  • Prima guardami… Non ho fatto niente… non ti ho tradita, non ho mai, MAI pensato nemmeno di farlo…. Non permetterò a una puttana che si è portata a letto la metà degli uomini di questo grattacielo di intromettersi nella nostra vita e la rovini….

Non permetterò a nessuno di metterci l’una contro l’altro senza far niente per impedirlo.

Nemmeno a te!

Ti amo. -

Passò dall’inglese all’italiano della loro intimità, facendola rabbrividire.

Non era leale.

Protestò dentro di sé, agonizzando.

  • Più di ogni altra persona su questo pianeta.

Più di me stesso.

Sei l’unica donna che abbia mai amato e che amerò fino alla fine dei miei giorni.

Nessuno oserà dividerci prima che io abbia fatto l’impossibile per evitarlo.

Perciò… - Raccolse un altro respiro profondo mentre soffocava terrorizzato. - … perciò guardami e giudica tu stessa, girati… per carità!! –

L’ultima implorazione la pronunciò in un soffio, ma alle orecchie di Irene suonò come un grido disperato che le schiantò il cuore.

Si prese qualche momento per trovare le forze di rimanere in piedi.

Deglutì e non le parve mai tanto difficile.

Sollevò la testa e tuttavia si rifiutò di guardare il riflesso di lui nei vetri.

  • Irene… -

Trovò il coraggio di girare su se stessa e al tempo stesso Marco fece un solo passo indietro per concederle un po’ di spazio, ma non troppo perché le fosse impedito di sentirlo.

Lei alzò lo sguardo in alto per compensare la differenza di altezza e si soffermò su una macchia inesistente sulla sua cravatta di seta grigio antracite, perfettamente annodata sulla camicia bianca.

Contò i bottoni del gilet scuro che facevano capolino dalla giacca aperta del completo Armani.

I pantaloni ricadevano impeccabili sui fianchi stretti e sulle lunghe gambe.

Poi risalì sui gemelli di platino ai polsini della camicia, che appena si intravedevano.

E ancora più su.

Era tutto perfetto.

Curato.

Ineccepibile.

Elegante su quel corpo perfetto d’uomo.

Non una piega.

Un’ombra.

Una macchia.

Soltanto elegante perfezione sartoriale.

  • Guardami! – Le sussurrò di nuovo lui.

Richiamandola a sé nella sua esitazione.

Irene lo fece e incontrò dapprima la sua bocca schiusa e tirata in una piega dolente.

Era adorabile anche nella sua sofferenza, e perfetta anch’essa.

Le labbra piene, come disegnate, morbide e dal sapore conosciuto.

Le si torse lo stomaco al solo ricordo di quel che significava baciarle e sentirle su di sé, dolci, imperiose, delicate ed esigenti, impudenti e adoranti.

Avrebbe voluto toccarle.

Baciarle.

Ripristinare quel filo di intima comunione che aveva con esse da sempre.

Le dita fremettero dal desiderio di raggiungerle.

E tuttavia non lo fece, sopraffatta dal malessere che le scivolava ancora sotto pelle e non la lasciava in pace.

L’immagine, seppur fugace di Elisabeth Maison, si sovrapponeva prepotentemente nella sua mente, anche se non riusciva a collocarla in uno scenario definito perché nulla in realtà aveva visto.

Inalò una boccata d’ossigeno come a voler raccogliere un coraggio che minacciava di venirle meno.

Marco trattenne il proprio come per riflesso, profondamente nervoso.

E tuttavia non osò proferire parola prima di poter incontrare i suoi occhi inquieti, spaventato di incrinare, se non addirittura spezzare definitivamente, la speranza che non si tirasse indietro da un momento all’altro e gli sfuggisse.

Attese.

Interminabili istanti.

Il cuore in gola.

I pensieri congelati.


Irene distolse lo sguardo e risalì percorrendo il profilo squadrato del suo volto, la pelle liscia come se si fosse appena rasato, che sapeva morbida, il naso dritto, perfetto come ogni altro particolare.

Esitò ancora un momento prima di essere irrimediabilmente irretita dal verde smeraldo degli incredibili occhi dal taglio allungato e lì fissarsi e sprofondare.

Belli, magnetici, ombreggiati dalle lunghe ciglia scure, incupiti dalla tempesta furiosa che agitava il loro proprietario.

Colmi di mille parole ancora non dette.

Di emozioni violente e contrastanti.

Era stata la loro luce brillante e potente ad averla affascinata in lui, dieci anni prima.

La loro voce muta eppure chiara ad aver parlato al suo cuore la prima volta che i loro sguardi si erano incrociati, rimanendo allacciati per sempre.

Limpidi e al tempo stesso tempestosi.

Sinceri e leali.

Come in quel momento.

Non l’avevano mai ingannata quegli occhi bellissimi.

Le era sempre stato sufficiente affondare in essi per capire ed essere certa della loro devozione.

Dell’amore che le riversavano addosso instancabili.

Trovò finalmente la forza di liberarsi dalla sgradevole sensazione di minaccia e repulsione che aveva provato entrando in ufficio, e guardarlo nella sua interezza.

Sollevò le mani tra i suoi capelli ramati, con le dita gli prese una ciocca che gli era scivolata sulla fronte e gliela portò indietro, adagiandola delicatamente insieme agli altri, soffici e un po' lunghi.

Gli sistemò qualche filo dietro l’orecchio sinistro mentre Marco, respirando appena, si concedeva di chiudere gli occhi per un momento, sopraffatto dalla sensazione di cauto sollievo per quei suoi gesti gentili.

Senti le sue mani leggere che gli sfioravano le guance e infine si fermavano a un millimetro appena dalle sue labbra senza tuttavia toccarle.

Riaprì gli occhi e la guardò, sospeso in quell’attimo singolare.

Ma lei fissava le sue dita contro la sua bocca.

Rimasero così per un tempo indefinito, abbracciati dal silenzio e dal rumore assordante dei battiti irregolari dei propri cuori che cercavano di parlarsi a dispetto dei loro padroni.

  • Andiamo a casa, ti prego. – Gli disse in un sussurro appena udibile, e depose le dita, lieve come una piuma, sulla pelle soffice e umida delle sue labbra perfette.

Marco trasalì e rilasciò il fiato, accorgendosi solo in quell’istante di averlo trattenuto dal dolore che gli inviarono i polmoni subito dopo.

Il respiro soffuse un piacevole calore sui polpastrelli di Irene.

D’istinto annullò la già esigua distanza tra sé e lui, portò il proprio corpo ad aderire completamente contro il suo.

I muscoli tesi si modellarono sulle sue curve, riconoscendole istantaneamente, e in qualche modo rilassandosi, sebbene soltanto un poco.

Ma Marco non si mosse.

Non ancora.

Irene ritirò le mani e le fece scivolare lungo le spalle, sull’ampio torace, fasciato dalla stoffa preziosa dei vestiti, giù sull’addome e intorno ai fianchi.

Lo abbracciò, facendo scorrere le braccia sotto la giacca, e appoggiò la fronte sul nodo della cravatta.

Inalò a fondo, riempiendo i sensi della fragranza fresca e speziata del suo Bulgari.

Adorava il modo in cui quel profumo diventava particolare a contatto con l’odore della sua pelle.

Personale, inconfondibile, morbido.

Non avrebbe mai potuto confonderlo con nessun altro, perché su nessuno avrebbe assunto quella sfumatura così sensuale.

Lo strinse forte e subito fu avvolta dalle sue braccia, che la accolsero e la chiusero in un bozzolo protettivo, facendola sentire immediatamente al sicuro.

Percepì il corpo di lui rilassarsi del tutto.

La tensione fluire via come fosse stata acqua.

Ogni muscolo distendersi e adattarsi a lei, premendole contro dolce.

Marco piegò la testa sulla sua, affondando il volto nei suoi capelli soffici e ispirò a sua volta finalmente libero di respirare.

Le diede un bacio e serrò un po' di più il proprio abbraccio.

  • Ti amo! – Le sussurrò. – Nessuno potrà mai cambiare questo... Ti appartengo e sarà così per sempre. Non accadrà mai che questo possa cambiare. Il giorno in cui tu non sarai più il centro della mia vita, vorrà solo dire che sarò morto! Non dimenticarlo mai. -

Irene tremò tra le sue braccia, ottenendo di essere stretta ancora di più.

Si crogiolò in quelle parole che non erano nuove, ma ogni volta pronunciate col cuore.

Quel suo cuore limpido, grande, che, lo sapeva, in tutti quegli anni aveva trovato la forza di battere solo per lei e per nessun altro.

Che altrimenti si sarebbe arrestato tanto tempo prima sotto i colpi impietosi di un destino che non avrebbe dovuto essere il suo.


E invece era lì, che viveva agitato sotto il suo orecchio in quel momento.

  • Andiamo a casa, amore, ti prego! – Gli chiese di nuovo.

Voleva gettarsi alle spalle quella terribile serata.

Cancellarla e riprendere le proprie vite, dimenticandosi del malessere brutale che le aveva sconvolte, e di tutte le persone sgradevoli e assurde, invidiose della loro felicità così faticosamente conquistata e che nessuno avrebbe mai potuto comprendere fino in fondo.

  • Va bene, andiamo. –

Marco assentì, ma non la lasciò andare.

Né lei fece cenno di volersi slacciare da lui.

Era l’unico posto dove si sentiva bene e rinunciarvi era un sacrifico che non avrebbe voluto fare, anche se significava semplicemente riprenderlo più tardi, quando sarebbero stati al sicuro della propria casa.


Il familiare suono elettronico dell’interfono incrinò la pace perfetta.

Marco sollevò la testa e la volse verso la parete alla sua sinistra.

A malincuore sciolse un braccio che teneva avvolto intorno alla vita di Irene e aprì la comunicazione.

  • James! –

  • Signore... Il suo ufficio è stato bonificato. –

Istintivamente sorrise: impossibile dimenticarsi che quell’uomo un tempo era stato un militare.

  • Grazie, James, stiamo tornando su. –

  • Ricevuto, signore. –

  • Le spiace avvertire Andrew giù in garage che scendiamo a breve, per favore? –

  • Naturalmente no, signore, provvedo subito. –

  • La ringrazio. A tra poco. -

Marco disattivò l’interfono e riavviò la cabina, reinserendo il numero del piano.

Poi tornò a riabbracciare il corpo morbido abbandonato sul suo petto.

  • Prendo le mie cose e ce ne andiamo. – Disse sottovoce.

Irene sospirò d’accordo.


Qualche istante dopo le porte dell’ascensore si spalancarono nel vasto atrio immerso nel silenzio.

Era impressionante la pace che calava dopo una certa ora in quegli ambienti che di giorno pullulavano di gente indaffarata.

La luce soffusa dell’illuminazione serale sembrava restituire una pace irreale e atavica che non gli apparteneva, invitando quasi a muoversi in punta di piedi per non disturbare.

Marco sciolse Irene dalla sua stretta e le poggiò leggero una mano in fondo alla schiena, invitandola a uscire.

Come sempre un sottile, piacevole brivido percorse la pelle di lei a quel gesto che sapeva di possesso e di gentilezza al tempo stesso.

  • Puoi aspettarmi qui, se vuoi... – Le disse lui davanti alle porte di cristallo del proprio ufficio.

La guardò, lo sguardo protettivo, ma scuro di inquietudine.

Irene non indugiò neppure un istante in sciocche riflessioni egoistiche.

Fece scivolare le dita tra quelle della mano di lui, intrecciandole, e lo segui sicura.

Non lo avrebbe mai lasciato solo, mai in nessun momento della loro vita, quando avesse avuto bisogno del suo sostegno.

Marco ricambiò stringendo la presa, si fermò mentre la fotocellula spalancava l’ingresso, e si portò la sua mano alle labbra per posare un bacio sul dorso in un muto ringraziamento.

Anche l’ufficio era avvolto nella bassa illuminazione a risparmio energetico che scattava automaticamente dietro comando del timer, e soffondeva l’immenso ambiente di ombre avvolgenti e discrete.

Le decine di monitor al plasma sulla parete laterale erano andati in stand by, tagliando fuori il mondo dell’informazione per quel giorno che si avviava alla fine.

Anche i display dei computer su un lato della scrivania si erano acquietati, riproducendo lo screen saver con il logo stilizzato dell’azienda.

Silenzio che si appropriava di ogni angolo.

Nessuna traccia dello spiacevole inconveniente accaduto solo poco tempo prima.

La poltrona era tornata al suo posto, probabilmente un gesto accorto di James Avory quando aveva accompagnato fuori la Maison.

Marco si staccò da lei, dando un’occhiata fugace tutt’intorno, e percorse a lunghe falcate i metri che lo dividevano dal tavolo per recuperare la 24ore e lo smartphone da uno dei cassetti.

Irene lo aspettò seguendolo con lo sguardo.

Poi con la coda dell’occhio scorse un’ombra scura su uno dei cuscini del divano.

Incuriosita lo raggiunse e trovò il cordless abbandonato.

Lo prese e andò verso la scrivania per riporlo sulla sua base.

Marco intercettò il suo gesto e fece una smorfia infastidita.

  • Ce l’ho scaraventato io prima quando ho chiamato James. – Le spiegò, lanciando un’occhiataccia obliqua all’incolpevole oggetto.

Spiegazione superflua.

Irene lo avrebbe intuito anche senza: era sempre così preciso in quel che faceva e non amava il disordine, perciò era improbabile che avesse lasciato lì il telefono per pura noncuranza.

Lui raccolse distrattamente alcuni documenti che aveva già sistemato prima dell’interruzione e li gettò nella valigetta, la chiuse con un colpo secco, facendo scattare le chiusure.

Poi recuperò il telefono dal primo cassetto e lo poggiò sulla superficie lucida del tavolo, senza neppure prendersi la briga di controllare se nel frattempo avesse ricevuto telefonate o messaggi.

Si girò verso l’enorme vetrata alle sue spalle e guardò le mille luci della sera che punteggiavano lo skyline, fece un profondo respiro e scopri che espellerlo diventava di nuovo difficile.

Ritornare lì e fingere di ignorare la sensazione di fastidio che gli suscitava il solo ricordo dello spiacevole intermezzo di cui era stato protagonista suo malgrado, gli faceva rimontare dentro il senso di disagio e di disgusto che aveva provato in quei momenti.

E anche una sorta di frustrante furore contro se stesso per non essere stato in grado di prevederlo.

La sua mente rifuggiva, però, le sensazioni assai più devastanti che invece aveva provato quando Irene era comparsa.

In quel momento il dolore e lo sgomento rischiavano di travolgerlo se vi si fosse lasciato andare.

Poteva gestire meglio l’ira e l’indignazione che il panico e il disorientamento per le implicazioni e le conseguenze.

Frustrato puntò entrambe le mani contro il vetro gelido, fece un passo indietro e lasciò cadere la testa in avanti, lo sguardo assottigliato in un moto furibondo che avrebbe tagliato quella superficie dura se solo avesse potuto.

Un’autentica tempesta lo avviluppò salendo dai piedi al cervello.

Vibrò di rabbia.

Irene rimase a osservarlo qualche istante, turbata dalla sua reazione.

Avverti distintamente l’aura negativa che tornava a divorarlo e gli concesse pochi secondi prima di raggiungerlo.

Si insinuò nello spazio delineato dalle sue braccia sollevate e cercò i suoi occhi concentrati nel nulla e colmi di furia.

Lì cercò fino a quando essi non risposero al suo muto richiamo e si fissarono su di lei.

  • Tesoro? – Lo chiamò.

Marco la guardava, ma rimaneva distante con la mente.

Se ne rese conto, così si avvicinò ancora un po' e gli prese il volto tra le mani in un gesto affettuoso, ma deciso.

Era imperativo stabilire con lui un contatto fisico, subito.

Lui parve ritornare indietro sotto il tepore che percepì e la mise a fuoco.

L’espressione tirata si distese un poco e gli occhi scuriti si aprirono.

  • Tesoro, siamo scossi tutti e due da questa spiacevole situazione, ma è passata! Andiamo a casa e sforziamoci di dimenticarla, vuoi? -

Lo scampolo di un sospiro passò tra le labbra schiuse di Marco.

  • Ho bisogno di baciarti, non riesco a respirare! – Le confessò d’impulso. – Ti prego, dimmi che posso. –

Irene gli sorrise.

  • Non devi mai chiedermi il permesso! – Gli rispose in un sussurro e lo attirò a sé.

Marco si piegò senza indugio e poggiò le labbra sulle sue.

Il tepore del contatto gli mandò un brivido lungo la spina dorsale.

Socchiuse le palpebre e si concesse un piccolo respiro, che rilasciò subito dopo, riscaldando la sua pelle morbida.

Irene letteralmente lo bevve, ritrovando immediatamente quella sensazione sempre bellissima di familiarità per ciò che le apparteneva di diritto.

Gli baciò il labbro superiore, lambendolo appena con la punta della lingua.

Cercò di incoraggiarlo a lasciarsi andare, sentendolo ancora trattenuto, rigido, esitante, forse, come intimorito da qualcosa.

Le mani aperte sui suoi fianchi e poi fatte scivolare sul suo addome, le rimandarono subito la durezza dei muscoli contratti, induriti da uno spasmo evidente.

  • Stai tranquillo! – Gli sussurrò dolcemente, cercando di rilassarlo con carezze circolari.

Ma probabilmente al di sopra dei vestiti l’effetto che voleva raggiungere risultava un po' alterato.

Lui sospirò per l’ennesima volta incapace di obbedirle.

Tuttavia rispose al suo bacio.

Ritirò le mani dal vetro e le prese il viso, facendola rabbrividire per il freddo.

Si spinse nella sua bocca, cercando e avviluppando la sua lingua con la propria, d’un tratto assalito dall’inusitato desiderio di fondersi con lei attraverso quel contatto intimo e immediato.

La succhiò e la avvinse quasi famelico, insistente, prendendo il controllo del bacio, addossandola alla parete trasparente con il proprio corpo, avvolgendola e bloccandola.

Irene lo lasciò fare, malgrado il turbamento che le provocò l’impeto prepotente con cui la stava travolgendo, che non gli sarebbe stato proprio in un’altra circostanza, lui sempre così passionale, ma gentile, attento, delicato.

Lo capiva.

Capiva bene quel suo bisogno quasi violento.

Imperioso.

A tratti primitivo.

Lo stava provando ella stessa.

L’esigenza primaria, insopprimibile di riacquistare ogni diritto, per quanto ideale, sul suo corpo e la sua anima.

Che le appartenevano come lei gli apparteneva.

Senza interferenze esterne con velleità di conquista.

Come aveva osato quella stupida donnaccia avvicinarlo soltanto?

Illudersi di trovare in lui quella condiscendenza e disponibilità maschile che, era certa, in nessun momento, Marco le aveva mai dimostrato, facendole intendere l’inesistente?

Come si era permessa di pensare di sedurlo senza neppure aver mai capito che lui non tollerava essere toccato da chicchessia?

Che il solo invadere il suo spazio vitale con atteggiamenti meno che autorizzati, lo indisponevano immediatamente, costringendolo a ritrarsi e a sottrarsi?



Lo strinse a sé istintivamente protettiva, serrando le braccia intorno alle sue spalle, assecondandolo finché non lo avesse sentito riconquistare una parvenza di calma che, sembrava, stesse facendo sforzi immensi per farsi largo attraverso gli strati di tensione e di furia che lo tenevano prigioniero.

Dopo qualche secondo lui la lasciò staccandosi dalla sua bocca, ansando confuso.

La fissò, l’espressione tormentata.

  • Tesoro! –

  • Ho rischiato di perderti... In un attimo... Perdonami!! –

  • Cosa devo perdonarti? Non sei responsabile di quello che è successo. –

  • Mi dispiace... tanto!!!... Non avrei dovuto permettere questo incidente. –

  • È come avresti potuto prevederlo? ... Ti prego, non tormentarti ancora, ti fai solo del male. Andiamo a casa. -

  • Ho rischiato di perderti! –

  • Mai!! – La protesta di Irene ebbe il potere di sorprenderlo per la foga con cui lo rimbeccò. – Mai sarebbe successo! ... Anzi, perdona me per aver reagito a quel modo... Non ho pensato neppure per un istante che stessi facendo qualcosa alle mie spalle, a dispetto di quella prostituta mezza nuda qua dentro.

Non lo so perché mi è venuto l’istinto di andarmene.

È stato un impulso automatico, che nemmeno ho considerato. -

  • Hai reagito come è logico che fosse... –

  • No!! L’ho fatto perché... Santo cielo, mi son trovata davanti una scena imprevista e la prima cosa che ho pensato è stata che dovevo aver sbagliato ufficio... –

  • Amore!!! –

Marco si chinò di nuovo a baciarla, il cuore disciolto dalla sua confessione così limpida.

  • Non avrei dovuto andarmene! –

  • È come potrei biasimarti per averlo fatto!!?... Non c’era niente che deponesse a mio favore... Mi dispiace così tanto averti messa in una situazione tanto assurda per un eccesso di ingenuità da parte mia. Sono stato imperdonabile!!! –

Irene gli portò le dita sulle labbra per impedirgli di continuare.

  • Ssstt, basta! Non potevi immaginarlo. E non puoi continuare a crucciarti: non mi piace vederti star male così. –

  • Ti amo, Irene!! Sei la mia unica ragione di vita. Niente avrebbe mai senso se ti perdessi! ... Non potrei più pensare di vivere se non dovessi più averti con me. –

  • Lo so, piccolo, lo so, è lo stesso per me! ... Adesso calmati, va bene? Andiamo a casa e buttiamoci alle spalle questa assurda serata, vuoi? –

Lo baciò ancora e lo abbracciò.

Lui la strinse forte tra le sue braccia, esalando respiri spezzati per l’emozione e la sofferenza.

Si sarebbe mai liberato di tutto quel malessere?

In quel momento non riusciva a saperlo.



Paziente lei lo prese per mano, invitandolo ad uscire.

Marco annui, si mise lo smartphone in tasca, afferrò la 24ore e insieme si avviarono all’uscita.

James Avory era in attesa in corridoio e quando li vide uscire, irrigidì la postura sempre in guardia.

  • Signore! ... Miss Blackney! – Salutò.

  • Salve, James. – Ricambiò Irene con un sorriso.

Lui la scrutò per un istante come a voler cercare qualcosa sul suo viso.

Poi si rivolse al proprio capo.

  • Andrew attende giù in garage, Mr. Grimaldi. –

  • Bene... Grazie, James, di tutto! Buona serata e a domani. –

  • Dovere, signore, buona serata a voi! –

Fingendo di non far caso all’espressione cupa sul suo volto, li precedette all’ascensore e la aprì, singolare azione assolutamente estranea sia al suo comportamento che alle proprie mansioni.

Ma nessuno glielo fece notare in quella strana serata che per fortuna stava concludendosi.

Irene si avviò mentre Marco strusciava il proprio pass e l’indice perché il sistema di sicurezza bloccasse l’ingresso del proprio ufficio.

  • Miss Blackney? – James approfittò di quell’attimo.

  • Dica, James, posso fare qualcosa per lei? - Replicò Irene disponibile.

  • No, signora. Col suo permesso, vorrei dirle che non è accaduto nulla di cui lei debba preoccuparsi. Mr. Grimaldi non è quel tipo d’uomo, malgrado la condotta incommentabile che ha tenuto con lui la signora Maison questa sera per non più di dieci minuti. –

  • Oh! Grazie, James, è gentile a volermi rassicurare, le sono grata. So che non è accaduto nulla... Ora andremo a casa e ce ne dimenticheremo. –

Lui la scrutò di nuovo con quella sua espressione indagatrice che gli veniva d’istinto, quasi avesse voluto sincerarsi che stesse davvero bene.

La vide sufficientemente serena, malgrado fosse consapevole di quanto spiacevole avesse potuto essere per lei e il suo compagno.

Non insisté oltre.

Fece un cenno col capo e si fece da parte mentre Marco lo oltrepassava per entrare a sua volta in ascensore.

  • Buonanotte, James. – Lo salutò, fingendo di non aver sentito le parole che lui e Irene si erano detti.

  • Signore... Miss Blackney: buonanotte a voi! -

L’ascensore si chiuse e prese a scendere.



























   
 
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