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Autore: L u c i n d a    29/04/2015    2 recensioni
[Quinta classificata all' "Uchiha Angst Contest" indetto da Ayumu_7 sul Forum di EFP]
"...Si introdusse nella prima abitazione donando ai passi lo stesso suono che hanno i rintocchi del tempo che scorre, un rumore secco e ritmico come la lancetta di un orologio, il rumore angosciante della morte che si avvicina. Ignorò le suppliche delle donne e i lamenti dei bambini, la saettante katana recideva ogni vita che si imbatteva lungo il suo percorso, colpevole o innocente che fosse. [...] Si rese conto che non aveva più importanza se sotto i suoi piedi scorresse un fiume carminio cosparso di cadaveri, era disposto a ogni cosa pur di ingannare la sua stessa ragione portandola per sempre in un sogno felice..."
La storia di un uomo senza più speranze, il cambiamento da un'indole gentile a una crudele, il tormento di un personaggio che combatte ogni giorno la propria battaglia interiore.
[Obito | Itachi | Accenni di Obi/Rin]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Itachi, Obito Uchiha, Rin | Coppie: Obito/Rin
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima dell'inizio
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Storia partecipante all’ “Uchiha Angst Contest” indetto da Ayumu_7 sul Forum di EFP

Pacchetto Susanoo: Uchiha crudele

Prompt: il sapore del sangue sulle labbra

 

Note introduttive dell’autrice

Buongiorno a tutti ^^

Pace di sangue è un titolo che vuole alludere al luogo e al momento in cui si svolge la storia. Fonte ispiratrice sono stati i capitoli 400, 590 e 606 grazie ai quali sono finalmente riuscita ad associare Obito al misterioso complice di Itachi durante lo sterminio del clan Uchiha, ed è proprio durante quest’ultimo che si muovono i due protagonisti.

Obito Uchiha, infatti, è uno dei personaggi che più di tutti mi ha fatto riflettere. In questa breve one-shot spero di aver reso al meglio il suo cambiamento, cercando di analizzare come le speranze e i sogni del ragazzo gentile si tramutassero in disperazione per la perdita della persona amata, e come questa disperazione abbia innescato un annullamento della parte positiva della sua personalità, lasciando spazio a una crudeltà nei confronti delle vite umane tale da spazzarle via in nome del raggiungimento di un progetto più grande. Il tema della pace, inoltre, ritorna spesso nelle considerazioni del protagonista ormai disinibito e incapace di credere in un ideale così sfuggente.

Il pacchetto era ‘l’Uchiha crudele’, ma penso che nessuno nasca con questa intrinseca personalità, credo piuttosto che sia la durezza della vita a plasmare i tratti negativi degli antagonisti, ed è con questa convinzione che ho scritto questa introspezione del personaggio di Obito, immaginando che dietro la sua spietatezza non ci fosse altro che il tormentato desiderio di creare quel mondo illusorio in cui Rin fosse ancora viva.

Qui si aggancia il prompt. Avrei potuto usarlo in maniera più incisiva, lo so, ma non è stato facile far sentire il sapore del sangue sulle labbra a un personaggio perennemente mascherato. Ho voluto quindi creare una contrapposizione tra il sapore amaro del sangue di Rin, riferito al passato e inteso come senso di sconfitta provocato dalla sua morte, e quello dolce ed appagante che Obito assaggia appositamente nel bel mezzo della strage del clan Uchiha, percepito come liberazione e come raggiungimento di uno dei tanti obiettivi in vista del traguardo finale.

La quasi fusione tra la personalità di Obito e quella di Madara, infine, accentueranno il passaggio alla persona cinica e spietata che ci appare nel capitolo 599, quando Naruto riuscirà finalmente a far cadere quella benedetta maschera.

 

 


 

 

Pace di sangue

 

 

«  “Come hai saputo di me?”

“Sei riuscito a superare le difese degli Uchiha e sei riuscito a leggere la sacra stele dentro il santuario di Nakano.” […]

“Allora probabilmente saprai che sono un Uchiha e che ce l’ho sia con il villaggio che con il clan.” […]

“Ti aiuterò a vendicarti degli Uchiha ma non dovrai fare nulla contro il villaggio… e contro Sasuke Uchiha.” »

 

(Masashi Kishimoto, Naruto Shippuden, cit., capitolo 590)

 

 



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Sangue.

Inzuppava i vestiti.

Schizzava sulla pelle.

Colava sulle dita.

Rendeva scivolosa la presa sulla spada.

I suoi occhi vedevano rosso, le narici inspiravano l’odore appagante della morte e della disperazione, le mani componevano sigilli, afferravano lame, infliggevano ferite, mentre gli arti inferiori si liberavano dei cadaveri. In quel caotico frantumarsi di ossa, lacerarsi di tessuti e spezzarsi di vite il suo udito era fisso sulla stessa frequenza sin dal primo omicidio, un fischio prolungato che ronzava in testa come pura follia.

Era solo l’inizio, e l’inizio comprendeva l’annientamento del clan Uchiha insieme alla debolezza e alla volubilità che l’avevano infettato. Sollevò con un dito la parte inferiore della maschera e si passò una mano sulle labbra leccando dalle dita il sangue che le impregnava.

Era dolce il sapore di quel nettare espiatorio, sapeva di vendetta e aveva il gusto del rancore, era musica per i suoi sensi e pace per la sua anima, era tutto quello di cui aveva bisogno per sentirsi vivo in quel mondo che avrebbe presto risucchiato nella sua illusione infinita.

Chi era lui?

Non era nessuno. Aveva già soppresso il suo essere molto tempo prima quando aveva conosciuto la disperazione. Adesso era solo una pedina in mano al destino, un destino che si stava sforzando di riscrivere creando quel mondo immaginario immerso in un sogno eterno, un mondo dove non esistevano guerre, sciagure e costernazione, un mondo dove avrebbe potuto finalmente rivedere il suo sorriso.

Rin.

Non c’era notte che passasse senza rivedere il suo viso. Era bella Rin, era la prima ragazza di cui si era innamorato e l’unica che avesse mai amato. Rin era il suo universo, il suo traguardo, il suo tormento. Ne ricordava ancora il volto tondo dai lineamenti perfetti, gli occhi vivaci e il sorriso gentile, ricordava il timbro vellutato della sua voce e la spontaneità di ogni suo gesto. La mente aveva scolpito ogni minimo dettaglio di quella ragazza, dalle movenze alle espressioni, e ogni notte il subconscio li rendeva talmente perfetti che gli sembrava di poterla toccare, di poterla abbracciare, baciare, sussurrarle all’orecchio quanto ancora l’amasse nonostante tutti gli anni trascorsi nella solitudine e nello strazio del suo intangibile ricordo.

L’immagine del suo corpo esanime macchiava i suoi sogni di un insopportabile dolore. Era come se le braccia avessero memorizzato ogni percezione provata in quei secondi di folle disperazione, come se rivivesse attimo per attimo quell’angosciante sensazione di vuoto che aveva provato stringendola per l’ultima volta contro il proprio petto. Poteva sentire ancora il calore abbandonarla e il sangue scorrere come un fiume tra le sue dita.   

Riviveva ogni notte il tormento dei ricordi e rammentava a se stesso la promessa che aveva fatto quel giorno, quando per la prima volta aveva avuto il coraggio di toccare la sua pelle diafana macchiata da rivoli cremisi e aveva avuto la forza di sussurrarle quelle parole sfiorandole la bocca livida ed esanime.

Creerò un mondo dove tu sei ancora viva.

Quella promessa sapeva di amaro, così come amaro era il sapore del sangue di Rin sulle proprie labbra. Ricordò di aver guardato Kakashi a terra privo di sensi e di non aver provato altro che indifferenza nei suoi confronti.  L’amaro era il sapore della sconfitta, e in quel momento avevano perso entrambi permettendo che lei morisse sotto i loro occhi.

Se ogni notte riviveva l’angoscia per la perdita dell’unica persona che avesse mai amato, ogni giorno quell’angoscia si trasformava in rabbia e rancore. Per Rin aveva frantumato i suoi ideali, calpestato i suoi desideri e annullato se stesso. Non esisteva più nulla del ragazzo gentile e imbranato che sognava di diventare Hokage, non dopo che lei era morta, non dopo che la sua ragione di vita era stata spazzata via come una foglia investita da una tempesta.

Dopo l’incidente che l’aveva costretto a quella lunga riabilitazione non aveva voluto credere al suo anziano salvatore quando lo ammoniva sul dolore, la sofferenza e il vuoto che si celavano nella realtà, non gli aveva dato ascolto mentre affermava la corrispondenza di un’ombra a qualsiasi luce, di un perdente ad un vincente e che l’odio nasceva sempre per proteggere l’amore.

Mai nulla era stato più vero, anche se in quel momento aveva rifiutato di capirlo preso com’era dal pensiero della guerra che imperversava e dalla convinzione di poter finalmente proteggere i propri compagni grazie allo Sharingan che aveva risvegliato. Era stato sordo alle profetiche parole di quel vecchio e non aveva creduto nel progetto di quel mondo ideale quando lui lo aveva esortato ad appoggiarlo in cambio di aver avuto salva la vita.

Stupido.

La verità era che non aveva vissuto abbastanza a lungo per comprendere quanto il mondo fosse un inferno. Adesso lo sapeva.

Adesso lo viveva.

Non c’era più spazio per i sentimentalismi in quella dimensione temporale destinata a scomparire, non c’era più spazio per la disperazione e per la frustrazione. Che diritto avevano gli altri di essere felici quando a lui era stata portata via ogni cosa? Che diritto avevano di amare quando a lui non erano rimasti altro che polvere e ricordi? E per quale motivo il mondo perseverava in questa discriminazione tanto straziante? Ogni minuto, no, ogni attimo trascorso in quella malefica realtà non faceva altro che alimentare le fiamme di quel tormento che si portava dentro, rendendo vano qualsiasi sentimento che non fosse rancore, vendetta e desiderio di cancellare ogni cosa.

Aveva sposato la causa del suo vecchio salvatore, aveva sposato la causa di Madara Uchiha.

Gli ideali del suo antenato adesso erano i suoi: i risentimenti, la rabbia, la crudeltà e quella dura determinazione di fronte alle difficoltà gli erano stati infusi come una balsamica purificazione dai valori che la vita gli aveva insegnato fino a quel momento, valori fugaci e frivoli come la durata dell’esistenza umana nel bel mezzo di una guerra.

Così aveva smesso di essere Obito, così aveva smesso di essere se stesso facendosi chiamare Madara.

Quel Madara.

E adesso portava a termine la vendetta nei confronti del clan Uchiha come se fosse la sua, come se gli Uchiha avessero voltato le spalle ad Obito e non al suo famoso predecessore. Gli venne da ridere a quel pensiero. Il clan aveva rinnegato Madara guidato dal desiderio di una pace duratura, la stessa pace che li aveva condotti all’emarginazione e alla relegazione in quell’angolo del villaggio che adesso stava diventando la loro tomba.

Ironia della sorte, il vecchio aveva ragione.

La guerra nasceva per proteggere la pace e la pace non poteva esistere senza spargimenti di sangue.

Quel mondo andava cancellato.

Si mosse fulmineo in mezzo alla carneficina beandosi nel respirare l’odore rancido della disperazione, la stessa che aveva provato lui nel perdere tutto. Vedeva rabbia e paura nello sguardo di chi osava affrontarlo e poi soccombeva, vedeva terrore e sgomento negli occhi innocenti dei bambini, supplica e tormento in quelli delle donne, una miscela di sensazioni che nemmeno una volta avevano toccato il suo cuore diventato di pietra e nemmeno una volta avevano fermato la sua lama impedendo che il sangue schizzasse in ogni direzione.

E lui? Cosa trasmettevano i suoi occhi? Che cosa vedevano le sue vittime quando inevitabilmente venivano sopraffatte dalla sua forza?

Goduria? Pazzia? Probabilmente era così. Era un folle e spietato vendicatore che non avrebbe più provato alcuna compassione in quella malvagia realtà. Si era conformato in tutto e per tutto alla crudeltà di quel mondo ingiusto e aveva smesso di essere umano già da molto tempo.

Scattò in avanti sorprendendo alcuni uomini catapultatisi in strada con l’intenzione di opporre resistenza. Dall’interno delle abitazioni i mormorii sommessi delle mogli non erano sfuggiti al suo udito sopraffino e pensò a quanto sarebbe stato dolce sentire lo strazio di quelle donne nel vedere la morte di coloro che amavano, per non parlare del sublime pianto dei loro figli una volta che avessero assistito al brutale omicidio delle loro madri. Niente l’aveva mai reso più euforico del vedere gli avversari dimenarsi come pesci fuor d’acqua prima di morire soffocati, e quello che quel piccolo gruppo di Uchiha aveva fatto uscendo allo scoperto non era stato altro che finire dritto nella sua rete pescatrice. Per quanta determinazione e quanto coraggio ci fosse stato nel cuore corrotto di ognuno di loro, nessuno avrebbe potuto fermare la superiorità schiacciante del suo Sharingan. La loro atroce agonia non sarebbe durata oltre qualche secondo.

Fece volteggiare la katana come uno shinigami avrebbe fatto con la propria falce, attivò il potere concessogli dall’unico occhio cremisi che gli era rimasto e rese immateriale il corpo ad ogni attacco fisico. Di lì a qualche attimo avrebbe scorto lo stupore nel volto di chi lo fronteggiava e, in seguito, il terrore di avere a che fare con un fantasma sanguinario che non avrebbe risparmiato nessuna delle loro vite.

In un certo senso era vero. Era il fantasma di un antenato cinico e vendicativo che non avrebbe guardato in faccia nessuno pur di raggiungere i propri obiettivi, e Obito era diventato esattamente come lui, aveva annullato se stesso per lasciare il posto a quella parte irrazionale della propria anima costretta a risvegliarsi dopo aver perso tutto quello in cui valeva la pena credere.

Superò i corpi esanimi che giacevano al suolo scomposti come contorte marionette; le espressioni di paura e di rassegnazione impresse sui loro visi rendevano piacevole ogni scelleratezza compiuta in quella notte di sangue, così come rendevano appagante la consapevolezza di essere l’unico in grado di portare alto lo stendardo di Madara.

Si introdusse nella prima abitazione donando ai passi lo stesso suono che hanno i rintocchi del tempo che scorre, un rumore secco e ritmico come la lancetta di un orologio, il rumore angosciante della morte che si avvicina. Ignorò le suppliche delle donne e i lamenti dei bambini, la saettante katana recideva ogni vita che si imbatteva lungo il suo percorso, colpevole o innocente che fosse.

La scena si ripeté nella dimora successiva e in quella dopo ancora.

Osservò il filo della lama smussato dalle troppe esistenze spezzate e ne pulì il metallo con il palmo della mano, creando sulla lucente superficie un alone scarlatto e opaco. Sollevò ancora una volta la maschera per assaggiare il frutto del proprio odio.

Quel sangue sapeva di buono, sapeva di uno dei tanti traguardi che avrebbe dovuto raggiungere per creare la realtà perfetta che tanto bramava, come se il sapore ferroso che sentiva sulle labbra non fosse associato alla parte dolorosa del proprio passato quanto all’espiazione di quest’ultimo e dei suoi ideali fugaci. Si rese conto che non aveva più importanza se sotto i suoi piedi scorresse un fiume carminio cosparso di cadaveri, era disposto ad ogni cosa pur di ingannare la sua stessa ragione portandola per sempre in un sogno felice.

Udì delle urla provenire da un gruppo di abitazioni. Arrestò il suo cammino per ascoltare la leggera brezza della notte portargli alle orecchie il suono della disperazione, un suono che per lui era diventato musica e liberazione. Si soffermò sui lamenti strazianti che provenivano da quegli edifici e provò ribrezzo per il proprio clan, talmente intorpidito rispetto ai suoi antichi fasti da non essere nemmeno riuscito a difendersi dallo sterminio.

In nome di quella pace tanto agognata gli Uchiha avevano inconsapevolmente scelto la morte, una fine ironicamente sancita dalla spada insanguinata di chi portava il loro stesso cognome.

Scorse la figura scura ed esile del proprio complice uscire lentamente dall’ultima dimora presa d’assalto, i suoi lineamenti duri e marcati divennero visibili dopo che ebbe compiuto qualche lento passo nella sua direzione. Intorno a loro regnava il silenzio.

Itachi era colui grazie al quale quella vendetta tanto spietata era stata possibile, era l’uomo che aveva preso in mano il destino degli Uchiha.

Uomo? No. Era solo un ragazzino cresciuto troppo in fretta e segnato per sempre dalla crudeltà della guerra. Ricordò la sensazione di stupore nell’apprendere che quel giovane membro del clan era riuscito a scoprire la sua presenza e capire le sue intenzioni, in quel momento aveva pensato che forse non tutti i suoi discendenti erano stati infettati da quell’oblio che li aveva resi schiavi dei loro nemici, forse c’era ancora qualcuno che avrebbe potuto ereditare gli ideali di Madara Uchiha.

Dovette ricredersi nel momento in cui i loro sguardi si incrociarono in mezzo alla carneficina appena compiuta.

Nei suoi occhi aveva visto il vuoto, l’inespressività e la freddezza, aveva visto la meccanica spietatezza con cui stroncava l’esistenza dei suoi familiari e aveva visto la determinazione a non guardarsi mai alle spalle per evitare esitazioni. Non c’era soddisfazione negli occhi di Itachi, né goduria, solo un profondo, straziante e velato dolore. 

Faceva tutto questo per Konoha, faceva tutto questo per la pace.

Un misto di rabbia e delusione segnarono il volto di Obito perennemente celato dalla maschera, nemmeno quel ragazzo era diverso dal resto della feccia.

«Una pace transitoria vale tutto questo?» lo provocò volutamente quando ormai erano a pochi metri di distanza l’uno dall’altro. «Una pace instabile vale la tua vita?»

L’altro rimase in silenzio per qualche secondo senza mai voltarsi verso di lui, osservava con costernata apatia la distesa di cadaveri intorno a loro e non sembrava provare apparente rimorso per quel massacro che aveva trasformato il nero della notte nello scarlatto rosso del sangue.

«Sono Itachi Uchiha del Villaggio della Foglia» gli rispose infine, guardandolo nell’unico occhio visibile con un velo di minaccia nei tratti ipnotici dello Sharingan. «Farò qualsiasi cosa per proteggere la pace».

Obito rise.

Pace? Che cos’era veramente la pace? Cosa poteva definirsi pace quando alle spalle del quieto vivere scorrevano fiumi di sangue?  Pace non era nient’altro che un’idea, un’utopia. Era un concetto che aveva ormai perso ogni valore.

La pace non poteva esistere in quel mondo.        

«Non ho più bisogno di te» riprese il giovane Uchiha, non interrompendo nemmeno per un secondo quel contatto visivo carico di minaccia.

Obito rise ancora, una risata amara e carica delle sue riflessioni.

Gli uomini diventavano ciechi nel nome di un ideale e sordi a tutto ciò che da esso si discostava. Non importava quanto Itachi fosse forte, né quanto fosse intelligente per comprendere quanto il progetto ‘Occhio di luna’ fosse perfetto, probabilmente in nome della pace avrebbe affrontato persino il fantasma di Madara Uchiha, lottando fino alla morte se solo questi avesse osato attentare all’ideale che aveva difeso spargendo il sangue della propria famiglia. 

Per un attimo fu pervaso dall’istinto di provocarlo ancora, di affrontarlo sul campo di battaglia come aveva fatto con tutti i membri del clan caduti sotto la spietata crudeltà della sua spada, i suoi sensi fremevano a quel pensiero e le sue membra non erano mai state così pronte ad ingaggiare battaglia.

Furono dei passi veloci a riportarlo alla realtà, passi piccoli e concitati che riecheggiavano lontani in quella spettrale atmosfera pervasa dal silenzio e dalla morte.

Itachi parve distrarsi a quel rumore, la sua espressione si corrucciò in una smorfia dolorosa.

Sasuke stava arrivando.

«Ci rivedremo» affermò Obito, mettendo da parte il folle pensiero che l’aveva sfiorato. Avrebbe trovato il modo di sfruttare quel ragazzo, con o senza il suo consenso, era una valida pedina che non avrebbe avuto senso eliminare troppo presto.

Rimirò la distesa di cadaveri che lastricava le strade e si sentì appagato al pensiero di essere in parte lui stesso l’artefice di quell’efferato sterminio. Si incamminò per la mortifera valle silente con una sensazione di superiorità che continuava a gonfiargli il petto già da qualche tempo. Probabilmente era arrivato il momento di tessere la ragnatela che avrebbe intrappolato il mondo nell’illusione più grande che si fosse mai creata.

Pace? Altro che pace. Una volta che i fili si fossero cominciati a muovere come una marionetta silenziosa non ci sarebbe stato più spazio per la pace, ogni sua azione, da quel momento in poi, sarebbe avvenuta con un unico scopo: distruggere il mondo in cui era cresciuto, distruggere il mondo dei ninja e la sofferenza che da sempre lo aveva imprigionato.

Chi era lui?

Lui era Uchiha Madara.  

 

 

 

 

 

 

L u c i n d a

   
 
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