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Autore: Gwen Chan    29/04/2015    5 recensioni
"Zio, zio, ci racconti una fiaba?"
Arthur guardò i due marmocchi avvinghiati alle sue gambe. Non gli erano mai piaciuti i bambini, li considerava alla stregua di cuccioli che richiedevano troppe attenzioni per l'affetto che offrivano. Tuttavia, il caso aveva voluto renderlo l'unico parente dei gemelli e, piuttosto che abbandonarli in un qualche orfanotrofio a morire di fame, aveva compiuto il sacrificio di prenderseli in casa.
Addio libertà da scapolo, benvenute responsabilità.
[...]
Matthew era tranquillo, tanto che ci si dimenticava della sua presenza. Alfred, invece, aveva un animo ribelle. Eppure Arthur al principio non se ne era preoccupato. Egli stesso aveva attraversato l'adolescenza odiando tutto e tutti, in primis i suoi tre fratelli maggiori. Essi ricambiavano il sentimento con entusiasmo. Se trasferirsi oltre oceano aveva avuto dei lati positivi, di certo uno di quelli era il non doversi sorbire i loro scherzi.
Al nipote sarebbe passata, pensava, urlando fino all'afonia davanti ad una porta chiusa.

[AU][Legata a "Dice che era un bell'uomo e veniva dal mare"][Accenni FrUk]
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Canada/Matthew Williams, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland, Nyotalia
Note: AU | Avvertimenti: Gender Bender
- Questa storia fa parte della serie 'Cronache di una famiglia '
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Dietro al dolore
 
"Zio, zio, ci racconti una fiaba?"
Arthur guardò i due marmocchi avvinghiati alle sue gambe. Non gli erano mai piaciuti i bambini, li considerava alla stregua di cuccioli che richiedevano troppe attenzioni per l'affetto che offrivano. Tuttavia, il caso aveva voluto renderlo l'unico parente dei gemelli e, piuttosto che abbandonarli in un qualche orfanotrofio a morire di fame, aveva compiuto il sacrificio di prenderseli in casa. 
Addio libertà da scapolo, benvenute responsabilità. 
Glieli aveva consegnati una ragazzotta dallo sguardo spento e il colorito pallido di chi soffre il mal di mare, che li teneva per mano uno di qua e uno di là, strattonandoli senza troppi complimenti. Il tempo di sbrigare un paio di formalità - Due carte da firmare - e i marmocchi freschi freschi d'America erano stati suoi. Magri, infagottati in vestiti di fortuna, si strofinavano le palpebre incrostate di pianto.
Due mesi dopo la famigliola aveva compiuto la traversata oceanica in senso opposto. Troppa, infatti, era la nostalgia di casa dei piccini.
 
Matthew, il più piccolo, che girava per casa trascinandosi un enorme orso bianco di peluche, aveva occhi cerulei viranti al viola quando il cielo era plumbeo. Quelli di Alfred erano color del mare. 
"Vi racconto del cavaliere verde" acconsentì, intimando loro di infilarsi sotto le coperte. Percorse con lo sguardo gli scaffali della libreria, scegliendo infine un pesante volume rilegato in cuoio e odoroso di tempi passati. Matthew sbirciava da sotto il piumone, l'inseparabile orso al suo fianco. Alfred, invece, saltellava sul materasso. 
"A letto o arriva il fantasma che porta via i bambini che non vogliono andare a dormire!"
Un secondo dopo Alfred faceva compagnia al fratello. La faccia d'angioletto assunta non nascondeva la sua paura: i fantasmi lo terrorizzavano. Arthur non era ancora riuscito a capirne il motivo.
"Zio, non te ne vai finché non ci siamo addormentati?" pigolò Alfred. "Magari lasci accesa una luce?" aggiunse, speranzoso, pur sapendo quanto Arthur fosse parsimonioso. 
"Sì. No. Ora bocche chiuse e orecchie aperte."
 
Prima della crisi del '29, Arthur era stato ricco, l'ultimo filamentoso residuo dell'aristocrazia rurale inglese. I vicini, dai denti storti e l'alito puzzolente di panini alla cipolla, bisbigliavano che avesse portato con sé un pezzo della Madrepatria. Nell'umore amaro aveva la pioggia, negli occhi il verde delle brughiere, nelle parole secoli di sottile sarcasmo. L'America lo rese povero, mai misero. Almeno così credeva, mentre dava sulla fronte dei gemelli il bacio della buonanotte.
 
Purtroppo i nipotini infine erano cresciuti. 
Matthew era tranquillo, tanto che ci si dimenticava della sua presenza. Alfred, invece, aveva un animo ribelle. Eppure Arthur al principio non se ne era preoccupato. Egli stesso aveva attraversato l'adolescenza odiando tutto e tutti, in primis i suoi tre fratelli maggiori. Essi ricambiavano il sentimento con entusiasmo. Se trasferirsi oltre oceano aveva avuto dei lati positivi, di certo uno di quelli era il non doversi sorbire i loro scherzi.
Al nipote sarebbe passata, pensava, urlando fino all'afonia davanti ad una porta chiusa. 
"Alfred, torna qui! Non ho finito di parlare!" Lo inseguiva nel vialetto, in strada, maledicendo la velocità del ragazzo. Lo aspettava fino a notte fonda, con in grembo una tazza di tè ormai divenuto freddo per il tempo in cui Alfred decideva di ricomparire da ovunque il suo spirito lo portasse.    Tuttavia finché tornava a casa, ad Arthur andava bene. E sarebbe tornato, sempre, glielo doveva. 
Quando non successe, l'inglese ne fu distrutto. Al punto da trascorrere la giornata al pub, a bere, solo a bere, annacquando il gin di lacrime, finché non lo costrinsero ad andarsene. Inutile girarci attorno: Alfred era sempre stato il suo favorito.
Arthur scrisse centinaia di lettere di decine di pagine. Le consegnava a Matthew con la raccomandazione di recapitarle al fratello e puntualmente tornavano senza mai essere aperte. Lettere appassionate. Lettere cariche di rabbia. Lettere trasudanti supplica. Lettere che erano solo lunghi elenchi di momenti felici passati insieme. Lettere che si accumulavano nel cassetto. 
"Io...non l'ho... Cresciuto ... C-così!" ululava l'inglese premendo il pennino sulla carta fino ad incidere lo scrittoio sottostante. "Stupido!" Tirò su con naso. "Ingrato!" 
Alfred gli concesse solo un telegramma di tre parole, nel gennaio del '42: mi sono arruolato. Matthew, a sorpresa, lo imitò. Arthur pianse fino a soffocare, si scolò due bottiglie di whisky e vomitò l'anima. Infine tornò in Inghilterra e si arruolò a sua volta.
 
"Tenente Jones, è un piacere poterla incontrare di persona.”
"Kirkland, miss Bonnefoy" replicò Arthur, ricambiando la stretta di mano. A quel punto riteneva inutile nascondersi dietro uno pseudonimo. Sentire il cognome di Alfred, poi, apriva una ferita ancora fresca.
Senza ulteriori preamboli, seguì la donna in un appartamento piccolo ma pulito, nell'Alsazia del '44.
"Fuma?" 
"Solo in certi momenti."
"Questo è uno di quelli?"
"No."
Lei si accese lo stesso una sigaretta, reggendola tra le dita macchiate di nicotina. Gli indicò una sedia, invitandolo ad accomodarsi. 
"Tè?"
"Volentieri."
Mentre la signorina Bonnefoy, Celine Bonnefoy, metteva il bollitore sul fuoco, Arthur di chinò sul tavolo ad esaminare una cartina in scala che vi era stata stesa. Le linee di piegatura erano usurate. 
"È questo il punto?" domandò, premendo l'indice su una macchia scura. "No, quella è solo una macchia d'inchiostro. Più ad Est" rispose Celine, senza voltarsi. L'inglese spostò lo sguardo di pochi centimetri. Individuato il punto, misurò la distanza che lo separava dalla base più vicina. 
"Venti chilometri. Avete un qualche mezzo di trasporto?"
"Un auto, un paio di bici" Celine allargò le braccia "le nostre gambe. Il tè."
Arthur annusò con attenzione il liquido. "Sicura che sia tè?"
Tuttavia ne sorbì un sorso, storcendo la faccia in una smorfia. "Questa è acqua colorata. Ha del latte?"
"Rancido."
Si risolse a bere quanto gli era stato offerto senza ulteriori proteste, ingollando lunghe sorsate prima che si raffreddasse.     Arthur amava il tè. Amava il tè nero classico inglese. Amava la sua Patria in virtù del tè.
Celine si preparò del caffè. Qualcosa che somigliava al caffè. Ne versò due tazze. A risposta alla domanda che già si formava sulle labbra di Arthur, una testa bionda fece capolino dalla porta. "Celine, qu'est-ce qu'il passe?"
"Monsieur Arthur est arrivé. Tiens, il y a une lettre de Antonio!"
"Oui, qu'est-ce que ça dit?"
"Je ne sais pas. Je ne l'ai pas ouverte. Plus, je ne parle pas espagnole."
Durante l'intero dialogo, Arthur era rimasto concentrato sul proprio tè, con la fronte tanto aggrottata che le sopracciglia si toccavano. Be', le sue sopracciglia erano grosse. Molto grosse. 
"Mio cugino, Francis. Si rifiuta di imparare l'inglese. Parla francese, monsieur Kirkland?"
"Il minimo."
Celine scoccò un'occhiataccia al cugino, il quale era troppo impegnato a fissare a sua volta l'inglese per accorgersene. E Celine si sarebbe volentieri schiaffata una mano in fronte, al pensiero che, dopo mesi di preparativi, l'intera operazione potesse fallire perché qualcuno si era impuntato a non voler imparare la lingua del nemico. Manco fossero stati nell'Ottocento! 
Non importava, sarebbe intervenuta per riassumere i punti salienti degli sproloqui di Francis, l'unico che riuscisse ad infilare parole come romanticismo o affinità mentre si discuteva di quale fosse il modo migliore per far saltare in aria i tedeschi! Merde.
Celine odiava i tedeschi per partito preso. Cresciuta a pane e "ci hanno rubato l'Alsazia", con pillole di Revanscismo nel caffellatte mattutino al posto dello zucchero, la donna aveva dichiarato lutto quando aveva appreso che il cugino - ma era quasi suo fratello, tanto erano legati - aveva stretto amicizia con un tedesco. Con. Un. Tedesco! Una matricola, un ragazzo interessante e ...  No, a questo punto si era tappata le orecchie e si era messa a cantare la Marsigliese a squarciagola. 
L'invasione di Parigi era stata la classica goccia che fa traboccare il vaso. Certo, c'era stata la dolcissima soddisfazione della vittoria francese nella prima guerra mondiale, ma era durata poco. Nel giugno del Quaranta Celine aveva trentadue anni e ogni fibra del suo corpo tesa ad un unico fine: la festa di compleanno di Lisa. Quella fanciulla era un'adorabile bambolina di porcellana, che spegneva venti candeline ormai da anni, e le sue feste erano il giusto connubio tra raffinatezza e divertimento. Con un pizzico di perversione parigina.
Celine aveva scaraventato la radio fuori dalla finestra quando l'occupazione era stata annunciata. Sul letto giaceva, mai indossato, il vestito da sera fresco di sartoria. La festa rimase un amaro miraggio, l'astio della francese si radicò, insieme alla convinzione di essere perseguitata dai vicini molesti di oltralpe.
 
"Ricapitolando: il piano è far saltare la miniera, qui, e dileguarsi?" 
L'inquisizione di Arthur la sottrasse al suo rimuginare. Celine annuì, con enfasi. "Boom! Volete vedere il posto?"
Sì, certo che voleva vedere il posto. Altrimenti non avrebbe compiuto la fatica di paracadutarsi e di infiltrarsi in territorio nemico. Aveva almeno avuto il buonsenso di cambiare la divisa con abiti civili, altrimenti avrebbe potuto direttamente appendersi un cartello "soldato inglese, sparate!"
Qui guidano a destra. Qui guidano a destra. Qui guidano a destra.
"Prends le moto, s'il te plait!" Ordinò Celine a Francis. La moto in questione era troppo piccola - sgangherata - per sostenere il peso di tre persone, per quanto magre. 
Celine montò in sella, facendo segno ad Arthur di seguirla. 
"Pourquoi toi?" protestò Francis. 
"Parce que tu te fermes toujours chez tes femmes!" replicò Celine, avviando il motore, con Arthur che le cingeva la vita con tutta la discrezione da gentiluomo di cui era capace. 
Perché aveva riconosciuto l'occhiata che Francis aveva scoccato ad Arthur, lo sguardo di quando qualcosa gli piaceva, e avere un tenente inglese traumatizzato dalle avances del cugino era qualcosa che Celine voleva evitare.
Se il Cielo benediceva ciascuno con un talento, Francis aveva il dono della seduzione. Affabile, spregiudicato senza mai scadere nella volgarità, vantava una serie di amanti di ambo i sessi da Parigi a Strasburgo. Quando entrò nella Resistance, molti di essi divennero una preziosa fonte di informazioni.
 
Il giorno della missione arrivò troppo presto.
Arthur doveva aver puntato il binocolo in direzione della miniera almeno dieci volte negli ultimi cinque minuti. La Luna cangiava le forme che toccava con la sua ipnotica luce argentea. Al crepuscolo lui e Francis avevano posizionato l'esplosivo in modo che non fosse visibile all'esterno della cava se non dopo un'attenta ispezione. 
"Vuole avere lei l'onore?"
Celine gli offrì il detonatore. Si era impiastricciata il viso con una mistura di fuliggine e argilla. Sulle spalle la brezza gonfiava il suo scialle. Era possibile intravedere il lillà originario sotto lo spesso strato di sporcizia. 
Arthur tirò la leva con tutto il peso del proprio corpo. 
"Je ne sens rien …"
Nessun rumore di esplosione. Arthur ri-tirò il detonatore. Nulla. Assolutamente nulla.
Celine glielo strappò dalle mani, ma il suo tentativo non ebbe maggiore successo. 
"Merde!"
Francis le fece eco. Arthur snocciolò le più volgari imprecazioni di sua conoscenza. "Maledizione!"
"Miss Bonnefoy, tra cinque minuti tiri quella leva. Cours, je te couvre!" concluse rivolto a Francis. 
Cinque minuti erano un'utopia. Un lavoro del genere, se Arthur aveva intuito correttamente quale fosse il problema , ne richiedeva almeno dieci, ad essere veloci. Peccato che lo non avessero dieci minuti. 
Tre, due, uno ... via. Cinquecento metri da percorrere a testa bassa. 
"Wer da!”
E spari. Spari, fottutissimi spari. Dolore lancinante alla spalla, al fianco, al polpaccio. L'ultimo colpo lo fece cadere a pochi metri dalla meta. Poco importava: era Francis l'esperto di cavi elettrici. Al momento la sua incolumità aveva la precedenza. Arthur da par suo aveva la ferma convinzione che la protezione delle amiche fatine non lo avrebbe abbandonato. 
La deflagrazione giunse come una promessa, poi cinque dita si strinsero attorno al suo polso e fu buio. 
 
Arthur sopravvisse. Fu di nuovo a Parigi nei giorni della Liberazione con il corpo ammaccato e una medaglia al valore appuntata sul petto. 
"È bella, vero?" soffiò Francis insieme al fumo di una sigaretta, indicando la città.
Arthur annuì. Poi rise. L'accento era orribile. Quasi preferiva i tempi in cui parlava solo francese. Notò che mignolo e anulare della mano destra e l'indice della sinistra mancavano. Quando l'uomo si sporse oltre il balconcino in ferro battuto, la camicia si sollevò a mostrare un reticolo di cicatrici, ricordo dei mesi fra le grinfie della Gestapo. Celine era stata torturata a morte.
"I soldati americani sono stati fantastici. Mathieu, per esempio"
"Mathieu?"
"Matthew Jones, lo conosci?"
L'espressione di Arthur bastò come risposta.
 
Matthew alloggiava presso un'ex caserma della Wermacht e fu altrettanto sorpreso, felice, nel rivederlo. Il severo taglio a spazzola stava ricrescendo in morbide onde bionde, ben più adatte al suo viso delicato. 
Si sfregò gli occhi con le nocche e per un attimo fu di nuovo il bambino che abbracciava un enorme orso di peluche. Un angolo della bocca si piegò a sorriso, storcendo la guancia ustionata. 
"Dove?" 
"Guadalcanal."
Semplicemente, con la sua voce sottile, senza rabbia o orgoglio o delusione. Guadalcanal, per caso. Sarebbe potuto essere Montecassino o Iwo Jima o Omaha Beach o qualunque altro dannatissimo posto.  Era stato ingerito, digerito e risputato come un boccone cattivo.
Matthew aveva saputo che Alfred era stato mandato sul fronte italiano, ma non la sua sorte. 
"Finirò per impazzire" sbottò Arthur quella sera, stringendosi la gamba: stava per piovere, lo sentiva. Francis gli posò una mano callosa sulla spalla. "Sono in debito. Vi aiuterò nella vostra ricerca."
 
Passò il 1945. Passarono il '46, il '47, il '48. Arthur si era rivolto sia alla croce rossa sia all'esercito anglo-americano, ottenendo solo di essere sballottato da una parte all'altra, da Parigi a Roma, con chi di dovere che forniva le informazioni richieste col contagocce. In tutto ciò, Bonnefoy mantenne la propria promessa: ovunque la ricerca portasse Kirkland, egli lo seguiva, nonostante le proteste dell’inglese.
E il '51, il '52, fino a stringere fra le mani il fascicolo delle risposte. Alfred era caduto in un’imboscata tedesca nei boschi del basso Lazio.
Il corpo non era stato ritrovato.
La ragazza grassoccia che aveva aiutato Arthur a non perdersi nelle profondità dell’archivio, aggiunse di non nutrire speranze, era stato un massacro.
 
Arthur aveva sempre pensato che, finita la guerra, avrebbe ritrovato Alfred, si sarebbe chiarito con lui e tutto sarebbe tornato come un tempo. Si sarebbe persino deciso ad approvare che vivesse da solo - era un uomo, ormai - a patto che si presentasse per il pranzo della domenica. Aveva immaginato la scena così tante volte da ritenerla reale. 
Barcollò in strada, barcollò su per le scale. 
"Allora?"
Arthur non rispose, ma si portò le mani alla gola. Soffocava. Sarebbe morto, ne era certo, sarebbe morto soffocato. Aveva un dannato nocciolo in gola. La faccia gli si contrasse in una smorfia di dolore, mentre dal petto gli sfuggiva un suono che avrebbe voluto essere una parola e invece fu solo un singulto disumano. Quando le braccia del francese lo circondarono, non si sottrasse. Di solito detestava essere toccato. Al momento non gli importava, non ora che faticava a respirare, col naso intasato di moccio e il cervello annacquato di lacrime.
"Camicia ... robida ... Al ... Non... Giusto"
A Francis piaceva Arthur. Lo sapeva Celine - pace all'anima sua - e in fondo lo sapeva anche Arthur. Non importava. Non gli importava, si sarebbe anche fatto scopare dalla rana francese in cambio di qualche secondo di oblio.
Invece Francis lo abbracciò  finché Arthur non ebbe pianto tanto da non riuscire a reggersi in piedi. Infine lo aiutò ad andare a letto. 
L'inglese rotolò fuori dalle lenzuola solo una settimana dopo. Decise che sarebbe tornato a casa, nella campagna londinese, a rimettere insieme i suoi pezzi.
"E tu?" 
Francis si strinse nelle spalle. "Qui sait, mon cher Arthúr."
Non gli disse addio, non a parole almeno. Intrecciò le dita fra i suoi capelli disordinati e lo attrasse a sé in un unico casto bacio.
"Adieu!"
Sulla soglia di casa, con la valigia stretta tra le caviglie, e in bocca il sapore delle parole non dette.
 
Arthur nella sua lunga vita di accademico rinomato e veterano della Seconda Guerra Mondiale ricevette centinaia, migliaia di lettere, di studenti, professori, ammiratori, soldati. Amava vantarsi di non aver lasciato nessuna senza risposta, fosse anche una riga di saluti o una parola di ringraziamento.
Nulla di tutto ciò fu in grado di prepararlo alla busta che comparve un giorno del '91 nella casella della posta. Da principio l'inglese l'aprì con il gesto automatico che aveva riservato a tante altre. La missiva proveniva da Roma, ma non se ne curò: le sue pubblicazioni avevano fama mondiale. 
Scorse le prime e le ultime parole. La lettera svolazzò sul pavimento. Arthur si accasciò in poltrona. 
Negli anni aveva scoperto molto sull'Alfred che aveva rotto i ponti con lui, un giorno di luglio di quasi cinquant'anni prima. Che era entrato a Harvard grazie ad una borsa di studio, per esempio. Che era coraggioso e apprezzato dai commilitoni. 
Non avrebbe mai immaginato che potesse anche essere diventato padre. 
Pensò ad uno scherzo. Eppure la foto tessera allegata alla lettera, ora sotto gli occhi di Arthur, era una prova sufficiente per concedere il beneficio del dubbio. 
Il mittente (Alberto Vargas) si offriva di pagare un viaggio a Milano. Arthur avrbbe solo dovuto telefonare al numero allegato per confermare. La chiamata, certo, sarebbe stata a carico del destinatario. 
Un mese dopo l'inglese atterrava all'aeroporto di Milano-Malpensa. 
Individuò subito Vargas. Non per il cartello con il suo nome che teneva in bella vista, per non confondersi con decine di cartelli simili, ma per l'aspetto. Era ... era Alfred. I capelli erano quelli di Alfred, compreso il ciuffo ribelle; gli occhi erano di Alfred. Persino nel modo in cui camminava c'era qualcosa di Alfred. Era l'Alfred adulto che Arthur non aveva potuto conoscere. 
"Vargas? Come il Vargas fondatore di quella catena di ristoranti?"
"È mio zio" rispose con noncuranza Alberto risucchiando una forchettata di spaghetti alla carbonara. Parlava un inglese impeccabile. 
"E sua madre?"
"Morta un paio di anni fa, buonanima. È sempre stata restia a parlarmi di mio padre, a malapena si ricordava il nome."
Mentre l'italiano gli raccontava di una ricerca iniziata durante l'adolescenza e proseguita fino a quell'istante, Arthur pensò a come fosse stato tutto una casualità. Per caso Alfred aveva preso parte allo sbarco di Anzio, così come per caso Matthew si era trovato in una trincea di Guadalcanal, proprio nel punto dove sarebbe caduta una granata. 
"Come ha fatto a trovarmi?"
"Suo nipote Matthew Williams, mi ha dato il vostro indirizzo."
Arthur sbuffò: "Matthew! Williams! Dimentico sempre che si fa chiamare così dai tempi della NHL."
Di nuovo tra loro cadde l'imbarazzante silenzio tipico di due sconosciuti che scoprono di colpo di avere un legame. 
"Signor Kirkland?"
"Cosa?"
"Mi racconti di mio padre."
 
Zio, zio, raccontami una fiaba!
 
Note: sesto capitolo di "Cronache di una famiglia". Al pari delle altre one shot anche questa può essere letta indipendentemente delle altre. consiglio tuttavia almeno di aprire "Dice che era un bell'uomo e veniva dal mare" perchè amplia il quadro di riferimento. 
NHL è la National Hockey League. Essendo un AU, Matthew e Alfred condividono il cognome. E' stata una delle libertà che mi sono presa rispetto al canon. 
Disponibile per ogni domanda.
Enjoy

Note linguistiche:

"Qu'est-ce qu'il passe"= cosa succede?
"Monsieur Arthur est arrivé. Tiens, il y a une lettre de Antonio."=Il signor Arthur è arrivato. Sai, c'è una lettera di Antonio."
"Oui, qu'est-ce qu'il dit?"= Sì, cosa dice?
"Je ne sais pas. Je ne l'ai pas ouverte. Plus je ne parle pas espagnole"= Non lo so. Non l'ho aperta. In più, non parlo spagnolo.
"Prends le moto, s'il te-plait"=prendi la moto, per favore
"Pourquoi toi?"= perché tu
"Parce que tu te ferme toujours chez tes femmes"= perché tu ti fermi sempre dalle tue donne
"Cours, je te couvre!"= Corri, ti copro
"Qui sait, mon cher Arthur"= chi sa, mio caro Arthur
"Wer da?"= chi va là

   
 
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