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Autore: RLandH    30/04/2015    1 recensioni
“Mamma dice che devo tenervi d’occhio” aveva detto con un fare superiore, non guadagnando comunque nulla più che un’occhiata disinteressata dai fratellini, più interessati alle lumachine.
Leonardo Da Vinci incontra in un sogno un ragazzino che sembra presentarsi come un'altra sorsata alla fontana della conoscenza.
Girolamo è perseguitato da incubi.
Una serva, un artista, una madonna ed un indovino.
E tutti sono legati inevitabilmente dal desiderio di una donna di conoscenza, incapace di viver ancora nel dubbio.
Leonardo l’aveva guardato, “Chi sei?” aveva chiesto alla fine, “Un’altra abbeverata alla fonte della conoscenza” aveva risposto, mostrando i palmi delle mani, cui erano tatuati i fiori dei figli di Mitra, “O solo un capriccio” aveva spiegato ed i fiori s’erano liquefatti fino a divenire i simboli delle chiavi, li stessi che gli indigeni della terra sconosciuta portavano tatuati sul petto.
Genere: Avventura, Malinconico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Girolamo Riario, Leonardo da Vinci, Nico, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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HALLELUJA! Si, nessuno ci credeva, ma ho davvero aggiornato. Con un capitolo piuttosto lungo, piuttosto inutile – forse.
Si sono una persona orribile lo stesso. Comunque, nel precedente capitolo ho scritto dei figli di Mitra ed ora dei Nemici degli Uomini, probabilmente i miei nemici degli uomini sono completamente diversi da quelli che saranno nella serie televisiva ma mi sono divertita parecchio a scrivergli.
Oltre questo, sebbene questo capitolo sia sprovvisto di due figure particolare e centrali, questo capitolo riunisce un po’ delle storie che sono state presentate. E se fosse una partita di Burraco sarebbe l’ultima scesa, per andare al pozzo. Sarà a volo o a chiusura?
Oltre questo vorrei fare un ringraziamento speciale a Lechatvert che non sono è stata così gentile a fare la Manip di copertina per la storia (Grazie ancora!) ma anche per essersi messa a tradurre espressioni bibliche in ebraico.
Grazie anche a chi segue e preferisce, chi legge solamente ed ovviamente chi commenta: Verdeirlanda(che credo sia la persona che segue questa storia con più costanza, grazie ancora) e Chemical Lady (All’interno del capitolo c’è una dedica per te, vedi se riesci a trovarla).
Buona Lettura.







 
Sono forse il guardiano di mio fratello?
 




Atto VII

Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore


(1458)


Sua madre l’aveva fatta lavare nell’acqua bollente. Non aveva detto niente, neanche una parola, aveva scacciato le serve fuori dalle stanze da bagno. Poi l’aveva guardata, con lo stesso sguardo che si da ad una animale ferito. Aveva afferrato una spazzola di fero per pettinarle i capelli, grovigli di riccioli sporchi di terra e foglie. La porta s’era aperta ed un ragazzino s’era introdotto nella stanza. Si sarebbe dovuta coprire, se avesse avuto un minimo di pudore, ma lo aveva perso, ogni senso. Guardò suo fratello più piccola guardarlo con occhi grandi e preoccupati, “Che è successo?” aveva urlato, “Fuori!”  aveva gridato la loro madre, puntando verso di lui la spazzola di ferro, aveva occhi rabbiosi, di chi non ammetteva contraddizioni. “Io voglio sapere!” ruggì il ragazzetto, lei sollevò appena gli occhi, avrebbe davvero voluto dirgli di andare fuori, ma i suoi fratelli, loro erano tutto ciò che aveva e soprattutto ciò che voleva. L’altro suo fratello entrò nella stanza, aveva ancora addosso l’abito del pranzo macchiato di terra e sangue, “Per l’amor del Cielo, lavati e cambiati” strillò sua madre esasperata, lui annui, funereo in viso, afferrando il minore per trascinarlo fuori. L’altro s’era divincolato fino allo sfinimento, urlando di voler sapere chi aveva fatto del male a sua sorella. Il maggiore le lanciò uno sguardo, sostenne un attimo e poi abbassò il viso, come a chiederle scusa. Ed era a lei a doversi scusare. Sua madre le accarezzò i capelli, quando il tonfo della porta riecheggiò nella sala da bagnò, “Sistemeremo tutto” aveva detto materna. La guardò, cercando disperatamente negli occhi di lei, la sicurezza di quelle parole, ma le venne solo da piangere di più. Sua madre le aveva detto, quando era bambina, di prendersi cura dei suoi fratelli, eppure si sentiva in quel momento così fragile da non potersi prendere cura di alcun che, neanche se stessa.


(XX-01-1979)


“Una donna può essere o angelo o sirena” esordì Lupo, dopo un lungo viaggio in cui non aveva detto mezza parola, avendo lasciando ai cugini il tempo di discutere tra loro. Girolamo aveva sollevato gli occhi per guardarlo con un espressione di confusione, “Sono certamente angeli quelle che incontreremo noi” aveva confidato Giuliano senza perdere neanche per un istante il suo bel sorrise. Lupo gli guardò, aveva uno sguardo strano, vagamente distanze, alzò le spalle e proseguì dritto, dove si stagliava nelle sue alte torri la bella Bologna. “Le clarisse suore del Corpus Domini, non possono che essere angeli” aveva dato manforte Girolamo, ricordandosi l’ultima suora di quell’ordine che aveva conosciuto in vita sua. Era allora un ragazzino, ancora sotto le cure dello zio, all’ora vescovo, ben lontano dalla realizzazione dei piani di suo padre. Girolamo schiacciava sempre quei ricordi quando affioravano nella sua mente, odiava viverli di nuovo, odiava dover percepire ancora nel petto il dissidio per l’amore per quella famiglia ed il dovere verso suo padre ed odiava in quel momento ricordare quell’innocente allegria che s’era andato a perdere poi.  Erano diretti a Bologna, anche allora, lui e Giuliano, a seguirli c’era Pietro però, con quel sorriso impertinente che Girolamo spesso sognava ancora la notte e Lucrezia Donati, con gli occhi grandi e blu rivolti all’avvenire, tutta contentezza e fanciullezza, che raccontava di quando la volta seguente avrebbero portato anche Amelia, quando sarebbe stata più grande. Giuliano che rideva del povero Giovanni costretto al letto influenzato che non era potuto venire con loro e Girolamo invece pensava a Violante, che era rimasta con suo marito a Roma,  annoiata da quella loro birbanteria giovanile, ormai troppo posate e troppo seriosa, Sono una matrona romana, sono una donna sposata, sono cresciuta, io, diceva sempre perentoria, un po’ arcigna, con i capelli perfettamente ordinati ed il sorriso caustico sulle labbra. E Pietro le faceva il verso. E Girolamo si rendeva conto, in quel momento, che di tutti, da allora, Violante era rimasta la sola che il tempo non aveva scalfito e rovinato, nessuno di loro era maturato, quest’epifania Girolamo l’aveva avuta tempo prima, mentre scavava con Lucrezia la tomba d’Amelia, erano marciti, tutti. Bologna gli fece pensare a Bebele, con le sue torri alte che svettavano oltre le mura, estendendosi così in alto da voler sfiorare Dio.
 “Sembri sovrappensiero” constatò Giuliano, affiancandolo nella cavalcata, aveva un espressione tranquilla in viso, come l’aveva avuto per tutto il viaggio, aveva accuratamente evitato di parlare di Dracone, di qualsiasi cosa, non privandosi però di frecciatine quando opportuno potevano essere tollerante, mantenendo sul viso un espressione granitica. Francesco della Rovere quando aveva indottrinato i suoi nipoti, avrebbe dovuto rendere di Giuliano un politico e di Giovanni un sant’uomo.  “Ripensavo all’ultima volta che siamo stati al Convento” aveva confidato Girolamo. No, i suoi pensiero, spesso solo al Signore gli confidava ed a Zita, nel buio della sua stanza, sotto le lenzuola scure, che nascondevano le loro pelli ed i loro oneri. Nel buio, sotto le coperte, Girolamo con la sua serva aveva l’impressione di recuperare l’innocenza perduta. Giuliano risse, chiudendo le risata sotto le labbra, Riario poteva dire di conoscere Della Rovere, spesso, ma altre volte, aveva l’impressione non avesse di lui compreso nulla. “Parli di quando abbiamo dovuto inseguire Silvia Odescalchi?”  chiese retorico quello, con gli angoli della bocca sollevati in un ghignò.  Forse, suo cugino s’aspettava si concedesse una risata, ai ricordi delle goliardie della loro gioventù, ma così non fu, il solo ricordo della madonna placò ogni desiderio di immergersi nella memoria.
 Silvia Odescalchi che da giovinetta aveva le gote rosse come le fragole, tonde e morbide, riccioli d’oro sul corpo, che da donna s’era fatta grigia, con le guance incavate ed i capelli di paglia, vestita di nero, di lutto, per la morte dell’amore stesso e della speranza. Quando Girolamo aveva rivisto Silvia, qualche anno prima ad una festa, aveva visto l’aridità dove una volta c’era stata l’innocenza, s’era poi reso conto che la donna non era stato altro che lo specchio della sua anima. “Si, me lo ricordò” confidò a Giuliano. Lucrezia rimasta nel convento, bella e dolce come una primola e loro tre impavidi per le vie di Bologna, alla ricerca di quella bella dama di cui Pietro era tanto ossessionato.  Forse fu per il suo viso, ma suo cugino perse ben presto la voglia di ricordare la loro adolescenza e continuò per la sua strada. “Fermiamoci” esordì Girolamo, “Per far riposare i cavalli qualche momento” aggiunse, scendendo dal suo destriero, consapevole che con tale vicinanza a Bolgona, era quasi una follia, ma gli altri furono costretti ad assecondarlo.
 
Non voleva dirlo Girolamo, ma l’idea dell’avvicinarsi a Bologna, lo aveva quasi gelato, quando s’era abbandonato nei ricordi, perché erano davvero anni, che non si fermava un solo momento a pensare a Pietro. E Bologna era stato con una lama che aveva scavato nella sua memoria, tranciando ragnatele e lenzuola. Giuliano non si era avvicinato, era rimasto vicino al suo cavallo ad accarezzarli il manto chiaro, come la sabbia, a guardarlo così non sembrava una cardinale, privato del rosso del sangue, vestito di cuoio nero, sembrava quasi Giovanni, con un espressione più enigmatica ed una compostezza maggiore.  Della Rovere lo guardò appena, come se non provasse il minimo interesse in lui.
Lupo s’era fatto vicino a lui, vecchio,  il mantello blu che voleva, nel vano tentativo di tenerlo fermo, lo guardò appena, con gli occhi stanchi, neanche lui sembrava così animoso di raggiungere la città dalle alte torri; il conte pensò dovesse anche Mercuri avere lasciato in quella città qualche vecchia memoria sgradevole. “Non ardi dalla voglia?” domandò di scherno Girolamo, alla fine, dopo aver atteso che Lupo stazionato al suo fianco dicesse qualcosa, osservando l’uomo che mosse il capo, con le labbra rugose sigillate, “Sono più di quindici anni che non torno a Bologna” confidò l’uomo con una punta d’amarezza nella voce.
Questa volta Giuliano s’era avvicinando, trovando forse le confessioni del vecchio Lupo decisamente più interessanti del broncio che lui aveva messo su quando avevano cominciato a parlare delle vecchie glorie. Girolamo non disse nulla, non realmente così interessato alla questione, anche se dovette ammettere, ascoltare i rammarichi  d’un altro uomo, l’aiutava a riseppellire i propri, “L’ultima volta che sono stato in quella città, fu per l’onoranze …”- tacque a lungo, come soppesasse quelle persone – “… d’una cara persona”  rispose con un tono di voce vacuo, gli occhi persi, dritti all’orizzonte, sistemati in qualche vecchio ricordo. “Ed era l’angelo o la sirena?” domandò tutto lascivo ed impertinente Giuliano, “La curiositas è una grave colpa, cugino” disse Girolamo con disappunto; Lupo non parlò per una manciata di attimi, i loro respiri furono l’unico disturbo nell’aria, poi sospirò, colto in fallo,  “Era l’angelo e la sirena” disse, vecchio dentro, oltre che fuori.
Riario non se ne rese neanche conto, ma gli sembrò d’esser per un attimo in quel momento di essere nelle sue stanze nel palazzo vaticano, sotto le lenzuola scure, immerso nel profumo di Zita, il suo angelo e la sua sirena.
 
“La prima volta che la vidi, stava ballando” balbettò Lupo, con gli occhi rivolti all’orizzonte, dove sempre più ispirata s’erigeva Bologna con le sue alte torri, Giuliano inclinò il capo incuriosito. Dopo la breve pausa cui Girolamo gli aveva costretti, non avevano detto più una parola. Riario aveva gli occhi rivolti in avanti, ma era indietro che guardava, al passato, all’ultima volta che erano andati a Bologna forse, a quel fratello di cui non parlava mai o forse, lui sbagliava in tono, Girolamo pensava a qualcosa di contorto, quella sua dannosa ossessione che lo aveva portato a scappare fuori dall’Italia e chi sa dove, tornare con una gamba rotta e vuoto, nonché fosse mai stato animato da una gran pace interiore. Certo da bambino era stato pressoché normale, forse troppo serioso, ma crescendo che s’era rovinato, da tutto serioso s’era fatto contorto, negli ultimi anni era assai peggiorato, ma dal ritorno del suo viaggio era come se ogni sua inquietudine avesse raggiunto la sua spensieratezza, succhiata via e perduta.
Ed aveva anche rapito il suo amante.
Non riusciva a scrollarsi il pensiero di Dracone, neanche per un istante, chiedendosi cosa stesse cercando di tirargli via dalle labbra Raffaele, cosa Girolamo volesse in realtà … Che suo cugino avesse scelto, come lui, di scoprire le tortuose vie dei miscredenti? Sentiva quei pensieri immensamente più leggeri, nel momento in cui, non indossava la porpora cardinalizia, l’idea del Libro delle Lamine, della conoscenza del primo frutto, del tutto, era qualcosa di ben più bramabile del semplice sangue e del corpo di cristo. Suo zio, quando Giuliano era stato più facile ne aveva parlato, della conoscenza, ne aveva parlato con lui, con Giovanni, con Pietro, con Girolamo, forse anche con Violante, con tutti gli altri, ma aveva avuto l’impressione nessuno di loro fosse mai stato così interessato.  Lui almeno non aveva avuto alcun interesse in quelle favole della buona notte per molto tempo, poteva sembrare una cosa ambigua, ma nonostante il colore della sua tunica. Della Rovere vedeva la chiesa come un mezzo e Dio come un discorso a parte, certamente credeva nel signore, nello spirito santo, sarebbe stato quantomeno sciocco e decisamente narcisista non rivolgere a lui le sue speranze, ma solo quelle, i miracoli come le magie, che fossero di Dio o di Mitra, Giuliano le lasciava ai libri.
Almeno fino a ché in viaggio a Catania, aveva incontrato l’uomo vestito di nero, qualche anno prima.
 Aveva pensato d’esser pazzo all’inizio, una figura scura nelle sue stanze, mentre Giuliano afferrava la una spada e chiamava le guardie, l’uomo l’aveva guardato, “Quante persone ci sono nella stanza?” aveva chiesto  e dopo un battito di palpebre, Giuliano s’era trovato con una spada in mano, circondato da qualche guardia e nessuna traccia dell’uomo vestito di nero.  Un nemico dell’uomo aveva scoperto poi, in cerca della conoscenza che solo il libro delle lamine poteva avere.  Come Dracone, uomini marci fino nelle ossa, lui non era tanto diverso, ma la conoscenza lo intrigava quanto il potere; il sapere è potere, diceva sempre suo padre.
 
“Aveva certi occhi” disse Lupo, “Aveva il viso d’un angelo, ma gli occhi cattivi come” – “Quelli d’una sirena?” lo interruppe Giuliano, con un sorriso sghembo, certo che avrebbe detto quello, “Si” commentò con un tono sottile il vecchio; Lucrezia era meravigliosa, bianca, liscia, ma certamente nulla d’angelico, o che potesse sembrare tale, era forse lei la sirena? No, era Dracone che cantava di canzoni che lasciavano naufragare le navi e condannava le anime all’inferno.
 “Eravamo a Ferrara” confidò Lupo, “Ero con vostro zio” aggiunse, entrambi i cugini rizzarono le orecchie a quelle parole, trovando sempre interessante sua santità nei racconti. Giuliano ricordava, quando erano giovani, Francesco della Rovere, trovava un lezioso divertimento nel raccontare della sua giovinezza, piacere che s’era privato da quando indossava la tiara sul capo, assieme a tutte quelle piccole sfumature d’allegria birbonesca, pareva quasi un altro uomo, forse era semplicemente il peso del suo ruolo o il dolore, a Giuliano non era parso più diverso da quando aveva appurato da Girolamo della morte della piccola Amelia. Non doveva esistere dolore più straziante per un padre vedere un figlio morire.
Lupo volse lo sguardo verso di lui, certo dell’andatura del cavallo, non disse nulla, tornando poi a rivolgere gli occhi al sentiero, la porta cominciava a farsi vicina, “E poi?” chiese Girolamo, con un groppo alla gola, quasi pavido, Giuliano l’avvertiva, all’idea di entrare in quella città, “Quando a Madonna Margherita venne a noia la festa, anche lei andò via” rispose Lupo. Il cardinale saettò lo sguardo verso il vecchio, “Ma come nessuna notte d’amore e passione?” domandò curioso, Mercuri rise seccamente ed amaramente, come se fosse stato punto da qualcosa, probabilmente nell’orgoglio, “Probabilmente a quella festa, lei non s’era neanche accorta di me” confidò con voce cupa, chiudendo gli occhi, seppellendo nel profondo quel dolceamaro ricordo.  Agli uomini di chiesa non era concesso potere avere una moglie – o concedersi ai piaceri carnali – eppure Giuliano tra i suoi compagni non aveva trovato uno solo di loro, smanioso di rispettare tale veto, nonostante gli animi di tutti rimanessero leggeri. Lupo pareva martoriato da quel sentimento univoco e mai sfogato, era quello a tormentarlo? L’insoddisfazione e il rammarico di non aver colto quella angelica sirena quella sera? O c’era di più?
E le sue sirene, invece? Lucrezia sola in un grande letto forse stretta ad un amante a rider di lui così preoccupate per Dracone legato con il ferro in qualche sotterraneo.
 
 
 
Costanza D’Avalos aveva il viso pulito come doveva una brava fanciulla avere, tondo e delicato, finemente chiaro come la porcellana, i capelli scomposti di chi del pettine non doveva aver un gran legame, tutti nodosi, scuri come il legno bruciato. Indossava una gonna larga giallo come un limone, con fiori damascati, d’un giallo più scuro, un bustino rosso bruno, con maniche a sbuffo, che ricordavano petali di rosa, d’un acceso vermiglio. Sembrava una sorta di fiore delicato a confronto di quella granitica e burbera creatura dal cui seme era nata.
Innico era seduto di fronte a lui, su uno scranno di legno dipinto d’orato, con un cuscino di stoffa scura imbottita; vecchio, ma tutt’altro che stanco. Aveva occhiaie e zampe di gallina, che non emanavano affatto stanchezza o debolezza, conferivano l’aria di una stoica figura da ammirare, come i vecchi busti dei savi romani. Costanza s’era avvicinata a loro, con gli occhi spalancati e curiosi, seguendo un servo che aveva depositato sulla tavola tonda che gli divideva dei calici sottili colmi di vino rosso come il sangue e dei molluschi serviti su piatti di ceramica fina. Aveva storto il naso, non era sfuggito agli occhi attenti di Innico, che s’era se possibile più steso con la schiena, esponendo il petto come un pavone, lì dove era sfoggiata la torre d’orata sulla blasone blu. “Non gradishci il peshce?” domandò a denti stretti l’uomo, con quel suo accento strisciato, che si portava dietro dalla giovinezza a Castiglia, “Non sia mai” disse rispettoso lui, cogliendo la forchetta d’argento ed animandosi per tirar via la creatura dal suo guscio. Costanza se ne stava sempre lì con gli occhi spalancati di curiosità, Innico si voltò appena verso di lei, con gli occhi non del tutto aperti, in qualche modo seccato, freddi e verdi, “La mea veda1 ” disse perentorio, “Si?” mormorò la ragazzina tutta incuriosita, neanche vent’anni, ancora bella come un fiore, senza però un marito ad impalmarla, “Và!” aggiunse schietto, con un gesto secco della mano, come scacciasse un insetto, Costanza annui, si raccolse con le dita pallide la gonna gialla, fece un delicato inchino e si ritrasse via correndo rapida come una cerva, incurante delle caviglie sottili in bella mostra.
 
“Diventa ogni anno più bella” constatò lui, mordendo la molle creatura, guardando ancora la direzione in cui la fanciulletta era fuggita – consapevole di aver in qualche modo offeso il padre. “Ja. Una flor, che shposherà un nobile italiano e non shpenderà mai due parole con una melanzana bashtarda come te” aggiunse Innico, l’altro rise, piccato ed ostile; non importa da quanto tempo lavorasse a fianco di quel’uomo,  il marchese D’Avalos lo guardava nello stesso modo superbo, arrogante e stizzoso della sua matrigna, sentì le dita formicolargli dal nervoso. “Mi auguro tu non mi abbia chiamato qui, distraendomi dalla mia ricerca, solo per denigrarmi” commentò alla fine lui, dopo aver inghiottito il mollusco, con molta meno fatica di quanto avesse immaginato, la creatura era viscida sul palato, ma piuttosto buono.  Innico sorrise in quella maniera arcigna che non voleva dire mai nulla di buono, prima di sorseggiare il vino; il viso s’era trasformato in una maschera raggrinzita,“No” disse fermo.  Del Marchese potevano essere dette molte cose, ma non di certo che avesse remore ad esser diretto. Comunque Innico si prese il tempo necessario per gustarsi ciò che v’era nel piatto prima di decidersi a parlare, “Il Sacerdote mi ha incaricato” commentò alla fine, come se quello giustificasse tutto. Lui sentì i brividi sulla schiena, nel sentire pronunciare il nome con cui era noto il loro maestro. “Innico …” cominciò senza nascondere una vaga frustrazione, l’altro uomo grugnì, “Marcheshe o Sher D’Avalosh, per te” – si pulì, con un fazzoletto, il rosso dalle labbra –  “O Rivolgiti a me come tu shai” lo interruppe, “Stratega” cominciò nuovamente lui, senza nascondere affatto un tono  infastidito ed un occhio vile Innico.
 “Mi è concesso sapere perché ho dovuto abbandonare la ricerca di Caterina?” domandò alla fine lui, con una smorfia sulle labbra. Vide nella sua memoria scolpito come un viso sulla pietra, dell’ultima volta che l’aveva veduta, scaltra come una gatta, il volto granitico, ma gli occhi furbi di chi  aveva capito già tutto, scomparire nelle ombre quasi non fosse fatta di carne. “Perché il nostro misterioso Sacerdote lo vuole, mio buon Mago” disse una voce alle loro spalle, Innico  strinse le labbra rugose. Lui, invece, si voltò di scatto, con la mano sull’elsa della spada posata alla sedia, non riconoscendo a primo acchito la voce.
Il nuovo venuto si dimostrò nel suo aspetto quanto mai famigliare; un viso fin troppo gioviale e divertito. Il Cantore, vestito di nero come il cupo mietitore, una lunga tunica, dalle maniche larghe, le braccia spiegate come ali d’uccello, pronto ad accogliere un abbraccio, “Al” disse rallegrato il Mago, prima di sollevarsi dalla comoda sedia, per stringere quello in un abbraccio come  fosse stato suo fratello, un fratello amato chiaramente.
 Al ricambiò, battendoli anche un buffetto sulla schiena, con affettò, ridendo in quella maniera da iena; “She abbiamo nomi in codice, una ragione c’è”  aveva commentato tra se e se Innico, con quell’espressione arcigna e avvizzita. Il Mago lo guardò appena, con un’espressione di mero disgusto, gli anni in cui Innico valeva qualcosa erano ben trascorsi e perché il Sacerdote si ostinasse a tenerlo lo confondeva, il camerlengo del Magnanimo era solo un vecchio, aveva perso tutto il suo glorioso fascino.
Lo Stratega aveva mosso il capo sconsolato, “Vecchio, ti preoccupi sempre troppo” aveva commentato Al con una punta d’acidità della voce, non riuscendo a trattenere la curvatura delle labbra in un sorriso arcigno. Un servo impacciato, entrò nella stanza, portandosi dietro anche le vettovaglie, affinché anche Al potesse mangiare con loro. Aveva un aspetto allampanato ed i capelli neri, sporchi; quando incrociò gli occhi con quello del nuovo ospite, divenne livido in viso, l’altro non sembrò badarci molto, agli sguardi ambigui della gente, quando veniva in Italia, doveva averci fatto l’abitudine, cosa che invece a lui non era mai riuscita, lo sguardo della gente continuava a bruciarli su quella sua pelle tanto disprezzata.  Al s’era accomodato su una delle sedie libere, accavallando le gambe, puntando un gomito sul manico della sedia, posando una guancia sul palmo; era un uomo alto e snello, dalle spalle strette, il viso d’olivastro, cappelli scuri, ondulati come il mare, intrecciati ed un alone di sottile barba sul volto, aveva occhi verde scuri, come olive. 
 
“Pensavo non ti avrei più rivisto” aveva commentato con tono dolceamaro il Mago con un sorriso incredibilmente sincero, quello aveva ghignato malizioso, “Che uomo di poca fede” scherzò, con quel suo sorriso schietto, “Neanche se dovessi divenire il califfo, Carlo, i nostri destini smetterebbero di incrociarsi”  aggiunse con beneamata convinzione. Un cameriere cercò di servire anche ad Al del vino, “Acqua, per me” disse quello, fermando la caraffa, non dando segni di disdegnare il cibo, però. “Un uomo che non beve è un uomo che ha segreti” commentò il Mago divertito, l’altro rise con vago divertimento, “Più di quanti tu possa immaginare” commentò, sollevando dal gambo un calice ricolmo d’acqua, come proponesse una bevuta. Il Marchese D’Avalos roteò gli occhi seccato dai due, insofferente come solo i nobiluomini sapevano essere  - ed i vecchi, incapaci ad abituarsi alle generazioni successive - scommetteva Carlo. “Parlando del califfato, non hai avuto ancor il ruolo di papa nero?” aveva chiesto poi incuriosito poi il Mago, bevendo una sorsata di vino, Innico non nascose un certo interesse.
Al s’era smunto del sorriso ironico che adornava il viso, “Di nero, qui ci sei solo tu” rispose piccato, prima di ghignare, “No. Il vecchio tirerà le cuoia a breve, ma quel ruolo non è ancora mio, purtroppo” aveva ammesso un poco risentito poi, posando il calice sul tavolo, “Ma dopo …” aggiunse con enfasi. Lo Stratega  lo guardò con una punta d’amarezza sul viso, “She non otterrai quel ruolo …” ringhiò, “Sarò solo un beduino e lui una melanzana bastarda?” chiese retorico Al, indicando loro due, con un tono derisorio, di chi di prendere sul serio le cose non poteva averne; anche lui si fece, d’altronde, una risata di gusto, quanto più per il viso indispettito del vecchio.  Era si ancora sensibile alla sua condizione, ma Al era più un amico che un confratello.  "Diventare Califfo è come ottenere la carica di papa" aveva aggiunto comunque stizzito il Cantore, tra se e se, ma le labbra lo stesso curvate in un sorriso sornione.
Carlo lo conosceva per quella sua incondizionata birbanteria, che quasi uno riusciva a collegarlo, alla stoica figura d’un religioso – di qualsiasi credo fosse – come invece era, figurarsi d’uno che parlava in nome d’un qualche presunto dio.
 
 Lo Stratega ringhiò, riducendo gli occhi a fessure, stritolò la forchetta dei molluschi quasi a piegarla; lo sapevano tutti quanto odiasse le beffe. Di nobili come lui, ne aveva conosciuti molti – troppi – nel corso della sua vita, quando ancora era ingenuo ed illuso giovincello, sempre alle spalle del suo grande padre. Era solo un bastardo, anche nella libertina Firenze, quel fardello contava ancora troppo, e nessuno s’era mai sognato di farglielo dimenticare, neanche per un solo istante, neanche suo padre, il grande Cosimo De Medici.  Carlo aveva smesso di mentire a se stesso da tempo, s’era sempre sentito profondamente di troppo, sbagliato ed a disagio all’interno della propria pelle, così diversa, così scura rispetto quella di suo padre. Cosimo l’aveva tenuto questo si, lui e la sua madre schiava Maddalena, senza però che incontrasse o si legasse con la sua famiglia, sempre guardato dall’alto in basso da quella vecchia ciabatta di Contessina, la moglie legittima, solo un bambino, troppo più giovane dei suo fratelli, e tenuto ben distante dai suoi cugini.
Carlo, i De Medici gli aveva odiati, tutti dal primo all’ultimo, sempre; la gioia, quando suo padre finalmente l’aveva considerato, aveva dato a lui il suo lascito per i figli di Mitra, a lui aveva presentato la brillante Caterina e svelato i segreti dietro quel mondo, regalato qualcosa che solo loro poteva essere, ma era stato sciocco, aveva dato a lui il fumo, aveva lasciato a Giovanni e Piero l’oro, la gloria, l’onoro ed il nome. A Carlo aveva lasciato sogni e basta, pericolosi, mortali ed effimeri; “Non l’hai capito che voleva solo sbarazzarsi di te?” aveva detto il  Sacerdote, il suo - futuro - maestro, mentre Caterina nell’altra stanza si preparava al viaggio, con gli occhi rigati di lacrime, per quel figlio che non poteva stringere da anni, Cosimo aveva lasciato a lui la follia, il rischio e la solitudine.
 
Prendersi i soldi di Lorenzo, vedere Firenze piangere e l’ossario di Giuliano, erano stato per lui gioia, la prima da molto tempo, da quando s’era accorto che per lui suo padre non aveva lasciato nulla. Giacere nel letto padronale, lì dove avevano dormito suo padre e la moglie, suo fratello Piero, dove abitualmente dormiva suo fratello Lorenzo, che tutto aveva avuto, con il membro piantato nella femminilità di sua moglie. Oh Clarice, il pensiero fu fugace, la visione di quella pelle, di quel corpo, d’un’altra fortuna che suo nipote s’era beato, senza ringraziare il cielo tutti giorno, come si poteva, si chiedeva Carlo, avere accanto una donna come Clarice e non lodarla ogni momento? Di tutto ciò che aveva fatto, quella donna era il suo unico rimpianto, avrebbe dovuto portarla via con lui, darle tutto l’amore che meritava e che quel suo stupido nipote non era capace. Clarice così bella, così luminosa.
Nella sua vita, in quei soli occhi chiari non aveva visto il disprezzo, una donna romana a Firenze ed un bastardo dalla pelle nera, nulla poteva essere esistito di più perfetto, avesse avuto la capacità di attraversare il tempo, che fosse un ciclo ed un reticolato, l’avrebbe portata via con se.
“Potremmo sapere, cosa il Sacerdote, preme di dirci, vecchio?” interruppe i suoi pensieri Al, senza smettere d’ostentare una certa arroganza, mista però ad un inconsueta calma, “Ashpetteremo il Cavaliere” aveva risposto lo Stratega con un tono piatto.
  L’ospite mancate arrivò dopo, con i capelli biondi inumiditi, il naso arrossato ed infastidito dall’aria salina della zona di mare, con indosso una parziale armatura, grigio scura, di ferro, su cui era dipinto un ormai scolorito leone rosso rampante, “Per trovare cvesto posto” si lamentò l’uomo, con il viso livido funereo. Il Cavaliere era alto, bianco come il latte, maculato sulle guance magre e nude di piccole lentiggini, aveva capelli biondi come spighe di grano, arrivano alle spalle, un viso bello, ma rovinato da una cicatrice livida sul naso che sfigurava il viso con una riga lievemente obliqua. “Non ti piace il mare, Hans?” aveva chiesto Carlo retorico, con un ghigno sul viso, quello gli riservò un occhiata infastidita, “No.  Io detestare cvest aria, me innervosisce” si lamentò, mentre raggiungeva la sedia lasciata apposta per lui, lanciando un altro velenoso sguardo oltre la finestra, dove lontano si intravedeva il mare salino. “Tacete” commentò Innico, osservandoli attentamente, passando gli occhi su ognuno di loro, quasi volesse folgorarli.
 
 
 
“Preshsho Orfeo shono tramandati quattro regni: primo quello di Urano, che ricevette Crono, una volta che ebbe evirato i genitali del padre” esordì allora il vecchio, “Dopo Crono regnò Zeus, che scaraventò nel Tartaro il genitore; in seguito, a Zeus successe Dioniso che, dicono, i Titani gravitanti intorno a lui dilaniarono, per una macchinazione di Era, e si cibarono delle sue carni.” continuò Al quella preghiera che sanciva l'inizio di ogni incontro tra Nemici dell'Uomo.  Pratica che Carlo trovava sciocca, non meno del rituale dei Figli di Mitra, come richiesto fece la sua parte; disse:  “ E Zeus, colto dallo sdegno, li folgorò e, generatasi la materia dalla cenere fumante da essi prodotta nacquero gli uomini” con sicurezza, ricordando quelle parole, “Infatti noi essere parte di lui, se verità che noi essere  formati da cenere dei Titani. Noi essere le corna de increato” terminò  Hans, mordendosi le labbra carnose, indisposto alla sua scarsa conoscenza delle lingue volgari.
Il marchese del castello  annuì lentamente, per la prima volta non urtato dalla loro presenza; “Fratelli” esordì, “Il Linguishta shi shta dirigendo a Napoli, in queshto momento” – il suo tono era austero, imperterrito. "Io incontrato con lui, Venezia, giorni fa" aveva rivelato il cavaliere.  Lo Stratega, come gli altri, non diede segno d'essersi curato di lui, preferendo voltare lo sguardo verso Al, “Per raccontare alla ducheshsha di Ferrara della Sherenishima e degli Ottomani” aveva aggiunto, prima di rivelare che il desiderio della madonna fosse quello di conoscere la vera condizione italiana, con l’assoluta convinzione d’aver trovato una spia su cui fare affidamento.
Carlo trattenne una risata di scherno, fidarsi del Linguista, era come consegnare un gregge di pecore ad un lupo. Aveva parlato l’ultima volta con il confratello prima di raggiungere la Signoria, per prendersi parte di ciò che gli spettava e sottrarre a Leonardo, ciò che Caterina gli aveva lasciato. Il linguista l’aveva accompagnato per metà della strada, con indosso abiti diversi, da fattore, anziché l’abbigliamento solito con cui era sua abitudine vederlo, per cui in Italia sarebbe stato guardato con sufficienza e con disgusto, come accadeva a lui in fin dei conti –  se non addirittura appeso per la gola a qualche ramo. Non avevano parlato dei Figli di Mitra o del Labirinto oppure dell’imminente missione, faceva ridere nel pensarci effettivamente: avevano parlato delle proprie famiglie, di quanto il Mago la odiasse e di quanto il Linguista l’amasse. Aveva raccontato a Carlo dalla sua bella, sciocca e fedelissima moglie – che nulla sospettava – e dei suoi fratelli, con l’orgoglio dipinto in un sorriso sulle labbra.
Carlo l’aveva seccamente invidiato.
 
Lo stratega ricominciò a parlare, “Cavaliere e Cantore andrete a Napoli” aveva detto, “Raggiungerete il noshtro fratello, sheguirete le shue direttive” aveva illustrato, rivelando che  quello tornava direttamente dall’incontro con il Sacerdote, “Dopo questo viaggio potremmo trovare un nuovo adepto o un alleato” aveva detto con un sorriso rilassato sul viso, soddisfatto in qualche modo, prima di bere un altro sorso di vino. I due annuirono, per niente turbati dall’incarico, ne dalla mancanza di conoscenze, di certi tempo era meglio conoscere le cose a tempo debito ed ignorane altre, non era mai noto chi ascoltasse, ne se si potesse fidare di ogni uomo attorno al tavolo.
“Tu, Mago” disse poi serioso, puntando gli occhi su di lui,  “Dovrai raggiungere la Mushicante” disse con un tono perentorio. Carlo annui, nascondendo abilmente l’inquietudine, interrompere la diretta ricerca del libro delle lamine lo infastidiva fin troppo, ma di incontrare la Musicante sentiva i brividi. La donna non era certamente la più pericolosa tra loro, ma aveva la stessa abilità nello scomparire nell'ombra quanto Caterina. Si spostava veloce, era il loro piccione viaggiatore. Perchè non fosse lì, lasciava Carlo interdetto. La Musicante non era mai stata una donna da restare ad attendere, con un profilo basso poteva valicare l'Italia senza che un solo uomo potesse solo accorgersene.
Quando era tornato dalle terre oltre il mare, con nient’altro che polvere tra le dita,  rabbioso e ferito nell’orgoglio, era stato raggiunto proprio dalla donna; la Musicante era scaltra, savia e pericolosa - eppure nessuno si preoccupava di lei, neanche Al-Rhaim sempre scaltro. Annui, “Dunque dove è ora la nostra consorella?”aveva domandato, chiedendosi dove fosse rintanata la consorella, "L'Urbe" aveva risposto Innico.
 
 
 
 
Lorenzo sembrava cento volte più infantile, mentre dormiva, con quella pelle così morbida, odoroso di gesso e vernice. Lordato dal viaggio, dal sudore e del suo stesso odore, era ugualmente una creatura incantevole, con i ricci serpentini e quel sorriso beato di chi aveva il lusso di concedersi il riposo senza temere le angustie della propria testa. Leonardo spostò un ciuffo appena dei capelli che scendevano sulla fronte, per direzionarlo dove interessava più a lui,  si fermò a guardarlo, cauto, si sporse oltre il letto, dove per terra erano stati abbandonati d’urgenza i vestiti e gli approvvigionamenti, scosse i panni della sua maglietta, ritrovando la bisaccia, da cui si premurò di estrarre il taccuino, le pagine tenute ferme dallo spago, un nero carboncino affilato c’era legato, pronto per essere usato. Guardò ancora un istante il giovane dormiente, quasi tentandolo d’esser ritratto, quando dalla bisaccia era scivolata fuori la pergamena donata da Giovanna Da Montefeltro, ben sigillata, con la cera rossa ed il viso affilato d’una volpe. Quando la madonna gliela aveva consegnata, Leonardo s’era ben guardato da riporla via dagli occhi curiosi di Lorenzo ed indiscreti di Sandro, più per il desiderio di tenere i due giovani lontani da quegli oscuri affari, che per altro.  Desiderava ardentemente proteggere Lorenzo da quel mondo, provava dolore al petto, nel pensiero di quanto male alla fine gli avrebbe fatto.
La visione della pergamena l’aveva così preso, da dimenticare anche di voler disegnare, aveva lasciato scivolare il taccuino sul pavimento per raccogliere la pergamena. Stratta tra le dita aveva rotto la cera, pressandola, un unico secco rumore, il viso della volpe s’era spaccato in due imprecise metà, dal contorno ondeggiato e frastagliato.  La pergamena era ruvida e giallognola, era più vecchia di quanto potesse aver pensato a principio, le parole che v’erano forgiate sopra, non erano nere, ma d’un secco inchiostro rosso bruno, tremolante, come d’una mano incerta. Le scritte erano in latino, lingua che aveva appreso poi negli anni, ci mise per sua vergogna più di quanto avrebbe voluto nel decifrare quell’incerto messaggio,  “L'Erebo mitiga spontaneamente/ la sua desolazione e concede che l'eterna notte si diradi/né l'urna di Minosse volge le incerte sorti” lesse a mezza voce, confuso da quelle parole. Madonna Giovanna aveva detto lui, di dirigersi da un tale, quando sarebbe stato il momento … E perché non proprio in quel momento? Forse era follia! Ma per l’incontro con madonna Aclima i giorni erano ancora da scandirsi e per quando potesse essere irrazionale infilarsi nel covo dei serpenti, sentiva l’impulso di incontrare Eliseo Vitalevi.
Scavalcò il letto, lasciando il fanciullo dormire beato, attese un minuto, sperando l’impulso di baciarlo svanisse. Non accadde. Ma lasciò ugualmente la stanza, in silenzio, cauto come un gatto, raccogliendo i suoi vestiti ovunque, faticando qualche istante a riconoscere quale fosse la sua di giubba e quale di Lorenzo. Chiuso la porta alle spalle, pronto ad andarsene – non prima d’aver ritrovato Zoroastro, forse al pianteranno bloccato a bere con qualche vecchio amico, senza di lui, non avrebbero di certo trovato un alloggio a così buon mercato, vide Sandro. Il biondo s’era privato di quella sua espressione pulita e gli abiti cipria ben disposti, s’era vestito come un contadino quasi, con la tunica bianca, un panciotto senza bottoni e calzoni scuri. Si chiudeva cauto la porta della sua stanza alle spalle, una pira di fogli ben legati da laccetti incastrati tra il gomito ed il polso, più attento d’un ladro. “Dove vai?” indagò Leonardo, sollevando un sopraciglio, colto in fallo, Sandro emise un gemito di sorpresa ed arretrò con un brusco gesto, finendo per poco a terra, ripresosi allo stipite, alcuni dei vecchi fogli sfuggirono, piantandosi sul pavimento, come semi di frumento, a meno d’un piede da Leonardo c’era l’immagine imprecisa d’una figura femminile, imprecisa, ricoperta da foglie e dalla lunga chioma riccia. Non aveva viso la donna, “Cerchi impieghi?” domandò Leonardo. Sandrò afferrò di fretta le carte, ansioso di sottrarle alla sua vista, “Non ti impicciare, tu” disse tutto preso.
Il più anziano sollevò un sopraciglio, "Se dovessero scoprirti con me" ci tenne a precisare, "Io non ho fatto nulla al papa" aveva risposto Sandro, per nulla interessato di ciò che sarebbe successo se fossero stati beccati. "Papa Sisto non è comunque uomo da accettare rifiuti" aveva detto perentorio Leonardo, se quell'uomo avesse richiesto che Botticelli restasse a Roma per affrescare una cappella o semplicemente per sapere qualcosa su di lui, Sandro non avrebbe avuto molta scelta. E tutto sommato Leonardo si sentiva responsabile per lui, visto che l'aveva seguito - e sembrava quasi un eresia dirlo, ma provava una certa empatia. Anche Leonardo avrebbe attraversato territori in guerra tra loro per incontrare una persona amata, almeno su questo erano d'accordo.
 Solo che la sua persona, Leonardo ignorava doveva fosse - e forse era meglio così. Nei suoi sogni era arpionata a sbarre di ferro e invocava il suo nome. Aveva scelto per ben due volte Lucrezia, questa volta s'era ripromesso di resistere.
Il tempo delle titubanze è cessato. Così aveva detto il vecchio.
 
Sandro invece era partito con l'uomo che odiava di più, per cercare una donna che aveva visto due sole volte in vita sua. Una ragazzina non troppo incantevole, con il viso emaciato e negli occhi una consapevolezza più profonda. Filippa Demopulo non aveva parlato del suo viaggio con Leonardo, ma aveva compreso il mondo onirico fosse crudele con quella ragazzina quanto con lui. Abbassò lo sguardo sui veri fogli che Sandro cercava di risistemare, osservando la riccia figura vestita di fiori e foglie d'ulivo, "Dovresti vederla per disegnarla meglio" lo canzonò, proprio mentre il giovane gli dava le spalle, ingobbito ed offeso, pronto ad andarsene. S'era girato di scatto, con gli occhi scuri interessanti, nonostante cercasse di dissimulare, "Certo" aveva detto schivo alla fine, "Tra qualche giorno, forse la vedrò" aveva rivelato Leonardo. Forse, non ne era sicuro, alla locanda da Vannozza Cattanei avrebbe incontrato madonna Aclima, forse ancora una volta in compagnia della sua devota serva dai capelli scuri.
 
"Di un po' Sandro, tu hai studiato latino?" aveva indagato Leonardo, "Mio padre faceva il conciatore ed ero il più piccolo di quattro fratelli" s'era lamentato il biondo, anziché rispondere, rivolgendoli uno sguardo velenoso, come se fosse stato invidioso di lui. E di cosa? D'essere cresciuto bastardo con un padre assente per delle campagne, in cerca di attenzione? Botticelli aveva talento, molto, considerata anche la sua origine, combinato ad una buona tecnica ed una testarda tenacia, eppure lasciava che i suoi malevoli sentimenti guastassero la sua arte.
 Comunque sia, Sandro non avrebbe potuto aiutarlo con il biglietto di Giovanna Da Montefeltro.
"Devo andare da tale, non farti notare, Botticelli" disse alla fine Leonardo, lanciando un ultimo sguardo alla porta, dove era rimasto a dormire Lorenzo. Così giovane ed innocente, da non meritarsi come amante uno come lui.
 
Non si era comunque liberato di Sandro. Anzi se l'era ritrovato attaccato alle caviglie per tutta la giornata. Aveva anche arbitrariamente rinunciato a chiedersi per qual motivo una delle persone che meno lo tollerasse, s’ostinasse a seguirlo. Infondo Zoroastro lo diceva sempre: gli artisti erano creature assai strane - certo non con termini così gentili. Ma almeno era certo che in questo modo non avrebbe in alcuna preoccupazione che quello avesse la sgradita idea di farsi notare. Così nessuno l'avrebbe cercato e forse non sarebbero inciampati in lui - e in Lorenzo e Zoroastro, se fosse accaduto ai due qualcosa si sarebbe sentito in colpa per il resto della sua vita.
Sentimento che in fin dei cointi provava per buona parte delle persone che finivano ad intrecciare la vita con lui. Era una cosa a cui suo malgrado si era abituato per quanto non riuscisse davvero a superarlo, Vanessa gli aveva detto, cotta dalle febbri, che prometteva luce, ma portava buio. Ormai era più che una certezza.
 
Con il biglietto di madonna Giovanna s'era diretto dal tale Eliseo Vitalevi. Non conoscendo sfortunatamente la via, aveva dovuto chiedere in giro. "Povero diavolo" disse un uomo vecchio, rugoso come una testuggine ed i capelli radi d'un grigio rovinato, continuando poi per la sua via, come se i due giovani non gli avessero chiesto nulla, "Pare che non sia una bella persona" aveva fatto notare seccato Sandro, mentre si spazzolava con la mano una manica, che doveva aver urtato qualcosa nel corso della loro passeggiata. "Quando mai" aveva detto a mezza bocca Leonardo senza dargli tutta quell'importanza, da che aveva incontrato il Turco, tutte le altre persone che i figli di Mitra lo avevano importato ad incontrare gente tutt'altro che bella, non che prima effettivamente si portasse gente di tutt'ltro calibro. Era pur sempre un bastardo.
Non s'era arreso, provando con quella che sembrava un'onesta meretrice in pieno giorno, con un vestito scollacciato, un naso ad uncino e l'incarnato bruno. Sorrideva accattivante, "Madonna" esordì Leonardo, prendendole un polso sottile, baciandole le nocche, cortese. "Non sono una sgualdrina, ser" aveva detto la donna arricciando le labbra, togliendo la mano dalla presa,  "Mai pensato" mentì Leonardo, cercando di sorridere affabile, "Cercavo un tale Eliseo Vitalevi" aveva rivelato poi, la donna aveva portato le mani al vitino stretto, "Uno scudo" ribatté quella con uno sguardo serioso, da affarista, con un sorriso storto, sopra le labbra sottili tinte di scuro c'era una cicatrice. "Sono un pover uomo" aveva risposto lui, "Sprechi soldi per un indovino?" aveva domandato lei, con le braccia incrociate al petto, strizzando il seno, in maniera più che provocante. Leonardo alzò un sopracciglio, "O cerchi lo strozzino?" confutò lei; l'altro uomo sembrava interessato, "Un indovino e uno strozzino?" indagò, posando il gomito sul muro, standosene appiccicato alla donna, lanciò uno sguardo a Sandro, disgustato.
La donna sorrise in maniera sorniona, "Si, degna stirpe di allibratori" aveva detto disgustato quella sputando per terra, "Ma pare che il buon messer Vitalevi sia uno di quegli uomini che parlino con cespugli in fiamme" aveva detto seccata ed anche abbastanza irretita, "Un visionario, dunque?" chiese  lui, la donna rise. "Forse. Qualcuno dice che è bravo" confidò alla fine, prima di mettere una mano sulla guancia di Leonardo per studiarlo meglio, accarezzandola. "Elisabetta da Bayti Laḥmin" si presentò lei poi, "Tommaso da Peretola" inventò Leonardo, sperando che Zoroastro non se la sarebbe presa a male. Sandro s'era inserito nella conversazione - non invitato - ribadendo di voler sapere dove fosse la casa di Eliseo Vitalevi, probabilmente esasperato da quella situazione.
Elisabetta lo degnò di uno sguardo appena, prima di tornare su Leonardo, "No" bisbigliò cauta, non sorridendo affatto, gli occhi ben aperti. "Come?" domandò Leonardo, colto di sorpresa, la donna spostò la mano dal suo viso per osservare i vestiti e le mani dell’interlocutore, "Non siete Zoroastro"  disse con un occhio critico, "Quel figlio di buona donna mi deve dei soldi, però. Se volete essere lui, almeno pagatemi" rise. Osservò le mani dell'uomo con molta calma, "Siete Fiorentino, non indossate abiti nobili e le mani rovinate" aveva tenuto a precisare, "Un artigiano? No, un artista" commentò attenta. "Conoscete molto gli uomini?" chiese Leonardo sottile, Elisabetta inclinò il capo, con un sorriso mellifluo sul viso. "Leonardo Da Vinci, giusto?" chiese a bruciapelo. Si irrigidì di colpo, sentendosi colto in fallo, in pieno. Prima che riuscisse a parlare, Elisabetta aveva inclinato il capo, "L'unico artista fiorentino così in confidenza da conoscere il nome di Zoro" spiegò, maliziosa. "Voi siete quella Elisabetta" colse Leonardo, ricordandosi delle varie disavventure di cui il suo amico si era reso protagonista. La donna annuì.
"Uno scudo per la casa di Vitalevi" ripeté comunque Elisabetta e Leonardo sapeva di doversi sentire grato per non aver alzato il prezzo, saputo la sua amicizia con Zoroastro. "Non siete di certo una meretrice, ma di sicuro un'ebrea" disse sarcastico Leonardo, guadagnandoci un buffetto sulla spalla, "Voi un rozzo sodomita, ci scommetto" berciò quella tutta offesa, soffiando come un gatto. "Chiedi a Zoroastro quando lo vedi" la provocò lui, dopo aver pagato quella fastidiosa tassa - forse un'altra persona ancora e avrebbero avuto l'informazione senza dover dare compenso. Sul viso dell'ebrea s'era dipinta un espressione indignata, ma fedele a se stessa, aveva dato ai due le direttive per la casa dell'indovino allibratore.
 
Sandro camminava al suo fianco più che silenzioso. "Quindi ..." aveva esordito il biondo, dopo poco, "Non lo vuoi sapere" l'aveva frenato Leonardo con un sorriso caustico sul volto, "Zoroastro si chiama Tommaso?" aveva sputato fuori Sandro, colto incontro piede. Non voleva chiedergli quello. "Si, ma non era di certo scenografico per il suo lavoro" aveva spiegato spiccio lui, non aveva di certo voglia di spiegare le scelte della vita del suo migliore amico a Botticelli, "Certo, perchè mai un tombarolo dovrebbe chiamarsi Pietro?" chiese retorico, con gli occhi al cielo,  "Indovino" corresse Leonardo, il nome l'aveva cambiato per il lavoro di facciata. Allungò il passo, osservando attentamente le vie, pronto a scorgere l'edificio che Elisabetta si era impegnata a descrivere. "Ed Elisabetta è?" aveva indagato Sandro, "Sai, Botticelli, ti preferivo quando ti illudevi d'esser troppo in alto per curarti delle beghe altrui" aveva risposto Leonardo, monotono. Il biondo lo guardò storto - più del solito, si intende. Se anche fosse stato qualcun'altro ad interrogarlo, qualcuno più gradito, Leonardo si sarebbe ben guardato da raccontare vicende che non lo riguardassero direttamente - ed anche di quelle era parsimonioso. Anche se la storia era di per se divertente,in un modo contorto. Elisabetta - secondo le parole di Zoro - non aveva avuto altra nomina se non quella d'una piacevole giornata, passata su un letto bitorzoluto, all'insegna della curiosità. La prima donna - e persona - con cui il suo degno compare avesse scoperto i piaceri del corpo. Ed erano stati scoperti. Tolta la virtù alla bella Elisabetta, il padre della donna aveva preteso che i due oltre che il letto consumassero anche le nozze. Zoroastro però d'un cappio al collo non ne aveva mai sentito il bisogno ed ancora ragazzino, non s'era presentato in sinagoga, ma era bellamente fuggito con la dote. Elisabetta aspettava ancora che Zoro o la spossasse o le ridesse i soldi.
La casa di Eliseo era piuttosto vecchiotta, di legno e calce, con la porta fatta di imposte di legno, la porta però era in ferro nero e rugginoso, un anello pendeva dalla porta. I due avevano osservato per un attimo la porta, spettando da una timorata distanza. Una figura s'era avvicinata, un ragazzo sbarbato, dai capelli biondicci, fin troppo filiforme, indossava una veste logora leggermente rovinata. Tra le braccia teneva un vaso di terracotta bianca, con alcuni disegni a Leonardo sembrò fin troppo simile a quello che la moglie di Riario gli aveva distrutto. Leonardo s'era avvicinato, seguito a ruota da un Sandro, con il viso cucito dal disinteresse. Con occhio più attento - e vicino - lo sconosciuto era certamente meno giovane di quanto era apparso, più nervoso ed magro. Tremolava, con la mano a mezz'aria, pronta ad afferrare l'anello per annunciare la sua presenza. Si era voltato però prima di farlo verso Leonardo colto un certo velo di imbarazzo, che l'artista ammise di non riuscire a capacitare. Così fu lui ad afferrare il campanaccio per annunciare le loro presenze. Non dovettero aspettare molto, prima che la porta venisse spostata, con un sinistro cigolio, che ne sottolineava la vecchiaia. Una figura ne era apparsa dietro. "Signora Carola, salve!" aveva enunciato lo sconosciuto, con la voce tremolante; Leonardo aveva concesso la sua attenzione alla presenza. Una donnicciola, più giovane di lui, ma certamente ben lontana da essere una donna-bambina, con i capelli scuri, lisci, che cadevano su un abito povero, d'un colore spento. E gli occhi, castani e vitrei, Leonardo provo un senso di spiacere. Erano occhi vuoti come quelli di un morto. Unico monile una stella di Davide d'oro sottile.
Carola aveva mosso il volto per posarlo sul suo. Leonardo non poteva essere sicuro se lo stesse studiando, o anche solo guardando. Aveva incontrato infinite persone strane nella sua vita, aveva vissuto situazioni al limite dell'assurdo, aveva attraversato il tempo e visto luoghi che non appartenevano a quel mondo - non solo geograficamente. Aveva parlato con se stesso, con gli spiriti anche, ma non aveva mai visto un morto ancora in vita. La fanciulla non emise neanche un commento, volgendo gli occhi allo sconosciuto, abbassò il viso fino al vaso, sfiorandone appena il bordo. Spostò la mano sul petto dell'uomo, aprì la mano, posandola sulla stretta cassa, poi mosse il capo in un cenno di diniego, socchiudendo gli occhi, per un attimo sembrò assumere una qualche espressione. "La prego, devo parlare con Eliseo! Mio fratello Silvano è scomparso" aveva supplicato il ragazzo, mostrando il vaso, ma Carola lo aveva già abbandonato, invitando loro ad entrare. Lo sconosciuto aveva provato ad entrare, Leonardo aveva pensato di fermarlo, ma Carola lo aveva già colpito ad una spalla con una lama, lesta alla medesima maniera l'aveva estratta, prima di far cenno a Leonardo di aiutarsi a chiudersi la porta alle spalle, lasciando l'uomo dall'altro lato, con le mani strette attorno alla ferita, con i cocci della ceramica sparsi sulla strada.
Carola fece cenno di seguirli, stretti davanti una scala stretta, alcuni voci sommesse venivano, ma la donna aveva scoccato appena uno sguardo alla scala. "Ma non parla?" aveva domandato Sandro, con le sopraciglia crucciate, confuso, "A quanto pare" aveva risposto lui asettico, mentre la ragazza apriva una porticina chiuso a chiave, che gli aveva condotti in una stanza piuttosto piccola, dove in tre sembrava difficoltoso muoversi, una finestra aperta dava su un cortile interno, unica fonte di luce nella stanza. C'era solamente una sedia, vicino ad un cavalletto su cui era tirata una tela, su cui era stato solo in parte disegnato con un'articolata costruzione un volatile, un corvo. Ed uno scrittoio, coperto di carte e pergamene. Solo l'ala sinistra era stata appena accennata con tinte di nero, differenti. L'uccellaccio del malaugurio sembrava il tema preferito dei dipinti, visto che compariva nella maggior parte dei quadri che adornavano le pareti, uno però sopra la finestra svettava in più, la raffigurazione di una caotica torre la cui vetta scompariva nella nebbia. "Babele" bisbigliò Leonardo, curioso da quella singolare anomalia; Sandro invece aveva raggiunto il quadro sul cavalletto, per osservare il quadro, "Una buona tecnica" aveva constato, "Senza impegnarsi negli sfondi, dipingere diventa per tutti" aveva aggiunto, appena un po' piccato. Per Sandro l'arte era vita. Carola non sembrava curarsene, tra le varie tele, carte e pergamene cercava qualcosa. "Non capisco poi perché disegnare gli uccelli" aggiunse Sandro, "I corvi poi" disse, confuso, ma anche colpiti. Carola si volse verso di lui, abbozzando la piccola bocca un sorriso, porse al ragazzo dei pennelli, gentile. "Vuoi che io mi distragga mentre voi ... parlate?" aveva chiesto vagamente gentile, così in abituale per il giovane artista, Carola comunque non aveva lasciato trasparire le sue intenzione, rivolgendosi a Leonardo.
Aveva pizzicato l'artista per una spalla, mentre lo conduceva fuori dallo studiolo, lungo un corridoio stretto, senza luce, che conduceva al cortile interno, non era un giardino, aveva erbacce e fiori selvatici, l'unico albero era un grosso melo spoglio, per l'inverno. La finestrella dello studio era aperto, un perplesso Sandro organizzava i suoi schizzi della donna misteriosa, provando a colorarla. Aveva smontato la tela di Carola, sistemandocene una pulita. Leonardo era quasi ammirato dalla sua mancanza di interesse per il mondo circostante, Sandro era assorto nello studio da essersi dimenticato di tutto il resto.
 
 "Perchè Babele?" chiese alla fine l'artista alla fine, senza smettere di osservare Botticelli nel suo mondo. Non si era aspettato una qualsiasi risposta, aveva capito della madonna non fosse affatto un'amante delle chincaglierie.  Carola s'era allontanata, vicino al melo arido per l'inverno, con i capelli scuri ed il viso polveroso sembrava la dea Melione3, gli occhi spenti e le labbra sottili. Mirava una finestra ai piani superiori ben chiusa, "Lì si trova Eliseo Vitalevi?" aveva questionato. La fanciulla aveva questa volta annuito, prima d'abbracciare il tronco dell'albero, per nascondersi alle spalle. "Ti beffi di me?" aveva commentato seriamente stupito Leonardo - e non poi così urtato. S'era recato in quella casupola alla ricerca di Eliseo Vitalevi, guidati dai sapienti fili della Madonna di Montefeltro - a suo volta probabilmente marionetta del Turco - invece s'era ritrovato prigioniero dei ludi di Carola, una donna senza voce. Leonardo aveva fantastico da infante, di giocare ad inseguirsi con una deliziosa e ridente ninfetta, un po' come tutti i bambini. Quando  l'età fanciullesca era venuta a mancare, l'occasione di dedicarsi a quel ludo s'era fatto ben più che un fantasticare. Firenze aveva offerto molto di più a Leonardo della casa di suo padre, ma Carola sembrava più spettrale.
Lo guardò con gli occhi vacui, appena, con il viso torso, dandoli la schiena. Prima di ruotare su se stessa, nascondendosi sempre dietro il melo.
Aveva abbracciato l'albero, osservandolo con gli occhi scuri, spenti. E Leonardo non aveva capito cosa fosse successo, perchè s'era ritrovato ad osservare una più giovane e disperata Aclima Lysimacus, aggrappata con le unghia al tronco di un rovere, dalle foglie verdi. Il corpetto era semi smesso, un labro aperto e sanguinate, uno dei due occhi da silvano, era gonfio e macchiato di viola. Più pelle di quanto una nobil madonna avrebbe dovuto mostrare, coperta di sangue, terra e disperazione. Urlava e piangeva, le unghia rotte e scavate.
Non era più nel giardino malmesso di casa Vitalevi, ma in un parco piuttosto grande.
 
Leonardo s'era voltato, alla ricerca di ciò che gli occhi colmi di lacrime di Aclima stavano guardando. Non aveva più trovato il grande parco, ne il piccolo giardino. Era all'interno della cripta, il ragazzino con cui aveva parlato una volta, in un sogno, era seduto sul marmo bianco del sacrario, i palmi delle mani erano segnati dai tatuaggi di fiori. "Vorrei poterla aiutare" sussurrò piano il ragazzino, "Ho scelto questo momento per cavalcare il tempo apposta" aggiunse. "Chi sei tu? Chi è lei?" chiese alla fine Leonardo, confuso. Aveva le sue ipotesi, il ragazzino sollevò lo sguardo, per un attimo il viso infantile, s'era fatto più virile e maturo, per un solo attimo.
Il viso che s'era ritrovato però a fissare era quello di Carola, sopra il suo, ad offuscare un sole pallido di gennaio. Era steso sull'erba selvatica del cortile interno di Eliseo Vitalevi, i capelli lunghi della muta sfioravano il suo viso, lei era piegata su di lui. Leonardo si tirò a sedere, lanciando uno sguardo vago all'ambiente. Quella visione non aveva senso, si prospettava come una sorta di ... memorando? Come ad obbligarlo a ricordarsi le motivazioni che l'avevano spinto dall'abbandonare la sua bella Firenze per l'ostica Roma. Si tirò in piedi, notando la fanciulla non aver neanche accennato ad aiutarlo, "Ho l'impressione di non esserti simpatico" commentò, con il desiderio di lenire l'angoscia che l'aveva assalito. Carola aveva infilato le dita sottili nello scollo del vestito, estraendone i resti di un  foglio di pergamena ripiegata più volte su se stessa, che protese verso l'uomo. Leonardo aveva preso il messaggio con un due dita, quasi volesse studiarlo, l'immagine che ne era ritratta da un lato, ricordava il disegno di una torre alta. Carola arrotolò una manica del vestito scuro, mostrando l'avambraccio lucido, nella parte interna la pelle era stata scarnificata, formando una scritta nell'alfabeto ebraico e lo mostrò a Leonardo.
L'artista toccò la carne della ragazza, trovandola calda. S'era aspettato di averla trovata gelida come quella d'un morto. "Il mio ebraico è arrugginito, temo madonna" bisbigliò di primo acchito, ma l'altra non ne sembrava ne turbata, ne frettolosa. Nonostante Leonardo percepisse come uno spillo sulla pelle il suo fastidio. S'era sbagliato, confessò alla fine, Carola era più viva di quanto era apparsa all'inizio. "Col olham sepa ahat ve oto ha milhaim" lesse, raschiando nella sua memoria il suono di quella lingua, che aveva studiato per diletto da ragazzino, che nella sua missione gli era venuta sempre comodo.
Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole.
"La torre di Babele" aveva sussurrato lui, annuendo. Non ne era certo, non aveva mai avuto uno spregiudicato interesse religioso, ne nei testi sacri - non era in grado di ricordargli tutti. Ma era quasi certo che parole così incisive e semplici4 appartenessero ad un testo sacro, del vecchio testamento, di quelli che gli ebrei seguivano. E sembrava parlasse proprio della Torre di Babele, dove tutti gli uomini parlavano la medesima lingua. Forse Carola lo portava marchiato addosso, perchè non ne parlava alcuna o forse c'era dell'altro.
La donna ritrasse il braccio, facendole scendere la manica a coprire la scarnificazione.
Poi posò una mano sul ventre, la fece scivolare fino alla sua intimità, ripeté il gesto altre volte, poi si chinò, afferrando con una mano l'erba, alzò l'altra la cielo. Si risistemò guardando Leonardo, ebbe per un attimo l'idea che Carola stesse sorridendo. "Sei una figlia di Mitra?" chiese lui, la fanciulla chinò il capo, indicò ancora una volta il suo ventre, il gesto della discesa e poi il suo petto. "Tua madre?" chiese Leonardo, cercando di indicare che ventre, femminilità e seno, potessero rappresentare la maternità. Carola annuì, quella volta.
 Poi senza aspettare altro, si infilò nuovamente nella casa dalla stessa porta, che precedeva il corridoio stretto, che avevano imboccato per il cortile.
 
Ritrovandosi poi davanti la porta dello studiolo. Sandro era così assorto da non essersi curato il minimo di loro, sulla tela si evincevano, lì dove era stato il corvo, due studi di figura, una era un semplice abbozzo, linee che si intrecciavano, formando qualcosa di polimorfo, l'altra appariva una donna fin troppo fina, rispetto le madonne che venivano dipinte, con una voluminosa chioma riccia. Filippa realizzò.
Un uomo era sceso dalle scale, non molto vecchio, ma con una barba e capelli lunghi, sale e pepe, l'attaccatura dei capelli stempiati ed indosso abiti scuri con arabeschi d'orati sul fondo, di stoffe finn troppo pregiate. "Carola, bambina mia dove eri?" chiese l'uomo gentile, accarezzando il viso della ragazza, quella non cambiò minimamente il suo viso, per nulla curata da quelle dolci parole. "Volevo parlare con tuo marito, ma Eliseo ha rivelato che oggi fosse curato solo d'una persona" aveva commentato l'uomo, alche  Carola aveva annuito appena, prima di posargli delicatamente la mano sotto il gomito dell'uomo per guidarlo con gentilezza verso l'uscio della porta.
Leonardo s'era seduto sulle scale in legno, erano strette, rovinate e la sua mente da ingegnere non faceva altro che portarlo a desiderare come doverle riaggiustare. Aprì il dono di Carola, non era altro che un foglio di pergamena su cui era stato scritto qualcosa, la grafia era la stessa del messaggio di Minosse che Giovanna gli aveva consegnato. Il messaggio era stato quanto mai una delusione, semplice volgare romano, in cui Eliseo Vitalevi si scovava di non poterlo ricevere fino alla settima ora dell'antimeridiano; lo invitava ad aspettarlo in una locanda.
Non era dunque lui l'ospite cui doveva curarsi?
Carola era tornata, aveva battuto due nocche sul legno dello stipite della porta, per attirare l'attenzione di Sandro. "Dobbiamo andare via, presumo" aveva constato Leonardo, fissando la donna, era minuta, ma non sembrava per questo una persona facile - o vagamente sottomettibile - giusto qualche ora, o forse meno, prima aveva pugnalato un uomo sull'uscio della propria casa perchè aveva provato ad entrare. Carola aveva annuito, lentamente, lanciando uno sguardo a Sandro, al suo quadro, stupita, confusa ed anche piuttosto interessata. Avanzò verso di lui, osservando il suo operato. Botticelli sorrideva soddisfatto di quello sguardo, consapevole della sua bravura, il viso di Filippa Demopulo era emerso nei segni di Sandro, non priva di tutta quella consapevole epicità. "Le piace?" aveva chiesto l'uomo, sorridendo con una certa allegrezza, desideroso che il suo narcisismo e piacere venisse fagocitato. Carola allungò una mano verso la tela, toccandola - ed inorridendo Sandro - senza curarsi di sporcarsi le dita o rovinare il disegno.
Aveva tolto la mano lesta, il viso in carboncino di Filippa era una macchia indistinta; indicò con sdegno la porta.
 
"Quella mi sembra pazza e toccata di cervello" si lagnò Botticelli, piantonato al suo fianco, con le mani intrecciate al petto, un espressione boriosa sul viso. E' coinvolta con i figli Mitra, ma Leonardo si tenne il commentò per se. "Ora che facciamo?" indagò Sandro quindi, con il capo rivolto verso di lui, Leonardo l'aveva guardato, crucciando le sopracciglia, "Io ho da fare" aveva commentato, mostrando il biglietto che aveva tra le dita, "Tu torna pure da Zoro e Lorenzo" aveva aggiunto, più per il bene di Sandro che per il proprio. Non tollerava decisamente la presenza dell'altro, era vero, ma decisamente era meglio per Botticelli tenere il naso lontano dalle questioni misteriche. "Non pensarci, Da Vinci" disse secco l'altro, con un tono piccato, "Devo assicurarmi tu non abbia la brillante idea di farti ammazzare" aveva aggiunto, "Da che ti conosco hai rischiato di raggiungere il creatore, più volte di qualsiasi altro cristiano" terminò. Leonardo mosse il capo sconsolato.
Per trovare la locanda, non aveva dovuto fermare tutti i passanti per la strada, ne dovuto pagare un testone alla donna che il suo più caro amico aveva lasciato impalmata ma non sposata. Era stato piuttosto facile ritrovare il posto.
S'erano accomodati su una delle lunghe panche, che sostava davanti ad una lunga tavolata. Ne erano poche, tre in croce. A quell'ora del giorno, quasi nessuno era all'interno della locanda. Un vecchio che dormiva sotto una finestra, un giovane nervoso che contava sassi di colori variegati ed una donna. E Leonardo aveva trovato in quella figura la più interessante da studiare. Senza aggiungere fosse la più gradevole. Non era molto alta, aveva seni rotondi e fianchi ampi, un sorriso malizioso ben evidente sul volto giovanile. E beveva come un uomo - capacità che l'avrebbe resa ancora più intrigante agli occhi di Leonardo, se non fosse stato già preso abbastanza da due persone.
Sandro, che gli era mollemente seduto di fianco, non sembrava dello stesso avviso, anziché alla donna lo sguardo meravigliato era diretto solo ed esclusivamente ai fogli di carta che aveva sparpagliato per tutto il tavolo, desideroso di una qualche pesca miracolosa. Sulla carta ingiallita c'era dipinto schizzi in grigio o in nero d'una donna, tal volta dal corpo bitorzoluto, senza viso ed altre volte snella, con una criniera leonina. In alcuni scarabocchi la donna aveva viso, alternava espressioni anguste con altre più dolci.
Leonardo aveva alla fine stabilito che come nella casa di Vitalevi, tutti i disegni raffigurarselo la figura di Filippa Demopulo. Aveva faticato non poco; la Filippa di Sandro sembrava una sorta di mitologica creatura, quasi una chimera, qualcosa che s'alternava da fiera bestia e leggiadra fanciulla, senza mai perdere dal viso un'area ferina, da guerriera. La Filippa  che lui aveva conosciuto, aveva si il volto da felina, ma anziché pantera, sarebbe stato meglio vederla di gatta. Chiusa su se stessa, spaventata, con il pelo irto e gli artigli da fuori, cosciente potesse lasciare un graffio e non molto altro.
"Dunque sei infatuato?" aveva domandato Leonardo, Botticelli non l'aveva degnato di sollevare neanche lo sguardo, limitandosi a ringhiare. Decise di prenderlo come un si. Ne aveva tutte le caratteristiche. Assottigliò lo sguardo, rendendosi conto di non aver mai visto Sandro, in tutti quegli altri, preso da qualcuno che non fosse Simonetta - e ne era certo per quella donna lì, era un amore platonico. Nessuno che non fosse abbastanza ricco era all'altezza di Simonetta. Leonardo non era mai stato abituato ai rifiuti, ma Simonetta Vespucci non riteneva il talento o l'intelligenza qualità importanti in un uomo. Dopo aver conosciuto anche suo cugino, poteva ben comprendere che l'avidità doveva essere un vizio di famiglia.
Pensare a Simonetta gli era sembrato strano. Non lo faceva spesso, la donna nella sua vita non aveva significato nulla di più di un no lungo il percorso della sua vita. E la dolorosa consapevolezza della sua nascita. Simonetta lo trovava bello, brillante, ma non aveva tempo da perdere con un folle spiantato, cercava un uomo ricco, che la sposasse, che le regalasse un posto in quel mondo d'orato che tanto anelava. Era abbastanza bella da potercela fare e Firenze - che non guardava i titoli - era la città giusta. "Devo farlo prima di invecchiare. Prima di diventare brutta"  gli aveva detto una volta, dopo essersi trovata vittima dell'interesse dell'uomo giusto. Simonetta non era mai invecchiata, non era mai stata brutta, ma non aveva mai avuto la vita che sperava. Era morta giovane, ancora bella e l'uomo che l'amava ne aveva trovato un'altra ed un'altra ancora, finché non era morto in una chiesa ed una ragazzina - che per ironia voleva farsi suora - s'era ritrovata un bastardo in pancia. Il figlio maschio di Firenze. Simonetta e Vanessa s'erano conosciute un giorno, un inverno lontano, bionde entrambe e null'altro in comune. La prima aveva anelato una vita, che la seconda non era mai stata sfiorata di poter avere e ...
Vanessa aveva la vita di Simonetta.
 
"Perchè siamo qui?" aveva domandato Sandro. Perchè Carola ci ha spedito qui, avrebbe dovuto rispondere, ma si limito a ignorare le parole di Botticelli ed osservare la donna dai fianchi larghi che beveva della birra. Carola gli aveva spediti in una bettola del ghetto ebraico, non lontano dalla porta che riconduceva alla cristianissima Roma. Un posto lugubre e nauseante, lì Eliseo Vitalevi lo avrebbe incontrato. Sandro era un effetto collaterale, lui non voleva lasciarlo e contemporaneamente non poteva lasciarlo andare in giro per Roma, rischiando di attirare le attenzioni di qualche signorotto che avrebbe potuto risalire a lui - e far sapere al papà di essersi volontariamente infilato nella tana dei leoni. Però era riuscito ad ammansirlo per bene, senza il suo impegno con Madonna Aclima Lysimacus, Botticelli non aveva altro tramite per raggiungere la donna greca che occupava i suoi disegni.
La donna, quella vera, nella locanda, gli aveva guardati appena, era piuttosto giovane, con le guance rosa e gli occhi verdi, aveva sorriso balba, inclinando il capo. Interessata. Leonardo ricambiò il sorriso, quasi per cortesia. Era una bella ragazza, ma non era interessato a lei in quel senso, quasi in una maniera più analitica. Non avrebbe potuto desiderare altro con Lorenzo nudo nel suo letto, che l'avrebbe sicuramente aspettato furente. E con Lucrezia prigioniera in qualche luogo, che lui aveva deliberatamente lasciato a marcire. L'aveva detto, no, il vecchio? Il tempo delle titubanze era cessato.
"Ho un certo interesse per gli artisti" la femmina, s'era accomodata di fronte loro, lasciando genuinamente presa, sguardi alle opere inconcluse di Sandro. "Sfortunatamente qui hai solo due perdigiorno" aveva detto secco l'altro senza degnarla di uno sguardo. Lei non diede segno d'essersi offesa in alcuna maniera, "Fiorentini" aveva trillato allegra, riconoscendo i loro accenti, "Non avevo compreso foste già in buona compagnia" aveva detto allusiva, "Non ostentatelo, qui a Roma la sodomia è punibile" aveva bisbigliato, con una certa apprensiva.
 Allora Sandro aveva sollevato gli occhi dai fogli, "Piuttosto che con lui, preferire farmi evirare" disse secco ed anche un po' indignato - Leonardo valutava dovesse essere lui a doversi indignare, ma lasciò correre. Discorrere con Sandro era inutile oltre ogni misura.
La ragazza rise, chiudendosi le labbra dietro le dita sottili, divertita, "Perchè mai? E' così un bell'uomo" disse sfacciata, continuandola coprire il riso con la mano, "Tutte le donne dovrebbero essere sfrontate come voi. Il mondo sarebbe un posto più divertente" disse Leonardo, mentre Sandro alzava gli occhi al cielo, "Perchè a Firenze non lo sono?" aveva indagato la donna.
 
La donna si chiamava Angelica, anche se di tale qualità non aveva neanche l'aspetto, era meno giovane di quanto sembrasse ed era una donna che non temeva nulla. Ed era più o meno una reietta sociale, nata cristiana e vedova d'un uomo ebreo, malvista dunque da nessuna delle due partiti. "Quindi conosci bene la zona?" aveva inquisito Leonardo, alche Angelica aveva annuito, continuando ad osservare i disegni di Sandro, "Che sai dirmi di Eliseo Vitalevi?" aveva domandato a bruciapelo, al nome la donna aveva sollevato il capo stupita, "In comune abbiamo il fatto, che per la gente, adoriamo il demonio" aveva risposto sincera, con un sorriso ironico, "Solo che nel suo caso, sembra quasi vero" aveva aggiunto, prima di dilettarsi nel racconto delle sue spaventose doti oracolari. "Ciarlatano" aveva sputato fuori Sandro sentenzioso, affatto convinto di quelle storie. Leonardo ci vedeva un figlio di Mitra, che sfruttava le sue capacità per arricchirsi - se non fosse stato che a detta di Angelica, Eliseo non volesse monete. "Altrimenti starebbe già bruciando su rogo" aveva notato intelligentemente Botticelli, ma Angelica lo aveva deriso, "Neanche una settimana fa, il nipote di sua santità era da lui" aveva spiegato.
Aveva sgranato gli occhi e s'era morsa la lingua. Aveva detto qualcosa che sarebbe stato meglio tenere per se, "Potrei anche essermi sbagliata" aveva detto fredda, con le labbra tremolanti. "Nessuno ti ucciderà per averlo scoperto" la tranquillizzò Leonardo, ipotizzando fosse quello ad aver creato tutto quel panico. Angelica era rimasta pallida in viso, "Qualcuno lo dica a Francesco" aveva confessato, burbera, ed anche leggermente collerica. "Francesco?" aveva domandato Leonardo, avvicinandosi, curioso. La donna s'era allontanata appena titubante, "Un fiorentino, come voi" aveva bisbigliato facendo saettare lo sguardo da Leonardo a Sandro, "E' stato a Roma per qualche tempo, io gli ho offerto un letto " - con lei dentro, probabilmente, pensò l'artista - "Lui aveva del lavoro da sbrigare per il suo signore, che riguardava giusto il Conte Riario" aveva detto d'un fiato, "Un giorno a scoperto la serva del signore andare da Eliseo" aveva spiegato tutta presa ed animata, "Dopo tre giorni è andato anche il Conte. Francesco gli ha seguiti, il nipote del papa e la serva, dico" aveva preso un respiro, "E dopo che quelli hanno lasciato la casa dell'usuraio, di Francesco non se ne è saputo più nulla" commentò Angelica.
Bene: un fiorentino, che lavorava per un signore contro Riario, il conte ed Eliseo. Che assurda torsione degli eventi. "Non ti è passato per la mente fosse semplicemente stato ucciso perchè pedinava l'uomo più folle d'Italia?" domandò retorico Sandro, vomitando veleno e sarcasmo. Angelica sbuffò, "Mi riguarderei lo stesso, da Eliseo Vitalevi" aveva detto poi, indispettita, lasciando cadere per terra i disegni di Sandro, "C'è un macellaio fuori la porta" aveva commentato la donna, mentre osserva divertita il giovane chinarsi per raccogliere i suoi disegni, furente in viso, "Aveva due apprendisti, ma il Conte Riario se gli è presi entrambi" confessò alla fine, mentre Sandro risistemava i fogli sul tavolo; Leonardo alzò un sopraciglio.
Perchè continuasse la storia Angelica avevano dovuto offrirle altra birra – era comunque meno cara di Elisabetta. "Ma non aveva paura di essere uccisa?" aveva chiesto nervoso Sandro, "E cosa centra questo con noi?" aveva ringhiato poi, "Con te: nulla" aveva risposto schietto Leonardo, ma con lui: tutto.
 Sandro aveva avuto una specie di attacco d'isteria - lui sospettava da molto che non fosse un male solamente femminile - in cui aveva fatto ribaltare anche la sedia, prima di andarsene dalla locanda indiavolato. Leonardo avrebbe dovuto inseguirlo, era la cosa giusta, ma Angelica poteva dissetare di poco, la sua sete di conoscenza.
Era certo poi Sandro non si sarebbe allontanato di molto.
"Dunque?" esordì l'ingegnere, "Dunque" riprese la donna, "Non so chi dei due cercasse, ma sarei propensa per il grecolo" aveva detto, assaporando la birra, macchiandosi le labbra di schiuma, "Dracone è - o forse meglio dire era - una persona losca e Silvano fin troppo candida" aveva commentato. "Losca come?" aveva indagato Leonardo. Angelica aveva sollevato le spalle, prima di rivelare non avesse molte prove per avvalorare la sua tesi, solo sospetti e sensazioni. "Aveva un amante della casta alta" aveva detto la donna, "Non è così losco" aveva risposto lui, se si considerava la Donati in quel modo, anche lui doveva risultare in quella maniera, no? "Si lo so, ma incontrava anche gente sempre vestita di nero, una volta l'ho sentito parlare anche di cose blasfeme - blasfeme per me intendo! Che per altri sarebbero stati da bolgia infernale" aveva detto la fanciulla tutta d'un fiato.
No, a Leonardo di tutta quella facendo non interessava nulla.
"Poi ... Eliseo e Dracone litigavano spesso" commentò Angelica, "Quando erano insieme parevano rievocare Guelfi e Ghibellini"  sembrava orribilmente seria, "Solo  che al posto del Papa e dell'Imperatore, parlavano di Mitra e Minosse" disse.
Angelica aveva continuato a parlare quasi per se stessa, Leonardo aveva smesso di prestarle attenzione da un po’.  Angelica aveva rivelato proprio dopo che il Conte aveva portato via Dracone qualche giorno dopo essere stato da Eliseo, proprio dopo l'ultimo scontro verbale dai due. "Chi era per Minosse?" l'aveva interrotta Leonardo. Pensando al messaggio che aveva trovato Giovanna di Montefeltro, con la volpe in cera lacca, che parlava di Minosse e l'aveva portato proprio a suonare alla porta di Eliseo. Angelica ci aveva pensato su un attimo, "Dracone, mi pare" aveva rivelato turbata. Era un nemico dell'uomo! Chiaro! Sembrava ovvio! Minosse che aveva fatto costruire il labirinto per il Minotauro, sconfitto da Teseo! Minosse Re di Cnosso! Certo!
Anche Angelica sembrava aver avuto una propria illuminazione perchè continuava a cercare tra le pagine abbandonate di Sandro qualcosa. Presa una, aveva sgranato gli occhi, spaventata, "Tu sei …" aveva chiesto, schiudendo le labbra, Leonardo le aveva strappato il foglie dalle mani, senza grazia, osservando nella carta il viso più o meno definito di Filippa Demopulo. "Lei cosa ...?" aveva chiesto confuso, "Filippa! La sorella di Dracone!" disse Angelica, come se parlasse di qualcosa di ovvio. Si rese conto dall'espressione che Leonardo - era certo d'aver fatto - che non doveva esserlo così tanto.
 La fanciulla si chiuse le dita sulla bocca, prima di scappare spaventata.
"Una donna assai bizzarra, vero?" aveva chiesto una voce alle sue spalle. Leonardo si voltò, trovando un uomo, che nonostante l’aspetto particolare, l’incarnato bronzeo, i capelli ramati lisci ed una rada barba, sembrava essere il tipo d’uomo da passare inosservato.  Non anonimo o qualsiasi, solo lesto.
"Eliseo Vitalevi?" osò, "Si, puoi chiamarmi anche Visionario, Leonardo" aveva detto quello con un bel sorriso. C'era qualcosa di terribilmente famigliare in lui, che quasi infastidiva l'artista perchè non riusciva a coglierne il senso.
 
Eliseo s'era seduto al posto che era stato di Sandro, lanciando appena uno sguardo ad Angelica, che lontana riservava occhiate cagnesche. "Perdona il ritardo" disse realmente pentito, "Ma ho dovuto dire ad una persona che sarebbe morta" aveva il tono d'un uomo stanco ed amareggiato, occhi bassi e delusi. "Non ha potuto evitarglielo?" chiese Leonardo, rendendosi conto che interrogarsi su altro sarebbe stato quasi inutile, i figli di Mitra rispondevano solo alle domande che volevo loro, anzi a volte rispondevano a domande che nessuno aveva posto e deliberatamente ignoravano le altre. "Non tutti gli uomini sanno drenare i fiumi, Leonardo" aveva risposto semplicemente, "Alcuni possono solo immaginare come potrebbe essere" il suo tono era malinconico, profondamente infelice di quella mancanza.
"Quindi morirà?" si ritrovò a chiedere Leonardo, stranamente affine a quella povera anima, Eliseo tacque per qualche minuto, "Forse" ammise, "Il fatto di aver saputo della sua morte potrebbe cambiare il destino" si permise di sorridere dopo quella frase.
Un sorriso non del tutto sincero, in un tono carico di un mancato auto convincimento. Qualcuno sarebbe morto. "Se dovesse morire, il destino riprenderebbe un percorso che era stato già cambiato, però" confessò con un tono lugubre Eliseo; "Ma non é per parlare di questo che ci siamo incontrati, mio buon amico" disse l'ebreo, "Non principalmente, almeno" confessò.
 
 
 
Angelica sbuffò, mentre svuotava il pitale fuori dalla finestra, senza preoccuparsi dei malaugurati di sotto. Schioccò il collo, era tutta indolenzita. Commessa quell'azione abituale, si era diretta verso quella vecchia - e malandata - accozzaglia di coperte mangiate da tarli e fiero che faceva passare per giaciglio notturno. Neanche una settimana prima aveva Francesco almeno a rallegrare l'ambiente tetro di quella stanzuola. Un fiorentino ameno, anche un po' sciocco, ma indubbiamente fedele, oltre questo era anche un gran amatore sotto le coperte. Angelica non si era di certo invaghita, neanche per un singolo istante, ma aveva trovato nella sua compagnia una qualche leggerezza, da lasciarla in quel momento preda d'un certo fastidio, come di un vuoto. La  mancanza il suo più alto crimine. Perfino del suo insulso marito Angelica aveva provato un senso di nostalgia; aveva dovuto sposare un giudeo - con l'unica cosa più grossa del suo naso, la tirchieria - per dovere. E vederlo morire corrose dalla sua lenta tortura era stato quasi un piacere. Però scoperti gli specchi, sepolta la salma, la parte del letto che era appartenuta allungo all'uomo che aveva disprezzato s'era fatta fredda. Dracone non si era risparmiata parole di biasimo, canzonandola di quella sue debole indole, mentre con le mani rude segava ossa e carni. Angelica voleva bene anche quel superbo grecolo miscredente e l'idea che presto sarebbe morto la rattristava un poco. Ma così doveva essere, non stava purtroppo a lei decidere.
Afferrò le coperte del letto, per tirarle fin sopra il cuscino, quando un rumore alle sue spalle, la fece sobbalzare. Sciocca! Stupida! Non aveva armi a sua disposizione, se non la candela che ardeva tenue accanto al comodino.
Un piccolo fuocherello imprevisto era comunque più pericoloso d'un pugno d'una giovinetta, si convinse. Repentina come una gatta afferrò la candela, agitandola contro un'ombra alle sue spalle. La fiamma aveva lasciato nel buio, una scia appena di luce, una figura dalla barba scura e crespa appena. "Oh!" la voce di Angelica fu quasi un sussurro, nonostante le labbra spalancate, una mano ferma, le bloccò il polso, senza violenza - o eccessiva forza. "Non dovresti essere qui" disse colpita, osservando alla luce tenue della fiamma tremolante il viso d'un uomo straniero, che affondo conosceva. "Non sei contenta di rivedermi Musicante?" aveva domandato quello con un tono di scerno, le labbra carnose coperte dalla peluria crespa si incrinarono in un sorriso irrisorio, "Non era te che aspettavo, beduino" riuscì a dire lei, infiammata, tirando di forza via la mano dalla presa.
"Aspettavi me?" chiese qualcun altro, Angelica spaventata mosse la fiamma contro la voce, vicino alla finestra semi aperta, nero come un tizzone consumato dal fuoco, il Mago se ne stava appollaiato, sotto una lunga manta scura e pesante, "Ti sei lasciata cogliere di sorpresa?" la denigrò il beduino, "Carlo" disse lamentosa lei, ammiccando al Mago ed ignorando l'altro, "Ti aspettavo" aveva aggiunto.
La Storica - sua rispettabile, quanto enigmatica consorella- le aveva scritto dal suo collegio monastico qualche tempo prima rivelandole dei piani che il Sacerdote aveva in serbo per lei. Angelica era stata colta da quella lettera con un certo brivido, era passato quasi un lustro dall'ultima volta che avesse avuto contatti diretti con i suoi confratelli - se non si considerava Dracone ovviamente, aveva ricevuto l'ordine da il Re di sposare un tirchio uomo ebreo, ucciderlo ed impadronirsi della sua eredità. Cosa che non era risultata difficile. Da allora aveva ricevuto saltuarie lettere da lo Stratega, che l'aveva impegnata in un attenta osservazione di Eliseo, senza esporsi troppo.
 E dopo un lustro, la Storica che Angelica ricordava una donna pallida fatta di latte, dall'età indefinita e più granitica della pietra stessa, le aveva commissionato nuovi ordini, prima di tornare alle sue originali mansioni: cantare. Accogliere il Mago ed aiutarlo in tre semplici ordini, uno dei quali era stato già avviato, quel giorno stesso. Ma del Cantore non ne era stata fatta alcun accenno, eppure era lì, quell'infedele bastardo, davanti i suoi occhi.
Non vedeva al-Mustamsik da meno di cinque anni, questo si, ma sembravano stramente di più.
"Vuoi davvero ignorarmi?" aveva domandato il Cantore, offeso, senza però smettere di sorridere, "Abbiamo una missione da svolgere!" ringhiò Angelica, lanciandogli nulla più che becere occhiate di fuoco, prima di tornare a concentrarsi sull'altro uomo. Avevano tanto da lavorare, uccidere due uomini e corrodere un anima. Qualcosa che richiedeva tempo. Ed anche Al aveva qualcosa a cui dedicarsi, di sicuro non poteva lasciarsi distrarre da lei. Così, come Angelica non poteva da lui. E lo odiava! Forte come un fuoco che divampava in un petto! "Anche io" strillò il Cantore, "Ma per vederti ho ignorato gli ordini del Sacerdote e lasciato Hans" disse perentorio lui, guardandola con gli occhi verdi.
Alla luce rossastra della fiamma sembravano più spaventosi di quanto fossero, ma anche più belli. "Se avessi voluto vedermi Mustamsik, saresti rimasto allora" disse piano, ferita. Al rise, di lei, con veemenza e crudeltà, come solo lui sapeva fare, continuando a tenere sul viso un sorriso deforme, "Mi ricordavo una temibile compagna, non una ragazzina" la canzonò, ricevendo un colpo in pieno petto. Ignorò la bile, così come lo sguardo di Al, lo conosceva quel figlio di puttana, da sapere non fosse serio in quel momento.
"Dobbiamo uccidere un uomo" disse secca, guardando Carlo De Medici con occhi di ferro, "Vitalevi, no?" disse Carlo, con un sorriso di perle, in contrasto con la pelle scura, troppo lontano dalla luce sembrava un ombra proiettata su un muro, "No. Lui verrà dopo" disse secca, lanciando uno sguardo di monito ad Al, "Oltre me solo il Sacerdote, la Storica ed il Re ne sono a conoscenza" aveva ribadito, lanciò uno sguardo a Carlo. "Quattro persone sono decisamente troppe per un segreto, figurarsi cinque o sei" aveva fatto notare il Cantore, "Infatti" rispose secca lei, "Non parlerai finchè sarò qui?" indagò il beduino lo stesso, lei annuì. 
Carlo guardò Al, per un tempo che sembrò interminabile; il nero annui e l'altro sorrise. Angelica sollevò gli occhi al cielo, "Dobbiamo essere svelti" si lamentò, ma le sue parole erano come suonare al muro, inarrivabili. "Filistei" si lamentò, "Parlerete domani" la rassicurò Mustamsik, prima di leccarsi le dita e spegnere con essa il fuoco della candela. , Angelica s'allontanò frettolosa, "No!" disse graffiante, afferrando il bastardo fiorentino per la spalla, con la presa d'un rapace, "Parlerò con Carlo prima" disse perentoria. Non riusciva a vedere Mustamisk nell'oscurità, sperava ci fosse delusione nel suo volto, la stessa che aveva avuto lei, quella notte, che le aveva chiesto di scappare assieme, di lasciare le sette e la conoscenza ad altri e di vivere come folli, ma liberi dovunque volessero. Al aveva scelto i Nemici dell'Uomo a lei quella volta, toccava ad Angelica ricambiare. "A dopo malika2" le disse lui, avvicinandosi cauto, depositandole un bacio sulle labbra. Troppi anni erano passati. Troppi per non cedere in quel momento. Provava, la Musicante per gli uomini solo nostalgia perché non poteva che ricordarsi d'amare uno ed un solo uomo.
"Desiderava ardentemente rivederti" aveva detto Carlo accomodandosi vicino lo scrittoio, mentre Angelica accendeva di nuovo il cero, illuminando fiocamente la stanza, "Ed io lui" rispose lei monocorde, dicendo comunque il vero. Sapere che Al era stato nella sua stanza le faceva tremare le gambe, come una qualsiasi fanciulletta scialba, lei che era una Nemica. "Lo Spettro è morto, credo" confidò lei immediatamente. Carlo sollevò un sopracciglio, "Sapevo fosse diretto in una missione di spionaggio" aggiunse con un tono scialbo, non interessata realmente. Non lo conosceva lo Spettro, non l'aveva mai visto, ma Dracone aveva rivelato fosse sacrificabile. Era stato mandato a spiare un incontro in un incontro mitridatico, ma non era mai tornato. Carlo non sembrò turbato in alcuna maniera dalla notizia, che gli scivolò addosso come acqua, "Avrebbero dovuto mandare te" commentò, facendo ticchettare la mano sul legno del tavolo, Angelica sorrise orgogliosa. "Sembra che il mio ruolo sia tristemente cambiato" ammise, senza reale tristezza. "Era questo il grande segreto?" si ritenne poi in dovere di chiedere Carlo, ritrovandosi però privo d'una risposta a quella domanda.
"Oggi ho incontrato il tuo degno compaesano, l'altro bastardo" aveva detto allegra, lisciandosi la gonna con le mani,"Leonardo" il nome era stato sputato fuori da Carlo come la più pericolosa delle ingiurie."Lui ed Eliseo sono entrati in contatto" aveva detto con una certa allegrezza lei, spensieratezza che non condivideva con il suo interlocutore, "Per questo dovremmo ucciderlo" aveva ribattuto con cieca ovvietà Carlo.
Angelica arricciò le labbra appena, inclinò il capo, s'era privata dell'espressione divertita, indossandone una più consona alle sventure di cui si faceva proclama, "Sarà la prova della piccola Demopulo. Prima che uccida il Domatore, ucciderà - con il tuo aiuto - il Visionario" aveva chiarito immediatamente lei, "Meglio che legarla e torturarla con il sale" disse vagamente picca, sentendo ancora sulle cornee quella sensazione. Carlo sollevò un sopraciglio spesso, non riuscì a porsi interrogativi perchè Angelica aveva ripreso a parlare: "Il destino ci sorride, Carlo: perchè un innamorato dirà a Filippa che Eliseo Vitalevi ha portato alla morte de il Tebano" aveva bisbigliato raggiante. Così era stato ordinato dalla Storica, così era stato assunto da il Sacerdote, così doveva essere. "Nulla muove più della vendetta un uomo" aveva commentato tra se e se Carlo, senza sbilanciarsi in un chiaro giudizio. "Ma Dracone è ancora vivo. Prigioniero, si certo del Conte Riario - che è come essere morti" aveva aggiunto Carlo. Angelica aveva storto le labbra, "Lo ucciderai tu"  aveva rivelato con voce pacata.
Carlo aveva tradito i suoi compagni una volta, non era un uomo fedele; era adatto a quell'incarico.
 
 
 

 
x1 - Catalano >  (La) vita mia
x2 - arabo > Regina
x3 – Melione > Dea dei Fantasmi
x4- Il vecchio testamento è pieno di espressione abbastanza lineari, privi di artifici. Essendo scritti in latino, greco ed armaico, non era comunque accessibile a tutti.
   
 
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