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Autore: frown    02/05/2015    2 recensioni
Un ragazzo di venticinque anni incontra una ragazza di diciassette anni ad una mostra d'arte, per poi rincontrarla in una sala da tè e intrattenerci una conversazione.
(one-shot senza pretese, dateci un'occhiata)
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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UTOPIAUH

 
A far finta di niente, si finisce per far caso a tutto





Nell'ottobre dell'anno scorso, mi ritrovai a frequentare un corso di fotografia a Marsiglia.
Il mio tempo libero, lo trascorrevo facendo i cosiddetti “fatti miei”.
I fatti miei consistevano di solito, nei giorni sereni, in passeggiate panoramiche tra le bellezze della città o della campagna. Nei giorni di pioggia, me ne stavo seduto all'asciutto a leggermi un libro. 
Sabato, che era l'ultima giornata del corso, trascorse con la pioggia.
Ricordo che rimasi in piedi, a una finestra dell'aula che ci avevano assegnato, per moltissimo tempo, guardando la pioggia cadere tetra o obliqua. Alle mie spalle, sentivo i miei compagni di corso parlare dei souvenir comprati alle famiglie e che questo «porco» corso non aveva insegnato loro nulla.
A un tratto, senza avere in mente nulla in particolare, mi staccai dalla finestra e m'infilai l'impermeabile blu scuro, la sciarpa di cashmere e i guanti di lana.
Poi, dopo aver gettato un'occhiata all'orologio appeso contro la parete portante, mi avviai giù per la lunga strada di ciottoli bagnati che portava in città. 
Il centro città, era probabilmente la zona più fradicia di tutte, mi fermai davanti alla vetrina di un vecchio casermone.
Sulla vetrina, era appesa una bacheca grossa e di legno, su cui erano appiccicati o con lo scotch o con le puntine, dei fogli o dei post-it.
Su un foglio rosa era stampata con un carattere Times New Roman 18 l'avviso dell'imminente (odierna) mostra di dipinti di principianti.
Circa una dozzina di anziani era sparsa per la stanza, su cui alle pareti erano stati affissi dei dipinti.
Sedici.
La stanza era poco luminosa e le persone, non restavano a fermarsi a guardare ogni dipinto, ma piuttosto si fermava ad esaminare quelli che secondo loro erano i più meritevoli.
Percorsi tutte le pareti, ma su uno, davanti alla quale una ragazzina sui diciassette anni massimo era ferma, mi concentrai in particolare. 
Mi era sempre stato detto di possedere la bellezza selvaggia della natura, quella che ti schiaffeggia forte e ti resta nella mente, ma solo guardandola di sfuggita, mi accorgevo che possedeva una bellezza quasi animalesca. Tratti felini e zigomi aggressivi e regali allo stesso tempo: mi ricordava un gatto.
La ragazzina stava discutendo animatamente, masticando una chewing-gum e gesticolando come un'ossessa con affianco la presenza di uno di quegli anziani, più interessati al banchetto di chips, arachidi e tacos, aranciata e caffè allungato.
Il dipinto, rappresentava, vista dall'alto gli effetti della deforestazione per far spazio sempre di più alla città: metà dipinto raffigurava le architetture e le classiche strade, più o meno affollate, tipicamente urbane.
L'altra, deserta, raffigurava un grosso terreno spogliato di alberi, giallastro, e successivamente degli alberi abbattuti e i pochi rimasti.
Rimasi incantando dai dettagli fini e piccoli degli alberi, dalla prospettiva del grattacielo e dal traffico urbano preciso, come il terreno arido è deserto, spoglio, come se ci si potesse contare quanti granelli lo occupassero.
Distolsi l'attenzione dal dipinto quando mi accorsi che la ragazzina dai lunghissimi capelli biondi che aveva smesso di gesticolare animatamente mi stava fissando con intensità, mentre l'anziano ora aveva preso a parlare.
Non appena ricambiai lo sguardo, lei lo distolse. Così finì il tour per gli altri quadri, finché una grassa signora con indosso un tubino verde oliva e perlata sia al collo che alle braccia, attirò l'attenzione con una tosse stridula al microfono per poi iniziare a parlare fastidiosamente della mostra.
Così decisi di andarmene e uscii.
Pioveva più forte di prima. Passai sul lato opposto della via e entrai in una sala da tè in cui non c'era anima viva, salvo una cameriera attempata, che, lo vidi subito, avrebbe preferito un cliente con l'impermeabile asciutto.
Mi servii dell'attaccapanni con tutta la delicatezza possibile, poi sedetti a un tavolino e ordinai un tè e un toast alla cannella.
Ero ancora alla mia prima tazza di tè quando la ragazzina che avevo osservato al casermone entrò nel locale.
Aveva i lunghi capelli biondi fradici, le guance rosse e gli occhi che saettavano da una parte all'altra del locale.
Con lei c'era un ragazzino, probabilmente della stessa età, con la sciarpa verde petrolio che arriva a coprirgli il naso.
Alla retroguardia, una ragazza di colore che indossava un giubbotto blu che lasciava il collo scoperto, da cui sbucava una collana di conchiglie. La ragazzina si liberò del cappello togliendoselo dalla testa con due dita, sollevandolo come se fosse un (bagnatissimo) campione di laboratorio.
Mentre attraversava la sala togliendosi il cappotto, scelse un tavolino: ottima scelta, a parer mio, perché era esattamente dritto davanti al mio.
La ragazzina e l'amica di colore e la collana di conchiglie si sedettero.
Il ragazzo, che aveva la faccia tipica degli idioti, ci mise due minuti di più e quando si sedette, inizio ad infastidire l'amica della ragazzina dandole delle continue gomitate per attirarne l'attenzione.
Mentre il loro tè veniva servito, la ragazzina mi sorprese con lo sguardo fisso sul loro gruppo. Mi restituì lo sguardo, con quei suoi occhi languidi e limpidi tipici delle attrici di teatro, poi tutti a un tratto, mi sorrise.
Un sorriso stretto e tiepido. Era curiosamente radioso, come poche volte capita che sia un sorriso stretto.
Sorrisi anche io, però, incapace di imitare quel suo sorriso radioso.
Un attimo dopo, la ragazzina era in piedi, con un invidiabile portamento, accanto al mio tavolo.
Indossava un vestito di stoffa scozzese, che le arrivava sopra alle ginocchia, sotto queste, arrivavano invece le lunghe calze di lana grigia, infilate in un paio di MaryJane nere laccate, di quelle che da piccoli, indossano i bambini.
Sopra al vestito, aveva gettato sulle spalle un maglione intrecciato di lana pesante, della stessa tonalità delle calze.
– Allora non è un banale cliché quello degli inglesi che bevono solo tè, – disse.
Le risposi che certe abitudini erano dure a morire e, poi, le chiesi se potevo permettermi di invitarla a sedersi al mio tavolo.
– Grazie, – disse lei. – Forse per un po'. 
Mi alzai e le offrì una sedia, quella di fronte alla mia, e sedette quasi sull'orlo, tenendosi dritta con un'elegantissima naturalezza. 
Io tornai (quasi correndo) sulla mia sedia, più che disposto a conversare con lei.
Ma una volta seduto, non trovai niente da dire. Così, finì per osservare che era proprio una giornataccia.
– Sì, infatti, – rispose lei, col tono di chi odia seguire i discorsi di circostanza. 
Le vidi al polso un orologio dall'aspetto militare. Il quadrante era troppo largo per il suo polso sottile.
– Lei era alla mostra d'arte del casermone, – disse in tono obiettivo. –L'ho vista. 
Dissi che infatti era così, e che anche io l'avevo vista. Le chiesi del dipinto su cui si era fermata a discutere con quell'uomo anziano.
Lei annuì. – Sì. L'ho fatto io. Da grande, voglio dipingere.
– Davvero? Campagne pubblicitarie o ritratti?
– Per carità, no. Voglio dipingere un altro tipo di arte. Bei quadri, magari, mostre d'arte. Poi a trent'anni, ho intenzione di ritirarmi, stabilirmi in un ranch nella brughiera scozzese, vicino ad Edimburgo e, iniziare ad insegnare quel che so –. Poi si toccò i capelli fradici sulla sommità della testa. – È mai stato in Scozia, lei?– domandò.
Dissi che l'avevo vista di sfuggita qualche volta, ma che non potevo dire di conoscerla. Le offrii un pezzo del mio toast. 
– No, grazie, – disse lei. – Mangio poco, ho lo stomaco di un uccellino, praticamente –. Addentai il toast e osservai che in Scozia c'erano posti parecchio primitivi.
– Lo so. Lo dicono tutti gli inglesi. Lei è il tredicesimo inglese che conosco. 
La sua amica di colore continuava a fare segnalazioni furtive affinché tornasse al loro tavolo.
Mi chiese se fossi uno di quei ragazzi che soggiornava a Marsiglia per quel corso di fotografia di cui parlavano tutti in città.
Vedendomi confuso e un po' spaesato, mi indicò la macchina fotografica che pendeva dalla tasca del mio cappotto appeso. 
Le dissi che ero un turista, affascinato dalla Provenza. 
– Davvero! – disse lei. – Non sono nata ieri, sa? 
Dissi che ci credevo senz'altro. Bevvi il mio tè per un momento, guardandola ritta come una ballerina classica. Così, mi vennero dubbi sul mio portamento e mi sorpresi a raddrizzare maldestramente la schiena e le spalle. 
– Lei mi sembra molto intelligente, per essere un inglese, – meditò la mia compagna. 
Arricciai le labbra e inarcai le sopracciglia, poi le dissi che la sua era un'osservazione molto snob, a rifletterci, e che speravo fosse indegna di lei.
Lei arrossì, improvvisamente imbarazzata.
– Sarà. Ho conosciuto un inglese, a Parigi, – raccontò prima di guardarmi concentrata, – Gliel'ho detto che io sono parigina?
Scossi la testa.
– Beh, io sono parigina. Ho conosciuto un inglese, una volta, che si divertiva a lanciare bottiglie di Jack Daniel's dentro alle finestre aperte degli appartamenti, con dei suoi compaesani. Ma le sembra una cosa intelligente?
Non mi sembrava affatto, le dissi. 
– Ecco, – disse la mia compagna senza convinzione. Si toccò di nuovo la testa con la mano e raccolse qualche ciocca afflosciata è bagnata. 
– Ho i capelli fradici, – disse. – Ho la testa che fa paura, – alzò gli occhi su di me. – Chiedo perdono, non devo essere un bello spettacolo.
Le risposi che era un bello spettacolo anche con i capelli bagnati e di star serena. Lei rise.
– È sposato, lei?
Dissi che ero fidanzato e che la mia fidanzata era in India per un corso di infermieristica.
Lei annuì. – È profondamente innamorato della sua fidanzata? O è una domanda troppo indiscreta?
Dissi che alla prima indiscrezione l'avrei interrotta. 
Ma non risposi comunque, lei non sembrò accorgersene, ma fu meglio così. Parlare della relazione disastrosa con Claire che sarebbe finita con il matrimonio, non mi eccitava.
Lei spinse le mani e i polsi più avanti sul tavolino, e ricordo che mi venne la tentazione di intervenire in qualche modo a proposito di quel suo enorme orologio; magari suggerendole di portarlo alla vita.
– Di solito, non sono eccessivamente estroversa, – disse e mi guardò per vedere se conoscevo il significato della parola. Ma io non mi lasciai sfuggire il minimo indizio, nè in un senso nè nell'altro. – Sono venuta al suo tavolo perché m'è sembrato che lei si sentisse estremamente solo. Lei ha una faccia estremamente emotiva. 
Dissi che aveva ragione, che mi ero sentito solo (da mesi) e che ero contento che fosse venuta al mio tavolo.
– Mi sto esercitando ad essere più socievole. Mia zia dice che sono una persona terribilmente fredda, – disse, e si toccò di nuovo la testa.
– Mia zia dice che lo sono perché sono anche un artista. Sarà una qualche deformazione professionale, no? – mi chiese conferma silenziosamente, come per dire «NOI artisti siamo freddi».
– Abito con mia zia. È una persona meravigliosamente buona. Dopo la morte dei miei genitori, ha fatto tutto quanto in suo potere per far sentire mio fratello ed io a nostro agio.
Annuì. – Mi fa piacere.
– Mia madre era una persona estremamente intelligente. Suonava il violino e parlava correttamente cinque lingue. Molto intrigante, sensuale per certi aspetti –. Mi guardò con una sorta di ingenua perspicacia. – Mi trova terribilmente fredda, lei?
Le dissi di no, assolutamente... Anzi, tutto il contrario: la trovavo molto intrigante e sensuale per certi aspetti.
Lei rise.
Le dissi il mio nome e le chiesi il suo.
Lei sospirò. – Il mio nome di battesimo è Dahlia. Dahlia Elodie Mondoire. 
Le dissi che era un gran bel nome, lei annuì sorridendo riconoscente.
Le chiesi se Elodie fosse il nome di sua nonna. 
– Oh sì, succede spesso in Inghilterra, no? È il nome di mia nonna paterna. – Sospirò – A volte sento moltissimo la mancanza di nostro padre. Somiglio più a lui, che a mia madre. Lei era una donna molto più passionale, era un'estroversa. Papà era introverso. 
Vedendola rattristarsi un poco, senza però voler darlo a vedere, cercai di smorzare l'atmosfera con una di quelle sciocche bazzecole che facevano irritare Claire.
– Che cosa dice un muro a un altro muro? – chiesi con una voce titubante. – È un indovinello!
Roteò gli occhi al soffitto l'aria di riflettere e ripeté ad alta voce la domanda. Poi mi guardò con espressione vinta e disse che ci rinunciava. 
– Ci vediamo all'angolo! – fu la risposta. Scoppiamo a ridere, a ridere più forte fu lei. 
Ebbi l'impressione che ridesse più per il nostro scambio di battute infantile e giocoso. Mi piacque.
– È uno dei più begli indovinelli che abbia mai sentito! – esclamò ancora ridendo. – Adesso la smetto, – disse. E smise di ridere. Mi dispiacque, aveva una gran bella risata.
– Dico questo indovinello a tutti quelli che incontro, in base alla loro reazione, capisco se siamo sulla stessa lunghezza d'onda. 
Lei annuì. – Un metodo originale. Per non-perditempo.
D'un tratto sentii una presenza alle mie spalle, mi girai quando mi accorsi che Dahlia aveva preso a guardare dietro di me.
Mi ritrovai difronte alla amica di colore della mia compagna.
– È ora di andare, – disse. – Sai che non possiamo tardare neanche di un minuto. 
Aveva l'espressione austera, le labbra corrucciate e il trucco sopra agli occhi sbavato. Una camicia rosa antico, dei pantaloni grigi di cachi e dei mocassini da donna bordeaux. 
Dahlia annuì. – Okay, Lisa. Arrivo, un secondo.
Lisa spari verso il ragazzo che era venuto con loro, mentre Dahlia si alzava in piedi, allisciandosi il maglioncino che indossava.
– È stato un piacere, conoscerla. 
Solo il quel momento capì che non ci saremmo mai più visti. 
Un lampo di paura irrazionale mi attraversò il cervello e senza capire come, quando e perché, le stavo chiedendo come avrei potuto risentirla, perché parlare con lei era stato incredibilmente speciale. 
Ne ero certo: possedeva la bellezza tipica della natura, quella aggressiva e superba; mi sorrise teneramente.
Mi aspettai di ricevere un numero di telefono, così fece. Prese il tovagliolo sotto alla mia tazza di tè e accettò la penna che le stavo offrendo.
La osservò. – È pesante.
– È un regalo. – non dissi che era un regalo di Claire. – È di acciaio.
Lei annuì. Scrisse il suo nome, il suo indirizzo e il suo numero di telefono.
– L'indirizzo è perché amo ricevere lettere, mi ricorda la posta che mi mandava mio padre quando era in missione.
Annuì comprensivo. Dissi che le avrei telefonato e scritto sicuramente.
Lei sorrise e si alzò.
Prima che se ne andasse, mi alzai anche io e le dissi che aveva la bellezza tipica delle donne che non hanno bisogno di esibirsi per essere uno spettacolo.
Ero abituato a fare complimenti a Claire, ma anche a riceverne molti, ma quel commento al suo aspetto fu il più vero e sincero che avessi mai fatto.
Lei arrossì. – Se non fosse fidanzato, le direi che lei possiede una bellezza affascinante, quel genere di bellezza che se tenesse in mano un Picasso, nessuno guarderebbe il quadro.
Se andò. 
E mi lasciò (di nuovo) solo.
Sentii subito l'esigenza di risentirla.
   
 
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