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Autore: Jordan Hemingway    03/05/2015    3 recensioni
All’inizio niente aveva avuto un senso.
Le giornate trascorse al volante guidando fino a che gli occhi non cedevano, e allora interveniva Francis a prendere il suo posto, obbligandolo a restare nel retro perché “Non voglio morire a bordo di un furgone nel mezzo del nulla”.
Le soste alle pompe di benzina, tanto rare quanto necessarie, dove Gilbert trovava sempre il modo di dare spettacolo a beneficio dei figli dei gestori, delle madri incinte e delle capre accudite dai primi.

Questa storia si è classificata seconda al “Reverse Contest” indetto da hiromi_chan sul forum di EFP
Genere: Drammatico, Slice of life, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Bad Friends Trio, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Summer has come and passed
The innocent can never last
Wake me up when September ends
Green Day
 
 
Il ticchettio della pioggia contro la strada. Il ronzio irregolare della moto, che incredibilmente reggeva ancora dopo tutti i chilometri percorsi. La melodia nota che fuoriusciva dalla radio.
Quello non era esattamente il tipo di posto da cui attendersi molto: per come andavano le cose era già una fortuna aver trovato il giorno precedente una stazione di servizio all’apparenza abbandonata, dove tuttavia aveva potuto fare di nuovo il pieno.
Non c’era molto altro da aspettarsi, a quel punto, ma andava bene così. Antonio Carriedo si accontentava con poco: una ciotola di riso istantaneo sul fornello da campo, una notte trascorsa a dormire accanto al proprio mezzo di trasporto, la musica locale (e non) che usciva senza sosta dalla radio portatile che qualcuno aveva fissato allo specchietto retrovisore e che minacciava di staccarsi a ogni curva.
La solitudine: a quella ci si era abituato dopo qualche giorno, ma non era un guaio. Stava giusto viaggiando per risolvere il problema.
Le note sembravano echeggiare lungo la strada, riprese da ogni singola goccia di pioggia: speranza e rassegnazione chiuse assieme in un cerchio che si sarebbe spezzato a settembre.
Antonio viaggiava diretto a settembre.
Il settembre in cui tutto era iniziato.
 
 
 
Di norma, quando si trattava di guidare dopo una notte di baldoria, la scelta ricadeva su Gilbert per motivi eminentemente pratici: reggeva l’alcool (e il resto) molto più degli altri, e nonostante la tendenza a pilotare l’auto come se stesse fuggendo da una sparatoria, nessun incidente era mai avvenuto con lui al volante (a parte la volta della mucca: ma quello era stato davvero un incidente).
Né Francis, al quale l’aura di maturità non impediva di ridursi in condizioni pietose quando beveva, né Antonio, il primo a cedere agli attacchi congiunti della grappa cinese e del vino francese, avrebbero mai potuto eguagliare l’abilità dell’albino nell’arte di vuotare fino all’ultima bottiglia senza apparenti conseguenze.
Quelle notti tuttavia erano giunte al termine.
Antonio ingranò la terza e portò il suo furgone azzurro (“Consegne a domicilio: pizza e tapas”) sulla strada principale: attorno a lui, nonostante fosse l’alba di un sabato mattina, già sfrecciavano biciclette, moto e pedoni diretti al proprio lavoro.
La città che non dorme mai.
Puttanate: lo dicono di tutte le grandi città.
Le ombre dei grattacieli oscuravano il sole che sorgeva: presto avrebbe fatto così caldo che il semplice stare in auto sarebbe diventata una prova di forza. Lovino si sarebbe lamentato, avrebbe imprecato per l’acquisto di un condizionatore, e poi si sarebbe messo a torso nudo per il resto della giornata.
Antonio riportò la mente sulla strada e sul volante: fu per questo che riuscì a evitare di investire Gilbert, il quale si stava sbracciando sul tratto di asfalto davanti al furgone.
La frenata fu violenta, raschiante e, per certi versi, liberatoria.
Scheiße, amico! Perché non guardi dove vai?” Furono le prime parole del tedesco nell’entrare in auto (assolutamente non invitato). Un paio di venditori di noodles osservavano la scena con interesse.
“Io non…”
“Hai dell’acqua, mon ami?” Un altro viso noto si insinuò nell’abitacolo. “Questo caldo è insopportabile.”
Senza parlare, Antonio allungò una bottiglia d’acqua ormai intiepidita, che il francese bevve con avidità.
“E prima che tu lo chieda, freund,” Gilbert stirò le gambe contro il cruscotto, infilandosi un paio di cuffie alle orecchie, “no, non torneremo a casa.”
“Non avrai pensato di potertene andare così, senza di noi?”
Amigos.” La voce di Antonio era spenta. “Come volete: ma non tornerò indietro. Meglio che restiate.”
Francis sorrise, passandogli la bottiglia ormai vuota e prendendo posto nel furgone: “Gli amici servono a questo. N’est pas?
 
 
 
Non pioveva più: il sole ora brillava così forte da creare strani effetti ottici sull’asfalto e sul fogliame delle foreste che circondavano la strada. L’umidità era tanto spessa che si sarebbe potuta tagliare con un machete.
Antonio pareva beatamente inconsapevole di tutto questo, e procedeva chilometro dopo chilometro, fischiettando al ritmo della radio.
Solo alcuni uccelli tropicali avrebbero potuto vantarsi di aver sentito Antonio Carriedo cantare di nuovo.
 
 
 
All’inizio niente aveva avuto un senso.
Le giornate trascorse al volante guidando fino a che gli occhi non cedevano, e allora interveniva Francis a prendere il suo posto, obbligandolo a restare nel retro perché “Non voglio morire a bordo di un furgone nel mezzo del nulla”.
Le soste alle pompe di benzina, tanto rare quanto necessarie, dove Gilbert trovava sempre il modo di dare spettacolo a beneficio dei figli dei gestori, delle madri incinte e delle capre accudite dai primi.
Il cibo, che veniva cotto sul fornello da campo arrugginito: spaghetti istantanei di un indefinibile “gusto crostacei” (incredibilmente gustosi, nonostante l’aspetto brodoso), chips di tuberi dal nome impronunciabile, persino insetti essiccati e salati (un errore di Francis).
Le notti sul fondo del furgone, simulando un sonno profondo che non ingannava nessuno. Né Francis né Gilbert tuttavia facevano domande quando al mattino lo vedevano alzarsi con la schiena indolenzita e gli occhi cerchiati. Un mutuo patto di non aggressione nei suoi confronti: del resto anche Antonio fingeva di ignorare la grande quantità di lattine e bottiglie che transitavano nel furgone ad ogni sosta, così come l’odore dolciastro che quasi ogni notte scendeva dal tetto del veicolo, da dove penzolavano due paia di gambe, all’abitacolo, dove Antonio cercava di annullare i propri pensieri.
Notti silenziose, trascorse a pensare e ripensare alle parole di antiche leggende, fino a quando Gilbert non aveva riesumato dal mucchio di rimasugli del furgone qualcosa di inaspettato.
“Pensavo che tu l’avessi gettata via.” Fu l’unico commento di Francis quando il tedesco sventolò la chitarra sopra la propria testa come una bandiera o un bottino di guerra.
Antonio non rispose. Come avrebbe potuto esprimere quel grumo di sentimenti che lo aveva spinto, settimane prima, a distruggere ogni cosa bella che ancora fosse rimasta attorno a lui, fino a quando la semplice vista della vecchia chitarra ammaccata lo aveva colpito con la forza di un pugno allo stomaco, costringendolo a cadere in ginocchio piangendo sul legno graffiato. Non aveva osato abbandonare quell’ultimo ricordo, non aveva potuto farlo.
“Vediamo se riesco ad accordarla decentemente.” Gilbert si sedette sul tetto del furgone, a gambe incrociate, pizzicando le corde e cavandone suoni terrificanti.
“Mon ami, prima di stuprare quella povera chitarra lasciala a me. O meglio,” Francis afferrò lo strumento e lo porse improvvisamente ad Antonio, “lasciamola a chi se ne intende.”
La chitarra rimase sospesa tra i due, una mano tesa a chi sta per precipitare in un dirupo.
Lentamente Antonio accarezzò il legno morbido, avvolgendolo tra le braccia. Una dopo l’altra accomodò le corde, per trarne infine un suono armonioso.
“Ottimo!” Esultò Gilbert, che nel frattempo aveva afferrato qualcosa a lui più congeniale, ovvero una lattina di birra purtroppo tiepida. “Ora possiamo cantare qualcosa.”
La chitarra stonò.
Antonio staccò le mani dalle corde e posò lo strumento sul cofano prima di rientrare nel furgone.
 
 
 
La moto risultò aver bisogno di un’ulteriore manutenzione, per cui Antonio fu costretto a fermarsi di nuovo.
I figli del meccanico (il quale gestiva anche la stazione di servizio e il piccolo supermarket accanto alla pompa di benzina) circondarono il nuovo arrivato facendo baccano nella loro strana lingua.
Nonostante tutto, lo spagnolo era contento di dover aspettare.
Il cielo era perfettamente terso, privo di nuvole: si stendeva davanti a lui fino a raggiungere la linea verde dell’orizzonte, in cui iniziavano a intravedersi spiazzi vuoti, torri grigie sottili come guglie, riflessi di lamiere di edifici in costruzione.
I bambini schiamazzavano, indicando la motocicletta con le mani e contando fino a tre. Antonio diede loro tre monetine, ma quelli continuarono a fare gli stessi gesti, fino a che le loro madri non vennero ad allontanarli, con grande dispiacere dello spagnolo, che si ritrovò di nuovo solo a osservare il paesaggio.
La meta si stava avvicinando, ma non aveva fretta.
Tornare indietro andava fatto con lentezza, cercando di ricordare ogni momento trascorso per arrivare fin lì.
Se solo fosse riuscito a ricordare.
 
 
 
Ora le notti erano piene di suoni: le melodie che Francis e Gilbert si sfidavano a riprodurre con la chitarra, le loro voci e i loro canti, il fruscio del vento tra gli alberi che sempre di più occupavano il paesaggio con le loro grandi foglie, le liane e gli insetti fastidiosi che si schiantavano sul parabrezza, il mormorio delle auto che invece di fermarsi continuavano la loro corsa nell’oscurità.
In circostanze simili Antonio sarebbe stato accanto a loro, la chitarra in una mano e un bicchiere nell’altra, cantando strofe che parlavano di amore e di dolore nella propria lingua madre, gli occhi puntati sulle stelle o su chi per lui era la migliore incarnazione di una stella caduta sulla terra.
Lovino lo avrebbe insultato pesantemente, rosso per l’imbarazzo, e avrebbe cercato di picchiarlo per avere una buona scusa per toccarlo, pur sapendo che era esattamente quello che lo spagnolo voleva.
Un duello continuo di sguardi e sorrisi repressi, sentimenti manifestati senza tante cerimonie, bruschi gesti d’affetto cui non serviva avere un pubblico, perché l’unico pubblico che avrebbero voluto era già lì.
Che cosa rimaneva adesso, a parte il vuoto nel petto di Antonio, un buco nero in cui veniva risucchiata tutta la felicità che avrebbe potuto essere sua?
Una trave d’acciaio fissata male in un’impalcatura. La telefonata di Feliciano dall’ospedale. I tubi di gomma che venivano rimossi di fronte all’evidenza. Una lapide bianca su cui spiccava nitido un nome.
Perché lui?
Non avrebbe mai trovato una risposta. Dopo mesi, l’unica cosa che era riuscito a trovare era una leggenda antica, il filo a cui si era appeso un istante prima di cedere del tutto.
Dall’esterno i canti si fecero più forti, quasi che gli altri due avessero indovinato quel che gli passava per la testa in quel momento.
 
As my memory rests
But never forgets what I lost
Wake me up when September ends
 
L’accordo finale si prolungò più del dovuto, stonato come metà delle note prodotte da Gilbert.
Amigos.” Antonio uscì dal furgone. “Se proprio volete usare quella chitarra, è meglio che vi insegni come fare.”
 
 
 
Pioggia e sole si susseguivano man mano che la moto, di nuovo funzionante, si addentrava lungo la strada. Gli alberi adesso lasciavano posto sempre più spesso a villaggi ed edifici a volte moderni, a volte fatiscenti. Le stazioni radio trasmettevano musica conosciuta, commerciale: ad Antonio mancavano quelle melodie ripetitive e stranamente rilassanti che aveva ascoltato qualche centinaio di chilometri prima.
All’andata non gli pareva di aver ascoltato quel tipo di canzoni.
Chi potrebbe voler ascoltare questo strazio? Scheiße, cambia stazione.
Il ricordo punse la sua mente, ma prima che potesse afferrarlo era già lontano, fulmineo come i falchi che volavano sopra la sua testa.
Anche la strada era cambiata: se prima era stata un’unica striscia argentea, percorso obbligato per chiunque desiderasse viaggiare per quelle contrade, ora si intersecava con altre linee di asfalto provenienti da luoghi che Antonio non avrebbe mai visto, dirette in posti dal nome complicato.
Bisognava fare attenzione a che direzione prendere: la complessità dei nomi era pericolosa, in un attimo poteva afferrare l’immaginazione e portare il viaggiatore a deviare dal proprio itinerario in un’eterna ricerca di meraviglia.
 
 
 
Scheiße. Ci siamo persi.” L’affermazione fu sottolineata da un calcio al cerchione anteriore del furgone, il quale gemette in risposta. “Ci siamo persi nel mezzo del nulla e questo rottame decide di fermarsi. Scheiße.”
Nessuno degli altri due si degnò di replicare: Francis perché troppo impegnato a sventolare una foglia di palma per allontanare da sé la calura, Antonio perché intento a rovistare sotto il suddetto rottame, nel tentativo di capire che cosa non andasse.
“Passami una chiave inglese.”
Gilbert afferrò una manciata di attrezzi dalla cassetta e li lanciò verso quella che per lui era la posizione delle mani dello spagnolo. Un urlo soffocato indicò che aveva centrato il bersaglio.
“Che cosa credi di fare?” Un martello atterrò con una veloce parabola sul piede dell’albino, che iniziò a saltellare come un forsennato.
“Avresti dovuto girare a destra all’incrocio. A destra!”
“Avresti dovuto leggere meglio i cartelli stradali.”
“E’ colpa mia se i nomi sono scritti in una lingua incomprensibile?”
“Smettetela tutti e due.” Francis si alzò, accompagnando le sue parole con un grazioso movimento della foglia di palma. “Invece di litigare, concentratevi sugli aspetti positivi.”
Gilbert incrociò le braccia e alzò un sopracciglio. “Quali? Il motore fuso o il centro del nulla?”
“Guardatevi intorno.” Il biondo allargò le braccia a indicare il paesaggio attorno a loro. “C’est superbe, n’est pas?
In effetti, il centro del nulla era un luogo meraviglioso: le mangrovie e gli alti alberi del pane si aprivano sul lato sinistro della strada, rivelando una ripida scogliera che si immergeva in un mare color zaffiro molti metri più sotto. Il sole alto del mezzogiorno esaltava le onde sulla risacca, illuminandole con mille bagliori.
Dall’altro lato, la foresta con il suo verde cupo costituiva il contrappunto perfetto a quella vista: poco distante dal furgone in avaria, su un piccolo monte di pietre ammassate, era stata collocata una statua di media grandezza e di forma indistinta.
I tre amici fissarono il paesaggio come se da qualche parte potesse spuntare un meccanico in grado di salvarli.
Ovviamente non successe nulla.
Con un sospiro, Gilbert decise che era davvero troppo caldo per litigare. “Scheiße.” Borbottò, dirigendosi verso la statua. Antonio si accasciò a terra, momentaneamente sconfitto dalla testardaggine di quel veicolo.
Eppure non aveva mai avuto problemi in città…
Merda. Questo catorcio è rotto un’altra volta. Perché non lo cambi? Cos’è, ti ci sei affezionato?
Va bene, forse non era il mezzo di trasporto più affidabile del mondo, però…
E’ un fottuto catorcio, la prossima volta che si ferma lo porterò alla discarica con le mie mani.
Peccato che poi, ogni volta, era lo stesso Lovino a rovistare sotto il cofano alla ricerca del malfunzionamento da riparare ad ogni costo…
Antonio scacciò quel pensiero.
“Ehi!” Gilbert doveva essersi ripreso, a quanto sembrava. “Ehi, venite a vedere!” Si sbracciò, dalla cima del monticello di sassi.
“Che altro c’è?” Francis arrancò malvolentieri fino ai piedi della statua: non gli piaceva arrampicarsi. Non sotto il sole cocente.
“Guardate quanto è brutta questa statua,” sogghignò Gilbert. “non sembra una scimmia?”
In effetti, la sagoma scolpita che li fissava dall’alto aveva un’aria vagamente scimmiesca, anche se il tempo e le intemperie avevano contribuito a rendere vaghi i suoi contorni.
“Sarà una divinità locale.” Francis osservò la statua con occhio critico.
“A me sembra più un re con la corona.” Antonio indicò un cerchio intagliato attorno alla fronte dell’effigie.
“Per me è una scimmia.” Gilbert, dimenticato il caldo e i guai, si sfregò le mani e iniziò ad arrampicarsi sulla statua. “Il re delle scimmie.” Urlò una volta giunto in cima.
“Che saresti tu?” Chiesero gli altri due scoppiando a ridere.
“Dovreste salire quassù: c’è una vista incredibile.” Il tedesco, in piedi sulla testa del re scimmia, girò su se stesso rischiando di cadere e rompersi l’osso del collo, come suo solito.
“Aspetta, amigo, ora provo a…” Antonio si interruppe perplesso. “Che cos’è questo rumore?”
“Quale rumore?”
“Come un ronzio, ma più profondo… Non lo sentite anche voi?”
Francis portò una mano all’orecchio. “Toh, lo sento. Sembra avvicinarsi.”
“Potrebbe essere un’auto!” Esultò Gilbert.
Nay, non credo, somiglia più a…”
“Ehi! Vedo le cime degli alberi muoversi laggiù in fondo.”
Ci fu un attimo di silenzio.
Il tedesco riprese la parola. “Non ci sono auto nella foresta, giusto?”
“Potrebbero essere scimmie selvatiche.” Rifletté Francis. “Mi pare che all’ultima stazione di servizio ci avessero detto qualcosa a proposito di una riserva dove ce ne sono molte,” deglutì, “particolarmente aggressive.”
Le foglie delle mangrovie frusciarono.
“Tutti in macchina!” Urlò Antonio, saltando giù dal monte e raccattando i suoi attrezzi. “Adelante!
“Fai funzionare quel motore, e fallo ORA.” Ordinò Francis, prima di tuffarsi nel furgone con impeto tale da colpirne il fondo con la testa.
“Aspettatemi!” In due salti Gilbert raggiunse il suo posto sul sedile anteriore.
Il brontolio si faceva sempre più vicino.
“Forse non sono scimmie.” Antonio schiacciò la frizione con l’ansia di chi sa a quale destino sta per andare incontro. “Forse è solo il vento.” Il veicolo rimase fermo.
“Non ho intenzione di restare a controllare!” Sbraitò il tedesco, pestando il piede che Antonio aveva già premuto sull’acceleratore.
E, sovrastando perfino l’urlo di dolore dello spagnolo, finalmente il motore ripartì rombando, spingendo il furgone tre metri avanti senza che nessuno controllasse il volante, dal momento che Antonio era occupato a insultare Gilbert.
“Via di corsa!” Francis impugnò il volante, evitando a tutti la caduta nel dirupo, e il veicolo si allontanò a tutta velocità lungo la strada, lasciandosi alle spalle il re delle scimmie e il suo esercito di fedeli sudditi.
 
 
 
Le notti le passava a contare le stelle, steso accanto alla sua motocicletta sgangherata, tracciando linee immaginarie che attraversavano il cielo e creavano figure fantastiche fatte di luce.
Iguane, draghi, guerrieri… Non ricordava quando era diventato così importante per lui giocare a inventare strane costellazioni inesistenti. Sapeva solo di doverlo fare, secondo quel suo istinto recondito che lo guidava nelle imprese più disperate.
A volte si perdeva a contemplare quel cielo in cui era possibile scorgere la luminescenza della Via Lattea dietro alle stelle principali, uno dei vantaggi di viaggiare lontano dalle città e dalle loro luci artificiali: a volte riusciva a dare forma a visi familiari, a sorrisi sghembi ed espressioni allegre, ma erano miraggi che si disperdevano quando iniziava a tratteggiare la sagoma di un volto imbronciato, un ricciolo perennemente fuori posto, due occhi che lampeggiavano di rabbia (spesso) o di desiderio (altrettanto spesso).
Come un marinaio, anche Antonio usava le stelle per tracciare la sua rotta verso casa.
 
 
 
Le notti si facevano meno afose, ma nessuno parlò di tornare a dormire nel furgone.
Sul tetto del veicolo ora erano in tre a contare le stelle.
“Conta meglio mon cher: su quel lato sono cento e quindici.”
Nein. Ho detto cento e cinquantaquattro. Dubiti della mia vista?”
“E’ sulle tue capacità di calcolo che ho dei dubbi.”
“Un francese non può insegnare a un tedesco come contare.” Gilbert scosse la testa e ingollò l’ultimo sorso della sua birra. Ormai il gioco andava avanti da ore, ma nessuno sembrava voler smettere. Perfino il tempo pareva essersi fermato.
Antonio, steso sul tettuccio, era immerso nella contemplazione del firmamento, le mani incrociate dietro la testa. "Che cosa ne pensa la Spagna?"
“Cento e trentacinque.”
“E’ proprio vero allora che fuori dalla Germania nessuno sa contare.” Sospirò il tedesco, arrendendosi e sdraiandosi anche lui come gli altri.
“Non vi sembra una mucca quel mucchio di stelle lì in fondo?” Antonio indicò un ammasso di puntini luminosi indistinti.
“Somiglia più a un ippopotamo, secondo me.”
Mais non: non vedete che è un cavallo?” Francis agitò le mani sottili, tracciando i contorni dell’animale con le dita. “La testa, le gambe…”
Amigo: una mucca è una mucca, non un cavallo.”
“Esiste una costellazione della Mucca?” Domandò Gilbert. “O, meglio: esiste la costellazione dell’Ippopotamo?”
Antonio rifletté: “Ci sono quelle del Cane, della Chioccia, del Cigno…”
“Ma niente ippopotami.”
“Niente ippopotami.”
Rimasero in silenzio, pensando a quel cielo ingiusto che vietava l’accesso agli ippopotami.
“Ho deciso.” Gilbert si alzò così rapidamente da far oscillare il furgone. “Ora noi cambieremo i nomi delle costellazioni.”
“Non è qualcosa che puoi decidere da solo.” Gli ricordò Francis.
“Non ho bisogno che un pugno di vecchi astronomi mi insegni in che modo chiamare le stelle.” Allungò un braccio e cominciò a unire i punti luminosi. “Ecco fatto: questa è la Costellazione dell’Ippopotamo, la vedete?”
“A me sembra un cavallo.”
“E a me una mucca.”
Il tedesco li ignorò. “Ippopotamo. Ora passiamo alla prossima.”
Precedendolo, Francis scelse alcune stelle e le unì a sua volta in sagome più complesse. “La Costellazione della Bellezza. Che poi sarei io.” Concluse con un moto d’orgoglio.
Gilbert e Antonio si guardarono e scoppiarono a ridere.
Di lì a poco ognuno di loro aveva posto la propria immagine tra le stelle, affiancandola a decine di altre figure, in una gara senza esclusione di colpi.
“Costellazione del Pomodoro!”
“Costellazione delle Rose!”
“Costellazione di Gil-Bird!”
Alla fine si lasciarono cadere esausti sul furgone: sopra di loro brillava un nuovo cielo, più familiare. I tre osservarono in silenzio le loro costellazioni abbassarsi lentamente sull’orizzonte.
“Avete visto? La Costellazione del Magnifico è l’ultima a tramontare!” Gilbert sogghignò soddisfatto, ma venne ignorato.
“Perché non hai messo la sua Costellazione?” Francis parlò con calma, senza guardare Antonio in faccia. “Pensavo l’avresti fatto.”
L’altro fissò le loro nuove stelle. “Non serve. Io lo vedo in ogni angolo del cielo, in ogni stella, in ogni albero che incrociamo. Non ho bisogno di fissarlo in una sola costellazione.”
Nessuno replicò.
“Gilbert. Le stelle del tuo naso si stanno staccando.” Gli fece notare dopo un po’ Francis. In effetti, tutte le stelle delle loro costellazioni avevano seguito rotte più o meno lineari, rimanendo vicine, ma le stelle che componevano il naso di Gilbert erano rimaste indietro mentre la sua costellazione tramontava.
Scheiße. Non sono stelle, sono pianeti.”
Ce n’est pas le meme? Costellazioni e pianeti hanno orbite diverse?”
Antonio scosse la testa. “Le costellazioni non hanno orbite: sono i pianeti che girano attorno alle stelle. E’ la Terra che gira, le stelle restano dove sono, o si muovono in modo non percepibile dalla Terra.”
“A me interessa solo riavere il naso.”
“I pianeti invece girano attorno alle stelle, si muovono. Per questo il tuo naso non c’è più: la Terra si è mossa, le stelle sono rimaste al loro posto, ma i pianeti si sono spostati. Domani sera dovrebbero tornare al loro posto, se le loro orbite incrociano il percorso della tua costellazione.” Spiegò lo spagnolo.
“Tutto questo è troppo complicato.” Decise Francis. “Continuerò a pensare che stelle e pianeti hanno orbite sincronizzate, anche se sono a migliaia di anni luce di distanza tra loro.”
“Sincronizzate dove?” Chiese il tedesco alzando un sopracciglio. “Sulle bande radio che ascoltiamo durante il giorno?”
“Sono legate da corrispondenze, da echi che di lontano si confondono in unità profonda…”
“Ti sembra il momento di recitare Baudelaire?”
“In un certo senso sono legate. Dipende da dove le si guarda, da chi le osserva. Alla fine, lo stesso vale per gli esseri umani.” Antonio si girò verso di loro e sorrise, un sorriso di quelli veri, di quelli che Francis e Gilbert non avevano più visto sul suo viso da troppo tempo, uno di quelli che portavano il sole anche nel mezzo della notte.  “Sapete, sono fortunato ad avere incrociato la vostra orbita, amigos.”
“Io dico che è ora di dormire: state diventando sentimentali.”
 
 
 
All’ennesima sosta per fare il pieno il gestore lo accolse come un vecchio amico, invitandolo a gesti a riposarsi nella sua casa, una costruzione sghemba di lamiere e pezzi di legno incastrati tra loro con abilità.
Anche all’andata mi ero fermato qui. Il ricordo emerse confuso: sì, aveva fatto sosta proprio in quel posto, e aveva ricevuto la stessa buona accoglienza.
Come allora, i bambini e le capre lo circondarono, saltellando insieme per strappargli qualche moneta.
La moglie del proprietario, la cui pancia indicava che di lì a poco la prole sarebbe aumentata, si affrettò a intervenire, deviandoli verso i campi di riso.
Manca poco al parto, spiegò (sempre a gesti) il proprietario, orgoglioso della sua famiglia.
Anche all’andata mancava poco alla nascita del bambino.
Il pensiero scomparve così come era arrivato.
 
 
 
Le montagne, che prima erano state solo un’ombra sullo sfondo del verde, ora sembravano talmente vicine da poterle toccare.
L’ormai malandato furgone era caduto valorosamente sul campo di battaglia (e solo grazie ai riflessi di Gilbert avevano evitato una fine prematura sul fondo di un burrone quando la frizione aveva deciso di abbandonare la nave): erano riusciti a sostituirlo con tre motociclette dall’aria macilenta ma incredibilmente robuste. Del vecchio furgone era rimasta loro solo la radio, che erano riusciti, con un miracolo di ingegno, a montare su di una delle moto.
Con il senno di poi, era stato un bene aver cambiato veicolo: ora la strada si era fatta più stretta, spesso presentava tratti dissestati o incompiuti: il furgone non avrebbe avuto modo di proseguire.
La pioggia aveva iniziato a seguirli ovunque: Francis, coperto interamente da un impermeabile di nylon azzurro, starnutiva a intermittenza, lamentandosi in francese con chiunque volesse ascoltarlo (di solito i pappagalli, che avrebbero poi ripetuto i suoi improperi senza storpiarne la pronuncia nasale). L’umore di Gilbert, influenzato dal brutto tempo, era calato ai minimi storici: ormai si limitava a grugnire e alzare il volume della radio ad ogni scroscio di pioggia. Solo Antonio manteneva la calma, continuando a guidare la spedizione come se sapesse per istinto che la meta era vicina.
 
Il viaggio terminò all’improvviso, proprio com’era iniziato.
Ad un tratto la strada cessò letteralmente di esistere: l’asfalto si esauriva alle porte di una piccola città, un grumo di case di mattoni d’argilla dove le galline entravano e uscivano a loro piacimento. Nessuna traccia di un’altra strada: quella era l’ultima fermata, dopodiché la civiltà finiva.
“Il posto è questo.” Più che una domanda, quella di Francis era un’affermazione, a cui Antonio si limitò a rispondere con un cenno d’assenso.
“Non pensare di lasciarci indietro.” Lo avvisò Gilbert, il cui malumore sembrava essere stato spazzato via dalla comparsa degli abitanti del posto, intenti a fissarlo con meraviglia (i bambini) e adorazione (le loro sorelle maggiori). “Non ho fatto tutta questa strada per non sapere il finale.”
Antonio si strinse nelle spalle.
In quel momento uno dei bambini si staccò dal gruppo di ammiratori di Gilbert e avanzò verso lo spagnolo, fissandolo con aria più matura degli anni che dimostrava. Dopo qualche minuto indicò un punto all’interno delle vie della città, e, presa la mano di Antonio, iniziò a camminare in quella direzione.
 
Le case erano color argilla cotta, impilate l’una contro l’altra e l’una sull’altra, rendendo le vie talmente strette che fu necessario piegarsi per passare sotto ad alcune delle costruzioni più ardite. L’umidità impregnava ogni cosa, dai muri alla polvere rossa delle strade, e si manifestava in costellazioni di muffe e licheni colorati che ricoprivano le porte e le pareti delle abitazioni. Il profumo di spezie era attutito dall’odore altrettanto forte della pioggia e delle foglie bagnate della foresta che circondava la città come un serpente addormentato.
Infine il bambino si fermò davanti a una porta come tutte le altre: bussò e sparì non appena venne aperto dall’interno.
Antonio non esitò: entrò come se da questo dipendesse la sua stessa vita, e forse era proprio così, rifletté Francis.
La stanza era spoglia, imbiancata con la calce. Pochi mobili, niente polvere: solo una donna seduta in un angolo, dai capelli lunghi e talmente biondi da sembrare dello stesso colore di quelli di Gilbert, occhi azzurri che si piantarono in quelli verdi di Antonio e non si staccarono più da lui. Fredda come il ghiaccio, e altrettanto inesorabile.
“Tu vuoi l’impossibile.” Esordì, con un lieve accento straniero, corrugando la fronte.
“A qualunque prezzo.” Confermò lo spagnolo. Francis non l’aveva mai visto così determinato.
“Non potrai tornare indietro.”
“Non mi interessa.”
La giovane donna sospirò.
“Mi serve tempo. Torna stasera, da solo.”
I tre uscirono senza parlare, soggiogati dalla strana aura della donna bionda.
 
“Non puoi credere davvero a quella storia.” Gilbert era insolitamente calmo. “Non ti lascerò fare cazzate.”
“Che altro mi rimane?” Antonio scaricò i suoi bagagli accanto alla motocicletta. “Voi potete andare: adesso la questione riguarda solo me.”
Il pugno del tedesco lo raggiunse alla mascella e lo fece cadere a terra. Un colpo secco e diretto, come tutti quelli di Gilbert.
“Credi davvero che la cosa non ci riguardi?” Anche Francis, appoggiato alla sua moto, fissava Antonio con durezza. “Pensavo di conoscerti meglio.”
“Le persone cambiano.”
“E gli amici restano. O quel che si dice.” Gilbert lo afferrò per il colletto della maglia e lo rimise in piedi. “Contiamo così poco per te? Vorresti morire per riportare indietro il tempo: è impossibile! Che cosa rimarrà alla fine? La tua tomba e quella di Lovino, nient’altro.”
“La decisione è mia.”
Scheiße.” Gilbert iniziò a scuotere lo spagnolo con tutte le sue forze. “Le tue decisioni riguardano anche noi. Pensi forse che la tua morte sia la soluzione ideale? Se è davvero impossibile, sarà tutto inutile: non pensi a come ci sentiremo noi, quelli che resteranno? Se tutto va come credi, invece, come credi si sentirà lui?”
Le sue dita si irrigidirono. Francis intervenne e, dolcemente, separò i due amici. “Gil ha ragione. Sei un egoista, Antonio. ”
“Non mi interessa. Ho deciso e andrò fino in fondo.”
“Allora finisce così?” Il francese scosse la testa. “Con noi che ci salutiamo fingendo che tutto vada bene?”
“Non c’è mai stato un altro finale.”
“In tal caso, non ti augurerò buona fortuna. Non ne hai bisogno, così come non hai bisogno di noi.”
Francis afferrò Gilbert, il quale era crollato a terra e guardava il cielo senza vederlo davvero, e si allontanarono verso la città.
“Ho sempre avuto bisogno di voi.” Sussurrò Antonio, quando le loro sagome scomparvero all’orizzonte. “Per questo non posso avervi qui adesso.”
 
La notte era calata: le luci che provenivano dalle finestre erano deboli, e presto si spensero. La vita era troppo dura per rinunciare a qualche ora di sonno.
La donna bionda aspettava Antonio sulla soglia della propria casa, vestita di blu e di bianco.
“Seguimi.” Lo condusse per vie sempre più strette fino al confine della città, poi per sentieri che si addentravano nella foresta e lungo il fianco della montagna, fino a raggiungere un punto dove gli alberi sembravano essere stati sradicati da una forza più grande di quella dell’uomo. Le lucciole punteggiavano le radici e le liane con il loro chiarore.
E lì, seduti sopra un tronco marcito, lo aspettavano Francis e Gilbert, bevendo da una bottiglia ormai mezza vuota.
“Che cosa…”
Mon ami, ci abbiamo pensato e abbiamo deciso che, dopotutto, c’è un modo per cambiare il finale.”
Antonio capì.
“Non vi permetterò di prendere il mio posto.”
“Non hai capito, idiota.” Gilbert scolò la bottiglia e la gettò dietro di sé. “Non ho fatto tutta questa strada per permetterti di suicidarti nel tentativo di riportare indietro quel deficiente del tuo ragazzo. Nein. E poi,” dicendo questo accennò alla donna bionda, “ormai è tardi.”
Da. Il patto è stato stretto.” Annuì l’altra. “Due in cambio di uno.”
“Ma morirete tutti e due!” Esclamò lo spagnolo, rompendo la cortina di indifferenza e ghiaccio che lo aveva avvolto per tutto quel tempo. “E sarà per colpa mia.” Cadde in ginocchio piangendo.
Francis si avvicinò e lo avvolse in un abbraccio. “E non pensi a noi? A quel che avremmo provato a sapere di aver accompagnato alla morte il nostro migliore amico senza nemmeno provare a salvarlo?”
“E comunque pare che la morte dovrà aspettare parecchio.” Gilbert ghignò soddisfatto.
La strega bionda chiuse gli occhi. “Per uno che torna due se ne vanno: questo non è che uno dei mondi possibili. In questo mondo non è previsto che tu viva assieme al tuo ragazzo e ai tuoi amici: se loro se ne andranno da questo mondo, il tempo potrà essere riscritto.”
“Che cosa significa?”
“Ti ricordi le nostre costellazioni?” Chiese Francis. “Ogni stella è distante anni luce l’una dall’altra, ma da qui sembrano muoversi secondo la stessa orbita.”
“Le costellazioni non hanno un’orbita.”
Mon ami, non essere pignolo. Quello che voglio dire è che saremo sempre accanto a te, anche se in mondi diversi.”
“Ma non in questo.”
“Non farla lunga, Scheiße.” Sbuffando, Gilbert afferrò le spalle dei suoi amici. “Siamo tutti parte di un’unica costellazione, anche se l’idea mi fa rabbrividire, e questo non cambierà mai, dovunque ci troveremo.”
“Non avevi detto di essere pronto a tutto per salvare Lovino?”
Antonio guardò Francis e Gilbert: i suoi migliori amici, con cui aveva condiviso i migliori momenti della sua vita e che lo avevano salvato nei momenti peggiori. Pensò a Lovino: al suo sorriso quando credeva che nessuno potesse vederlo, a com’era immobile quel giorno all’ospedale. Al vuoto che riempiva il suo cuore.
“Non preoccuparti per noi. Non servono a questo gli amici?” Francis e Gilbert si avvicinarono alla donna.
“Come funziona?” Chiese Gilbert. “Non ho intenzione di mettermi in cerchio e invocare gli spiriti.”
“Dormirete. E quando vi sveglierete non sarete più nello stesso mondo: non ricorderete più nulla gli uni degli altri, sarà come se vi foste risvegliati da un sogno.”
Antonio fece un passo avanti. “Ma io voglio ricordare! Non voglio dimenticarmi di voi.” Tuttavia, mentre avanzava sentiva il terreno sotto di sé farsi vischioso, le sue gambe farsi pesanti. Si ritrovò a terra. “Perché?”
“Le stelle non si conoscono, eppure incrociano la stessa orbita.” Sentiva la voce di Francis venire da molto lontano. “Legate da invisibili corrispondenze…”
“Ti ho già detto di non citare Baudelaire, freund.” Anche la voce di Gilbert era distorta. “Siamo caduti nella tua orbita già una volta: chi ti dice che non lo faremo di nuovo, alla faccia di questa strega?”
Il cielo notturno girava attorno alla testa di Antonio, come un caleidoscopio di stelle, liane e lucciole.
“Manda i nostri saluti al cher Lovino.”
“E non bere troppo: lo sai che non reggi nemmeno la birra.”
“Non vi dimenticherò.” Fu la promessa di Antonio, prima di chiudere gli occhi.
 
Il sole era ormai alto quando Antonio si svegliò grazie al rumore dei bambini che giocavano in cortile. Si stiracchiò nel letto: era una bella giornata di sole, a quanto sembrava. Dentro di sé avvertì un vago senso di urgenza, come se avesse dimenticato qualcosa di molto importante.
Gilbert. Francis.
I nomi lo colpirono come un pugno allo stomaco, ma il dolore, così come era arrivato, scomparve. Il sorriso di Francis, la risata di Gilbert. Riusciva ancora a ricordare, ma per quanto?
Non vi dimenticherò.
Che cosa non avrebbe dovuto dimenticare? La motocicletta doveva essere riparata prima di riprendere la strada, se non voleva farla a piedi.
Si alzò in piedi e aprì la finestra.
Era il giorno ideale per tornare a casa da Lovinito.
 
 
 
Infine era di nuovo a casa.
Il sole cocente di fine settembre lo accolse riflettendosi sui grattacieli e riverberandosi nelle strade ingorgate dal traffico del mattino. Le grida dei venditori di noodles, il suono dei clacson, le chiacchere in lingue che non sarebbe mai riuscito a imparare. Quanti mesi era rimasto assente dalla sua città?
Appoggiò la moto al muro, senza nemmeno scaricare i bagagli. Non gli importava che qualcuno li prendesse: aveva bisogno di vedere Lovino, dopo tutto quel tempo.
Smontando dal sellino sfiorò con una mano la radio: la sua vecchia radio, quella che un tempo era stata in un furgone e che qualcuno era riuscito a fissare alla moto.
All’improvviso non riuscì più a staccare gli occhi da quell’oggetto, che penzolava ormai quasi distrutto dal troppo uso: gli sembrò rappresentare qualcosa di importante, anche se non sapeva dire che cosa.
Armeggiò qualche istante e la radio gli cadde tra le mani. La portò con sè su per le scale del condominio in cui abitava, senza nemmeno rendersene conto.
Dalla tasca estrasse le chiavi del suo appartamento ed entrò.
Lovino era lì (perché tanto sollievo?) ancora addormentato sul divano (perché aveva pensato per un attimo di non trovarlo?), circondato da cartoni di pizza e ciotole vuote di noodles precotti, brontolando nel sonno. Era raro che Antonio lo trovasse così: di solito era Lovino a svegliarlo, nel suo modo particolare…
Antonio prese la rincorsa e lo colpì con una testata allo stomaco.
Lovino ansimò e si svegliò immediatamente.
“Che cazzo fai, bastardo?” Urlò, quando gli fu tornata la voce, prendendolo a pugni. “Tornatene di dove sei venuto, figlio di…”
Antonio gli prese la testa tra le mani e lo baciò appassionatamente, nonostante le proteste, sempre meno convinte, di Lovino.
“Sono tornato, querido.”
Dall’angolo della stanza in disordine in cui l’aveva lanciata, la radio sputacchiò e iniziò a cantare.
 
Wake me up when September ends.
 
Ora settembre poteva finire, pensò Antonio, inspiegabilmente commosso. Poteva arrivare ottobre, novembre, dicembre, non aveva più preoccupazioni. Tutto era tornato a posto.
Finalmente era tornato a casa.

 
Fine
 
NdA: Dunque, se non si fosse capito, la storia partecipa al Reverse Contest di hiromi_chan su EFP Forum (febbre dei contest, allontanati da me XD), e parte da un What If? Cosa farebbe Antonio se morisse Lovino (o Romano, io preferisco il primo nome)? Secondo me andrebbe in capo al mondo se avesse la minima speranza di riportarlo indietro.

Ci sono due line temporali in questo pastrocchio.

Secondo le definizioni di “reverse” trovate su Wordreference, il termine può indicare, oltre che al capovolgimento di una situazione, anche “retromarcia, tornare indietro”: quindi ho immaginato un Antonio che torna letteralmente indietro, sia nel tempo che nello spazio, e questa è la prima linea temporale. Quando Antonio viaggia da solo sta viaggiando anche indietro nel tempo, ecco. (in questo momento mi sembra un’idea balorda, ma tant’è…)

La seconda linea temporale è costituita dal racconto del viaggio di andata, in cui Francis e Gilbert hanno accompagnato Antonio, salvandolo da se stesso. Alla fine del viaggio, durante il quale comprendono di essere importanti l’uno per l’altro, i primi due decidono di “sacrificarsi” per permettere a Antonio di stare con Lovino. La citazione di Elementary, nelle mie intenzioni, dovrebbe servire a esplicare il loro rapporto da adesso in poi: saranno legati tra loro anche se non sono fisicamente vicini, e anche se non si ricordano l’uno dell’altro.

Le citazioni dei Green Day derivano dal fatto che quella canzone mi ha accompagnato nella stesura, mi pareva ci stesse abbastanza bene. Il luogo in cui si muovono i personaggi sarebbe il sud-est asiatico (fissazione mia: un giorno abiterò lì, e sbarcherò il lunario vendendo noodles istantanei XD), ma ai fini della storia non credo abbia molta importanza nominare in modo esatto posti e città, dato che alla fine è più un viaggio nel tempo (comunque, partono da Singapore).

Ecco, credo di aver spiegato tutto… per i termini in tedesco, francese e spagnolo mi sono affidata a Google Translator, la strega bionda sarebbe Bielorussia, ma mi sono accorta che non ci assomiglia molto, per cui nel caso consideratela un OC secondario (ahimè). E ho citato Baudelaire, Corrispondenze, una poesia che adoro.

Che poi scrivendo così tante note per spiegare una storia mi vien da pensare che la storia è proprio confusa… ^^’ Chiedo scusa! Grazie mille per aver letto fin qui! ^^ 
  
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