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Autore: ___Ace    04/05/2015    9 recensioni
-Resteremo amici per tutto questo tempo? Schiatterò prima.-
-Potrò usarti come cavia quando accadrà.-
-Seriamente, lo credi davvero?-
-Cosa?-
-Che resteremo amici.-
-Sei il primo amico che abbia mai avuto. Certo che ci credo.-
-Anche io.-
-Bene.-
-Bene.-
-Amici?-
-Amici.-
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eustass Kidd, Monkey D. Rufy, Trafalgar Law | Coppie: Eustass Kidd/Trafalgar Law
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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If we ever meet again.

 

-Perché te ne stai sempre da solo?-
-Gli altri bambini non mi vogliono tra loro, quindi me ne sto qui.-
-Posso restarci anche io?
-Fai come vuoi.-
-Comunque, io sono Kidd. Tu come ti chiami?-
-Law.-
 
*
 
-Law, come si fa questo?-
-Leggi, sul libro c’è la risposta.-
-Non puoi semplicemente farmi copiare? Tu hai già finito i compiti.-
-Devi imparare ad arrangiarti, testa rossa.-
-Bah, saputello antipatico.-
 
*
 
-Hai visto la faccia della maestra?-
-Si, non ho mai riso così tanto!-
-Quando ha visto la rana morta le è venuto un colpo! Dobbiamo rifarlo.-
-Va bene, ma la prossima volta scendi tu nel canale a cercare quelle bestiacce.-
-Ma se ti sei divertito un mondo a torturarle!-
-Però non ho mai detto che mi sia piaciuto pescarle.-
-D’accordo, ma piantala di fare quella faccia sadica, fai paura.-
 
*
 
-Chi è stato a ridurti così?-
-Nessuno. Sono caduto dalla bicicletta.-
-Tu non hai una bici, Law.-
-Ho preso in prestito la tua.-
-Non è vero, smettila di dirmi balle. Allora, mi rispondi si o no?-
-Non è niente, non fa così male…-
-Guardami. Dimmi chi è stato. Adesso.-
-Gli altri… quelli della classe superiore.-
-Aspettami qui.-
-No, dai, lascia stare. Per favore. Kidd!-
 
*
 
-Ti fa tanto male?-
-Nah, sono solo un paio di graffi.-
-E un occhio nero.-
-Però quei bastardi sono a terra e non ti toccheranno più. Dammi il cinque.-
-Kidd.-
-Che c’è?-
-Grazie.-
 
*
 
-Buon compleanno!-
-E questa che roba è?-
-Una scatola.-
-E che ci dovrei fare?-
-Aprila, scemo.-
-Stoffa?-
-E’ una sciarpa. Devi metterla al collo, così i prossimi mesi non ti prenderai un altro raffreddore.-
-Ma è enorme.-
-In questo modo la userai anche da grande, Eustass-ya.-
-Smettila, odio quando mi chiami così.-
-Io lo trovo divertente.-
-Idiota. Senti, ho anche io un regalo per te. Tieni.-
-Uh? Perché?-
-Beh, perché, insomma, a natale non ti ho fatto niente a causa di quegli inconvenienti e così ho pensato… Oh, che diavolo, aprilo e basta.-
-Mi hai regalato un cappello? Sul serio?-
-Se ti fa schifo buttalo.-
-Mi piace tanto.-
-Davvero?-
-Si. E’ un po’ grande, ma così tra dieci anni lo userò ancora.-
-Anche venti allora.-
-Vada per venti.-
-Resteremo amici per tutto questo tempo? Schiatterò prima.-
-Potrò usarti come cavia quando accadrà.-
-Seriamente, lo credi davvero?-
-Cosa?-
-Che resteremo amici.-
-Sei il primo amico che abbia mai avuto. Certo che ci credo.-
-Anche io.-
-Bene.-
-Bene.-
-Amici?-
-Amici.-
 
*
 
-Ohi, Trafalgar!-
-Eustass-ya! Che ci fai qui? Se ti vedono ti bastonano! Vattene via!-
-Oh, chiudi il becco! Dimmi piuttosto che diavolo sta succedendo.-
-Non ne ho idea, ma non mi piace. Stanno buttando tutti gli ebrei fuori dalle loro case, la mia famiglia compresa. Pure a scuola è arrivata la polizia sbraitando e facendo uscire insegnanti e allievi.-
-Ma perché lo fanno?-
-Vorrei tanto saperlo.-
-Se vuoi resto un po’ qui.-
-Come vuoi, ma non farti vedere.-
-Trafalgar?-
-Dimmi.-
-Ho un brutto presentimento.-
 
*
 
-Dove ti stanno portando?-
-Non lo so!-
-Ehi, tu, allontanati!-
-Mi lasci andare! Trafalgar!-
-Eustass-ya, va via! Via!-
-Fatelo scendere dal treno, è mio amico!-
-Portatelo via.-
-Trafalgar! Law, dove cazzo vai?-
-Andrà tutto bene! Va via!-
-Law!-
 
*
 
-Kidd.-
 
*

 

Auschwitz, Novembre 1944.

 

-Scommetto un pacchetto di sigarette che non lo becchi a questa distanza.-
A quella provocazione, il soldato tedesco imbracciò il fucile, sistemando la sua postura e appoggiando i gomiti alla staccionata per avere miglior stabilità, prendendo poi la mira. Osservò come tutt’attorno i lavori si svolgessero nel silenzio più totale, eccezione fatta per qualche imprecazione o bestemmia che venivano lanciate con regolarità ogni cinque minuti dai suoi compagni militari, i quali non facevano altro che prendersela con quelle povere bestie che a stento tiravano avanti.
Quel giorno ce ne sarebbe stato un altro in meno per mano sua, cosa non nuova e che andava avanti da un pezzo, ormai. Non gli piaceva giocare al tiro al bersaglio, infatti, anche se vinceva le scommesse per la sua ottima e allenata mira, rifiutava sempre di ricevere il premio stabilito. Uccidere la gente non lo faceva sentire esattamente un uomo migliore, come andava profetizzando quel leader che la Germania non faceva altro che idolatrare.
La verità era che tutta quella situazione era uno schifo, ma lui doveva continuare a sopportarlo per raggiungere il suo scopo. Doveva tenerlo bene a mente per non impazzire e rischiare di dare di matto. Se la notte scendeva dal suo letto per raggiungere le baracche e le catapecchie dove stavano ammassate tutte quelle povere anime per chiedere loro chi sarebbe stato il prossimo a lasciare quel mondo il giorno successivo, lo faceva unicamente per dare loro una via di fuga. E, non potendo garantire loro la salvezza, almeno alleviava tutte le sofferenze che pativano, facilitandogli il passaggio a miglior vita ed evitando loro torture o ulteriori dolori.
Uno sparo riempì l’aria, facendo cadere il luogo in un silenzio ancora più pesante, il momento che in assoluto odiava di più.
-Hai vinto di nuovo, Kidd.-
Il ragazzo sospirò. Non aveva vinto proprio un cazzo, se non una visita all’obitorio per trascinarci quel cadavere. Era una regola stabilita dai superiori: se si voleva ammazzare qualcuno per qualsiasi motivo, poi si doveva provvedere personalmente per smaltire il cadavere.
Non che a lui dispiacesse; d’accordo, gli faceva un certo senso e si sentiva logorare dai sensi di colpa, soprattutto perché tutti quei poveretti, invece di guardarlo con odio e disgusto, sembravano pregarlo di essere i prossimi, ma almeno in quella maniera si allontanava da quelle teste di cazzo dei suoi compagni d’armi che avrebbe volentieri strangolato nel sonno.
-Vai a gettare la spazzatura ora.-
Si costrinse a mettere su un sorriso divertito, anche se sorridere era l’ultima cosa che voleva fare, e attraversò il campo di terra arida che non avrebbe mai dato frutti maturi a causa di tutta la cenere che veniva buttata tra le zolle ogni notte, quando i forni venivano svuotati e il fumo scompariva nel cielo.
Estraniato dal mondo, afferrò il corpo a terra del giovane che la sera prima lo aveva implorato in ginocchio di togliergli la vita e se lo caricò in spalla, immune alla nausea che aveva provato le prime volte, quando, all’età di sedici anni, gli avevano piazzato in mano un fucile e lo avevano spedito in culo al mondo per essere addestrato a servire la patria.
Lui non avrebbe voluto proprio andarci in quello schifo di posto, al freddo e lontano da casa, al contrario, aveva desiderato con tutto se stesso di infortunarsi o rompersi qualcosa per essere congedato e sostituito, ma quella carriera sembrava essere stata cucita su misura per lui, dato che aveva sempre eccelso nelle materie fisiche e in campo se la cavava meglio di tutti i suoi coetanei. Inutile dire che i pezzi grossi lo avevano notato e in pochissimo tempo si era ritrovato maggiorenne, con un ruolo da ricoprire, degli ordini da dare e delle persone, suoi simili, da schiacciare, torturare e, maledizione al mondo!, ridurre in cenere.
Avrebbe dovuto farla finita molto prima, ma doveva andare avanti.
Con un diavolo per capello raggiunse un capanno al limitare del campo, poco lontano dalle camere a gas e dai forni, il quale era stato riservato ad un paio di dottori autorizzati ad operare. Erano stati scelti soprattutto per curare le classiche malattie che spesso i soldati si beccavano, o per ricucire o guarire qualche ebreo ritenuto ancora utilizzabile. Quei medici, però, cambiavano spesso e non ce n’era mai uno di fisso. Venivano trasferiti molte volte dove c’era più bisogno e, essendo quello in cui si trovava lui il campo più grande e che mieteva più vittime, un dottore in meno non faceva la differenza.
Si fece aprire la porta da un ragazzino smilzo e con i vestiti che gli ricadevano sulle spalle troppo magre, mentre i pantaloni erano legati in vita con dei lacci per le scarpe. Si soffermò un istante sulla sua camicia rossa, cosa inconsueta dato che tutti i detenuti, perché era come se fossero prigionieri, dovessero indossare uno stupidissimo pigiama anonimo. Tuttavia, quel colore non gli dispiacque molto. Era tanto che cercava uno spiraglio di luce in tutto quel grigio e, a parte i suoi capelli, quel vestiario gli aveva in qualche modo ricordato che esistevano anche altri colori al di fuori di quel degrado.
Ignorò l’occhiata triste che lesse nel suo sguardo e si avviò senza bisogno di ricevere indicazioni. Ormai girava per quelle mura ogni pomeriggio, perciò era come se fosse uno di casa.
Si infilò in una stanza piena di brandine rigorosamente vuota e spoglia, ascoltando il rumore che producevano i suoi scarponi sul pavimento e pensando a quando avrebbe finalmente messo fine ad ogni suo problema, anche se la cosa sembrava parecchio impossibile.
Erano passati dieci anni ormai, a breve ne avrebbe compiuti ventitré, e ancora non era riuscito a trovarlo. Per quel che ne sapeva, poteva essere morto, anche se sperava ardentemente che fosse riuscito a scappare. In ogni caso, se c’era una remota speranza di poterlo trovare vivo e ancora con la testa attaccata alle spalle, lui lo avrebbe scovato, riempito di pugni, sbattuto al muro e ridotto in fin di vita. Allora, e non prima, lo avrebbe portato via, lontano da quell’Inferno. Sarebbero ritornati a casa e avrebbero ripreso da dove avevano lasciato all’età di tredici anni.
Era un bel sogno, davvero. L’unica cosa che lo faceva andare avanti.
-Ehi, TonyTony, ne ho un altro.- dichiarò, appoggiando il corpo che aveva trasportato fino a lì su di una barella. Da tempo aveva smesso di scaraventarlo a terra come sacchi di patate, un atteggiamento dettato dalla disperazione e dall’odio che provava verso tutti.
-Il Dottor Chopper è stato trasferito.- lo avvisò uno sconosciuto che intravide al di là di un separé fatto con precari materiali di legno e un lenzuolo che un tempo doveva essere stato bianco.
Il soldato si strinse nelle spalle, passandosi distrattamente una mano sui capelli vermigli e poi sul volto stanco e tirato. -Sentiremo la sua mancanza.- ironizzò, anche se non era poi del tutto sarcastico. Quell’uomo era stato molto gentile con lui, anche se non lo meritava affatto dato quello che faceva. Gli aveva spiegato, con una pazienza infinita, che non doveva rodersi il fegato e torturarsi per quello che era costretto a fare. Tutti lì cercavano di sopravvivere come potevano e, se il suo animo era buono, non doveva preoccuparsi inutilmente. Però era difficile, tanto. Soprattutto quando vecchi e giovani lo avvicinavano di nascosto implorando di ucciderli.
A volte si sentiva come l’Angelo della Morte.
-Suvvia, non essere così cupo.-
Il giovane si irrigidì e assottigliò lo sguardo. Si sbagliava, o quello lo stava sfottendo apertamente? Senza conoscerlo per giunta! Sicuramente, se avesse saputo che era armato e che avrebbe potuto disintegrarlo con una sola mano, non si sarebbe mai azzardato a scherzare in quel modo. Certo, perché, anche se detestava mietere vittime innocenti, dall’altra parte piantare una pallottola in testa alla gente che gli stava sulle palle non gli costava niente, lo faceva quasi con divertimento e soddisfazione, se proprio doveva essere sincero.
Trattenendo a stendo il fastidio, dato che il medico non sembrava intenzionato ad uscire da quell’angolo, coprì le distanze che lo separavano da lui e tirò con forza la tenda per dire dritto in faccia a quel rifiuto che non doveva azzardarsi a rispondergli in quel modo.
Solo che le parole gli morirono in gola.
-Ma che cazzo fai deficiente?- gli sibilò contro il ragazzo che si ritrovò di fronte, leggermente più basso di lui, ma abbastanza sfacciato da fronteggiarlo senza timore e da insultarlo.
Non furono le sue offese a bloccarlo però, bensì un senso di famigliarità che gli attanagliò lo stomaco con tanta forza da fargli mancare il respiro e venire le vertigini.
Davanti a lui, a pochi centimetri, una zazzera di capelli corvini ricadeva spettinata su un paio di occhi che lanciavano saette, ma che sapeva di conoscere benissimo. Erano grigi, dello stesso identico colore che lo avvolgeva e lo circondava ogni giorno, quasi come a ricordagli quello che stava cercando.
E, finalmente, l’aveva trovato.
-Trafalgar.-
Lo vide lottare con se stesso per non tradire alcuna emozione, ma si accontentò del respiro accelerato e di quelle pupille dilatate all’inverosimile per capire che la sorpresa era stata un pugno in faccia per entrambi.
-Eustass-ya.-
 
*
 
L’aria all’esterno fu una frustata in pieno volto e persino la poca luce presente, coperta da una coltre di nubi e un leggero strato di nebbia, lo accecò per un istante, facendogli perdere di vista il camice bianco che si allontanava a passo spedito dall’edificio, diretto verso le recinzioni dove alcuni arbusti, gli unici non ancora secchi e morti, davano una lugubre mostra di se stessi.
I suoi piedi scattarono in avanti in quell’esatto istante e in poco tempo le sue mani stavano saldamente afferrando le spalle del ragazzo che aveva cercato per tutti quegli anni e che era quasi arrivato al punto di credere morto.
Il moro cercò di divincolarsi da quella presa, ma si ritrovò costretto a doversi voltare e ad essere faccia a faccia con l’ultima persona che avrebbe voluto vedere in quelle condizioni.
Davanti a lui c’era quella pestifera testa rossa che lo aveva fatto ammattire durante la sua infanzia con le sue trovate assurde e la sua poca intelligenza. Guardandolo bene, non era cambiato molto, a parte il fisico slanciato, la massa muscolare sviluppata al punto giusto, come le braccia che sembravano essere due sbarre di ferro, le spalle larghe e la figura ben piazzata. Forse si stava sbagliando, forse era davvero cambiato tantissimo dal mocciosetto che era stato un tempo, con le gambette magre e sottili e il nasino piccolo. L’unica cosa rimasta immutata erano i suoi capelli rosso fuoco, disastrati come sempre e leggermente più lunghi.
Era cresciuto grande e forte, si rese conto Law, e vederlo dal vivo era meglio di tutte le sue fantasie su cui spesso si era fermato a fantasticare, immaginando in che condizioni avrebbe potuto essere l’amico. Inutile dire che la realtà era meglio di ogni cosa, anche se faceva dannatamente male.
Si, perché Kidd era un soldato tedesco che faceva il carnefice in un campo di concentramento dove le sue vittime principali erano gli ebrei.
Quelli come Law.
-Toglimi le mani di dosso.- sbottò con rabbia, continuando imperterrito a tentare di sfuggire alla sua presa.
-Sono io, razza di idiota, non lo vedi? Sono io, sono sempre io.- provò a farlo ragionare il rosso, trattenendosi a stendo dal ringhiargli contro. Mai una volta che quel dannato ragazzo stesse fermo ad ascoltarlo senza dargli contro.
-Non è vero e lo sai!- esplose a quel punto Trafalgar, desideroso solo di allontanarsi e di non vederlo più, nonostante non avesse sperato altro per anni, anche con la consapevolezza che il suo era un affetto impossibile. Quell’amicizia non avrebbe potuto durare, non in quelle condizioni, non quando, al minimo passo falso, i tedeschi avrebbero potuto ammazzare entrambi. -Le cose sono cambiate Eustass-ya: qui tu sei il boia e io l’immondizia da togliere di mezzo!-
Oh, quanto avrebbe voluto risparmiargli quell’accusa, quanto avrebbe voluto smettere di parlare e lasciare andare le lacrime che gli stavano pizzicando fastidiosamente gli occhi, gettandogli le braccia al collo per soffocarlo con un abbraccio che mai avrebbe pensato di voler dare e ricevere allo stesso tempo.
Eustass Kidd era stato il suo primo e unico amico, quello che a scuola non lo aveva lasciato in disparte, coinvolgendolo e facendolo divertire; quello che si era fatto venti minuti di strada a piedi per andare a trovarlo il pomeriggio, tutti i giorni; quello che aveva passato le ore a chiacchierare e a ridere; quello che gli aveva fatto un regalo che custodiva come una reliquia e che portava con sé in ogni trasferimento. Era stato l’unico che si era beccato delle bastonate dalle guardie quando lui e la sua famiglia erano stati messi su un treno diretto all’Inferno, solo per salvarlo. Lui, il suo migliore amico.
L’unico amore che gli era rimasto in quella misera vita.
Sapeva che non era stato dimenticato, lo aveva letto negli occhi ambra del rosso che per lui la loro amicizia era ancora importante e ciò gli sarebbe bastato per arrivare alla fine di quella storia, ma non insieme. Se le altre guardie avessero scoperto che Kidd aveva un amico ebreo, non avrebbero aspettato molto prima di farlo pentire amaramente di quella scelta, perciò più gli stava lontano, meglio era.
Kidd si era proprio scelto un pessimo amico quella volta.
Sperava con quelle parole dure di averlo ferito o fatto arrabbiare come succedeva quando erano dei mocciosi, invece si ritrovò stretto in una morsa ferrea nel giro di pochi secondi, con il viso affondato nel petto del rosso e le sue braccia strette attorno a lui con una forza quasi disperata, come se temesse di lasciarlo andare. E, quando sentì il respiro caldo e irregolare di Kidd tra i suoi capelli, qualcosa dentro di lui si spezzò irrimediabilmente, facendolo crollare e abbassando del tutto le sue difese.
-Maledetto bastardo.- mormorò Kidd, deglutendo a fatica e fremendo per non perdere il controllo di sé, -Ti ho cercato ovunque, cosa ti costava farti trovare?-
Law tirò su col naso, ricambiando quella sorta di abbraccio, un contatto che gli era mancato come l’aria. -Mi sei mancato anche tu, Eustass-ya.-
 
*

 

Auschwitz, Dicembre 1944.

 

-Fa un freddo cane.-
Law, tanto per cambiare, non mancò di esibire il suo solito ghigno di sufficienza, come se il tempo atmosferico non lo avesse minimamente scalfito, così come le imprecazioni che Kidd non aveva mai smesso di fare dall’inizio del loro incontro quella mattina.
Avevano deciso che il momento migliore per trovarsi e fare quattro chiacchiere era quello durante le prime luci dell’alba, quando i turni di guardia finivano e seguivano un paio di ore buche che lasciavano ai militari il tempo di riposare e svagarsi come meglio preferivano, solitamente dormendo, bevendo, fumando o giocando a carte nei loro alloggi. Il sesso, per tutti, era argomento tabù.
Così, i due ragazzi si incontravano nel capannone adibito come pronto soccorso o ospedale improvvisato, e si sedevano sul pianerottolo della porta sul retro, quella di emergenza, che dava sul confine della recinzione, una parte del campo che non veniva sorvegliata perché munita di un’alta rete e di filo spinato, impossibile da scavalcare.
Si sedevano sull’uscio, ognuno appoggiato alla porta opposta dello stipite per guardarsi dritto in faccia mentre si parlavano, stretti nei loro giacconi e talvolta sorseggiando qualcosa, quando Sanji, il cuoco, riusciva a procurare loro della brodaglia calda.
Non restavano mai in silenzio, talmente tante erano le cose che avevano da dirsi e da raccontarsi, molto spesso ritrovandosi a venire accecati dal sole ormai alto, segno che Kidd doveva sbrigarsi se non voleva arrivare in ritardo per iniziare il turno.
Law gli aveva raccontato cosa gli era successo quando lo avevano obbligato a prendere il treno, allontanandolo dalla città. Erano arrivati in un campo non molto grande, dove tutti venivano messi ai lavori forzati e, una volta essere stati smistati, era rimasto con il padre, il quale aveva avuto la fortuna di essere stato scelto come medico della base. A lui era stato assegnato il compito di assistente e poi, quando era diventato abbastanza grande da potersi arrangiare, aveva assunto il ruolo di medico in un altro campo, quindi allontanato dalla sua famiglia definitivamente. Aveva perso i contatti con loro da molto e non sapeva che fine avessero fatto.
Kidd lo ascoltava e annuiva, solitamente inserendo qualche insulto o imprecazione, mentre altre volte semplicemente lo lasciava finire il discorso senza aggiungere nessuna parola.
Cosa avrebbe potuto dire? Che gli dispiaceva? Che avrebbe voluto che le cose fossero andate diversamente? Che lo avrebbe aiutato a ritrovare i suoi parenti? Law non era uno stupido e, di sicuro, non voleva essere compatito. Sapeva benissimo come stavano le cose e capiva anche la difficoltà di Kidd, data la sua posizione. Inoltre, il rosso era certo che il ragazzo un po’ si aspettasse di non rivedere più la sua famiglia.
-Cosa farai?- chiese ad un certo punto il moro, stiracchiandosi e allungando le gambe fino a quasi sfiorare quelle del compagno.
-Cosa farò quando?- gli chiese l’interrogato, voltandosi a guardarlo.
-Quando tutto finirà.- specificò Law.
Kidd annuì, sorridendo lievemente. Aveva seri dubbi sul fatto di raggiungere un lieto fine, ma il suo più grande problema lo aveva risolto. Aveva trovato quel saccente di Trafalgar, e pure vivo, perciò poteva dirsi più che soddisfatto e in pace con se stesso. Però, dato che quel desiderio si era avverato, un altro era andato a sostituirlo, ovvero la speranza di uscirne entrambi vivi. E quel nuovo obbiettivo e di gran lunga più difficile e impossibile del precedente.
Alla fine, però, sorrise sul serio, quasi con aria sprezzante, come a voler dimostrare di essere sicuro di se stesso e di ciò che voleva. -Quando avrò finito qui, prenderò i miei soldi e me ne andrò all’estero. Magari in Francia.- disse, -Comprerò una fottuta casa, mi metterò a fare il meccanico e aggiusterò qualsiasi macchina infernale che inventeranno da qui in avanti. Oh, e mi prenderò anche un cane che piazzerò nel giardino che avrò a fare da guardia.-
Law lo guardò scettico. -Un cane? Tu?-
-Certo. Un cane enorme. E la domenica cucinerò carne alla griglia e berrò birra assieme a lui.-
-Suona bene.- dichiarò il moro, non perdendo il ghigno davanti a quella visione di Kidd che cucinava e di quell’ipotetico cane che gli rubava il cibo dal piatto. Conoscendo il ragazzo, l’animale non avrebbe campato bene per molto.
-E tu farai il bis di ogni piatto.- aggiunse ad un tratto Kidd, guardando altrove, aldilà della recinzione.
-Che cosa?- domandò il dottore, non capendo quello che aveva inteso l’altro.
-Sei troppo magro. Anche quando eravamo piccoli non mangiavi mai un cazzo. Quando ce ne andremo, ti farò ingozzare con la forza, puoi starne certo.-
-Ce ne andremo? Noi?- fece Law, staccando la schiena dalla parete e incurvandosi verso Kidd nel tentativo di capire se stava scherzando o se era impazzito all’improvviso. -Eustass-ya, quel poco cervello che avevi lo hai perso del tutto?-
Kidd si strinse nelle spalle, tornando a guardarlo. -Perché no? Potrai continuare a fare il dottore, se ti piace, basta che non ti metti a fare stronzate con le rane in casa.-
-O mio Dio, mi stai dicendo che vivremo pure insieme?-
Kidd si passò una mano fra i capelli, sentendosi leggermente in imbarazzo, soprattutto quando Law si nascose il volto con una mano, scuotendo il capo con esasperazione. -Beh, no, insomma, uno al piano di sopra e uno sotto.-
La risata che riempì l’aria lo colse di sorpresa, lasciandolo per un momento senza parole. Era da così tanto tempo che non vedeva quel moccioso rachitico ridere di gusto, senza tensione o preoccupazione che, per qualche attimo, dimenticò ogni dispiacere della sua vita. Si sentì svuotato da ogni peso, libero e a suo agio, quasi come se fossero tornati indietro nel tempo, quando stavano a giocare per ore fuori casa, senza preoccuparsi delle diversità e dei disastri del resto del mondo. Ed era così bello, così confortevole rivivere quei ricordi sulla propria pelle. Law era proprio come una volta: spensierato, un po’ altezzoso e allegro. Rideva come quando portavano a buon fine un loro piano malefico e gli occhi, per la prima volta da quando lo aveva rivisto, erano vivi e non spenti.
-Giuro che sarai sempre così.- parlò ad un tratto Kidd, senza nemmeno frenarsi o preoccuparsi delle conseguenze. Sentiva di dover buttare fuori tutto, ogni pensiero, ogni discorso, ogni frase che aveva tenuto dentro di sé per tutti quegli anni. Gli era stato strappato via il suo migliore amico e non aveva potuto fare nulla per impedirlo, ma non avrebbe più permesso a nessuno di separarli, mai più.
Law smise di ridere, guardandolo stranito e con la testa leggermente inclinata. Eustass-ya era sempre stato così impulsivo e imprevedibile.
-Quando ce ne andremo, ti farò ridere ogni giorno e incazzare oltre ogni maniera. Sarò insopportabile e maledettamente cocciuto e diventerò la tua peggiore piaga. Non ti lascerò nemmeno un secondo di respiro e farò ogni assurdità pur di vederti vivo.- disse il giovane che, troppo presto, era stato costretto a prendere le armi e a crescere, confrontandosi con la dura e cruenta realtà della vita. -Te lo prometto, se usciremo di qui ti pentirai di avermi rivi…-
-Chiudi il becco, Eustass-ya.-
 
*
 
Non si capacitava di come erano finiti lì; ancora faticava a connettere bene tutto quello che era successo ma, quando Law gli cinse i fianchi con le gambe mentre lui lo sollevava e lo spingeva contro la parete, decise di mandare tutto a puttane e godersi quel momento tanto agognato da entrambi.
Aveva smesso di pensare non appena si era ritrovato zittito dalle labbra del medico che, in un gesto quasi disperato, si era avventato su di lui, sovrastandolo in un intricato groviglio di gambe, mentre con le mani gli aveva afferrato il viso per tenerlo fermo e baciarlo con ardore fino a togliergli il fiato. E a Kidd ciò non era dispiaciuto affatto.
Trovare la forza di alzarsi da terra era stato arduo, ma alla fine il freddo aveva avuto il sopravvento e l’idea di restare sull’uscio a scopare non aveva allettato nessuno dei due.
Erano così rientrati nel capanno, chiudendo fuori ogni preoccupazione, le loro differenze e tutti i rischi che con quel gesto stavano correndo. Law lo aveva afferrato per una mano, facendo tornare in mente a Kidd quelle volte che, per trascinarlo via quando erano piccoli, lo prendeva in quel modo tanto innocente quando bello, e lo aveva guidato nella sua stanzetta angusta, munita solo di una brandina e di un cassettone dove mettere quel poco che possedeva.
Fuori era ancora buio e il sole doveva ancora sorgere, perciò avevano tempo, tutto quello che volevano per recuperare quegli anni perduti dovuti alla lontananza.
Ed ecco che finalmente poteva dimenticarsi tutto, chi era, cosa faceva per vivere, quanto aveva sofferto. Poteva essere se stesso, ritornare a quei momenti, gli unici spensierati e felici quando ancora non c’erano discriminazioni e lui poteva gironzolare in compagnia del suo amico senza timore.
E poteva anche abbracciarlo, cosa che, da ragazzino, si era sempre rifiutato di fare, anche perché Trafalgar, quello stronzo, minacciava di amputargli un dito di una mano, se solo si fosse azzardato ad avvicinarsi in quel modo. D’altra parte, pure a Kidd certe smancerie facevano schifo.
Le cose, però, erano cambiate con il passare degli anni e, se prima i due stavano insieme per tenersi compagnia, da quando si erano ritrovati non era più solo per mantenere quella promessa di amicizia che si erano fatti; il cercarsi continuamente, anche solo per scambiarsi un’occhiata fugace o per dirsi qualche insulto quando si vedevano all’ospedale in presenza di altri, non era unicamente per passare il tempo. Volevano assicurarsi ognuno del benessere dell’altro, bisognosi di avere quella certezza di sopravvivenza che per lungo tempo non avevano avuto. Avevano passato così tanto aggrappati ad una debole speranza che, quando quella era stata esaudita, temevano di cadere di nuovo nella solitudine.
Law strinse le gambe e Kidd si avvicinò ancora, facendo cozzare i bacini e strappando un sospiro di piacere che fecero entrambi. Gli abiti di stoffa facilitavano i movimenti, ma le giacche invernali risultavano ingombranti, perciò il rosso provvide, senza tante cerimonie, a togliersi la sua, lasciandola cadere sul pavimento senza grazia, per passare poi a quella del moro, sbottonandola velocemente e sfilandogliela di dosso, facendole fare la stessa fine dell’altra.
Intanto Law, ancora appoggiato alla parete, si occupava della camicia di Kidd, sfilando i bottoni de colletto e proseguendo lungo il torace, aprendola del tutto e poggiando i palmi su quella pelle da sempre chiara, ma calda e resa ancora più bella dal petto ampio e dagli addominali definiti che il proprietario esibiva con fierezza quando poteva. Era sempre stato più alto e più massiccio di lui, Kidd, anche se avevano la stessa età, ma era così diverso dall’ultima volta che lo aveva visto. Non si sarebbe mai immaginato che sarebbe cresciuto tanto, sovrastandolo di parecchi centimetri di altezza, ma non importava. I capelli fulvi e il caratteraccio erano rimasti gli stessi e a lui andava bene.
Si rese conto che anche la sua camicia era scomparsa e che Kidd stava trafficando con la cintura dei suoi pantaloni così, scendendo da lui e ritornando con i piedi per terra per facilitargli il lavoro, si lasciò spogliare senza tante storie, non smettendo un attimo di baciare e mordere quelle labbra impazienti che tante notti aveva sognato di sentire su di sé.
-Via questi.- mormorò il soldato, calciando via anche i suoi di pantaloni, calandoli frettolosamente e allontanandoli.
-Impaziente?- ironizzò Law, sogghignando davanti a quella scena e ricevendo in cambio una spinta che lo diresse verso il letto.
-Non scherzare troppo, Trafalgar.-
-Burbero come sempre, Eustass-ya.-
Kidd riprese a baciarlo, stringendo i suoi capelli con una mano per impedirgli di allontanarsi e circondandogli i fianchi con l’altra, guidandolo fino al materasso per poi lasciarlo scivolarci sopra, seguendolo subito dopo e facendosi spazio tra le sue gambe, strappandogli poi un gemito troppo a lungo trattenuto quando la loro pelle bollente entrò in contatto.
-Ti farò passare quel ghigno dalla facmph…-
-Eustass-ya, parli troppo.-
Kidd avrebbe voluto dargli dell’impaziente, giusto per prendersi una piccola rivincita, ma le mani di Law erano state più svelte della sua lingua e gli stavano facendo provare una sensazione tanto piacevole da scollegarlo dalla realtà. Quel bastardo riusciva sempre ad avere l’ultima parola, oltre che a zittirlo in tutto e per tutto.
Ma andava bene, poteva sopportarlo se ciò significava averlo in quel modo, tutto per lui, prendendo il controllo totale almeno in quel momento e facendolo di conseguenza perdere a Law che, con il capo reclinato all’indietro sul cuscino, si mordeva le labbra per non fare rumore e non dare troppe soddisfazioni a Kidd, anche se lui gongolava già da quando lo aveva sbattuto al muro.
Gli piaceva vedere il moro in quel modo, un po’ imbarazzato per quello che gli stava facendo in quel momento, muovendo le dita dentro di lui per abituarlo; leggermente infastidito per essere stato sovrastato e in parte seccato per non poterlo insultare in maniera colorita.
Però era anche perso, Kidd lo vedeva, lo sentiva. Law si stava lasciando andare, permettendogli di toccarlo, accarezzarlo, stringerlo a sé, morderlo, persino inglobarlo e renderlo una cosa sola con lui. Voleva così tanto sentirlo vicino, assicurarsi che stava bene, che tra le sue braccia era vivo, che, per una volta, poteva smetterla di essere scontroso e regalargli un attimo di pace, baciandolo con passione quando entrò in lui, accogliendo con la sua bocca ogni ansimo, ogni parola sussurrata, ogni morso per l’iniziare bruciore e ogni gemito quando il fastidio lasciò posto al piacere puro.
Era il loro momento, la loro rivincita, e avevano tutta l’intenzione di viverlo fino in fondo.
 
*

 

Auschwitz, Gennaio 1945.

 

-Cos’è questa storia delle truppe sovietiche?-
-Arriveranno ad Auschwitz a breve, forse entro stasera. Domani al più tardi.-
-Significa che…-
-Si. Non morirà più nessuno in questo campo. Saranno tutti liberi.-
 
*
 
-Ce ne andremo, allora? Sono riuscito a tenermi in contatto con il Dottor Chopper. Dice che ha dei contatti in Francia che potrebbero ospitarci.-
-Perfetto.-
-Kidd.-
-Cosa c’è?-
-Tu non verrai, vero?-
-Quando i sovietici arriveranno, esci e allontanati più che puoi da Auschwitz.-
-Perché?-
-Vogliono opporsi. E io non posso tirarmi indietro.-
-Me lo avevi promesso.-
-Lo so. Mi dispiace.-
 
*
 
‘Di fronte all'avanzata dell’Armata Rossa, venne dato l’ordine di cessare le esecuzioni nelle camere a gas e di demolirle assieme ai forni crematori, allo scopo di nascondere le prove del genocidio; i nazisti, tuttavia, distrussero solo le camere e i forni di Birkenau, mentre quelle di Auschwitz furono adibite a rifugio antibomba. Sino a quel momento, ad Auschwitz erano stati uccisi oltre 1 milione e centomila esseri umani.
In totale, furono deportate più di 1 milione e 300 000 persone. 900.000 furono uccise subito al loro arrivo e altre 200.000 morirono a causa di malattie, fame o furono uccise poco dopo il loro arrivo.’
 
*

 

Parigi, Giugno 1945.

 
-Sai, Chopper-ya, se mi avessi avvisato che avrei diviso la casa con dei casi umani come loro, non avrei mai accettato di trasferirmi qui.-
-Oh, avanti, non sono così male.-
-L’unica che si salva è Robin-ya. Gli altri andrebbero tutti rinchiusi in manicomio, soprattutto il piccoletto, Rufy. Quello era un disastro anche… prima.-
-Ammetto che non sarà come vivere in una reggia, ma almeno è casa.-
-Già, almeno è casa.-
 
*
 
-Cappellaio, cos’è quella faccia spaesata?-
-Traffy, c’è qualcuno in strada che ti sta cercando.-
-E’ uno degli infermieri dell’ambulatorio?-
-No, io… No, non credo. Però l’ho già visto.-
-Sarà un paziente. Digli che arrivo subito.-
-E’ quel tizio con i capelli rossi. Quello di Auschwitz.-
 
*
 
-Hai proprio una brutta faccia, Eustass-ya.-
-E tu sei magro da fare schifo.-
-Il braccio?-
-L’ho perso. Non è che per caso ne hai uno di scorta?-
-Forse, ma non te lo darei.-
-Bastardo.-
 
*
 
-Law.-
 
*

 

The End.

 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice.
Okay, forse avrei dovuto postarla a gennaio, l’idea infatti era quella, ma mi ero bloccata alle prime tre pagine e l’ho finita solo oggi, dopo MESI. Bene, mi farei un applauso.
Mentre arrivavo alla fine mi sentivo sempre più uno schifo perché pensavo che fosse stato giusto far morire Kidd, ma, giusto quando mi sembrava tutto perduto, ho dato una svolta alla vita, si dice così no? Dopotutto, qualcuno, alla fine della guerra, ce l’ha avuto un lieto fine. E poi io sono di parte, vorrei che avessero tutti un finale per cui sorridere.
Abbiamo due personaggi differenti, in contesti differenti, e probabilmente li ho resi parecchio sentimentali, ma i campi di concentramento sono un argomento duro e insidioso, perciò ho pensato che sofferenza e amore potessero scontrarsi e affiorare sia in Kidd che in Law.
Detto questo, vi auguro buona giornata e vi mando un abbraccio. Spero che vi piaccia e vi strappi un sorriso sollevato alla fine.
 
See ya,
Ace.
  
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