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Autore: veronika95    04/05/2015    0 recensioni
Mycroft non ha potuto fare niente per evitarlo: Sherlock è ricaduto nel vizio del fumo. Attraverso tutte le sue ultime sigarette viene raccontata la storia del consulente detective e del suo bisogno di dipendenza. Non c'è modo di far desistere Sherlock da questo vizio, ammenochè -beh- ammenochè un reduce di guerra bussi alla porta del laboratorio del Barts e...della sua vita.
[pre-Johnlock] [accenni Mystrade] [pre-inizio serie BBC]
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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AN UNTOLD STORY OF LAST CIGARETTE
 
E fumo 20 sigarette
[…]
E non c'è niente di speciale su nel cielo
Solo un aquilone che resiste al vento gelido
Se a portarlo ero solo io
Come sai non è per sempre, per sempre

Non più.
20 sigarette-Marco Mengoni




Sherlock aveva ricominciato a fumare; Mycroft, memore delle disavventure passate, gli intimava di smettere. Lo assillava, per meglio dire. Sherlock era stanco di sentire le querele del fratello, il tono pacato e fermo con cui lo rimproverava. Non ne poteva davvero più.
Infondo Mycroft che ne sapeva?

Anche il maggiore degli Holmes fumava qualche sporadica sigaretta, ma non aveva nulla a che fare con il fumare di Sherlock.
Sherlock Holmes aveva bisogno di fumare, era una necessità intima ed opprimente. Se non avesse ricominciato almeno a fumare, avrebbe potuto, davvero, ricadere nel tunnel della droga. Certo, questo, a Mycroft, non l’avrebbe mai detto.
Inutile usare elaborati panegirici e perdere la testa in inconcludenti voli pindarici: Sherlock era dipendente. Non aveva nessuna importanza da chi o da cosa lo fosse, la dipendenza era radicata in lui, come quelle erbacce che silenziosamente crescono e si insinuano lasciando crepe sui muri.
Dopo attente e lucide riflessioni, Sherlock aveva deciso che il fumo fosse la cosa meno dannosa per la salute sua e degli altri.

“Dobbiamo trovare un modo per farti smettere, Sherlock”
le parole di Mycroft gli giunsero lontane ed ovattate; non aveva nemmeno fumato la sua prima sigaretta dopo una troppo lunga astinenza che già il fratello si lamentava. Sherlock si rigirò il pacchetto tra le lunghe dita, giocando con l’involucro di plastica e torturando il cartoncino del coperchio; non voleva più sentire nemmeno una parola. Si alzò mentre Mycroft stava ancora parlando ed uscì in giardino.

Quel giorno Londra regalava una giornata frizzante, una fievole brezza galvanizzante ed un sole troppo pallido per scaldare. Sherlock fu quasi felice quando portandosi la sigaretta alla bocca sentì il sapore amaro del filtro e l’odore buono del tabacco. Portò il suo prezioso Dupont, regalatogli anni addietro da Mycroft, vicino alla punta della sigaretta ed ispirò profondamente per accenderla.

Ed ecco che tutto ricominciò. Il suo palazzo mentale lo sbalzò nel retro del Liceo, dove Mycroft l’aveva portato per la sua prima sigaretta.
“Ti ho portato io tra le loro braccia, Sherlock, se l’avessi saputo…” suonerebbe sicuramente così una frase del fratello qualora lo raggiungesse. Mycroft aveva insegnato a Sherlock come fumare, aveva  quindici anni quando iniziò a nascondersi dai professori ed ad addossarsi al muro umido del retro della scuola per non essere scoperto.

Questa nuova prima sigaretta ebbe quasi lo stesso sapore della prima in assoluto. Percepì ancora il sapore del fumo come qualcosa di estraneo nella sua bocca; un sapore unico, deciso ed indescrivibile. Un sapore che urla “Ehi concentrati su di me, solo su di me, senza pensare ad altro.”, libera la mente, spazza via i tanti pensieri, poi scende e brucia la gola, riempie i polmoni. Tossì, perché quelle sigarette erano forti e lui non fumava da anni. Decise di non ingoiare il fumo per le prime boccate e lo guardò divertito salire verso il cielo, contorcendosi in spirali e improvvisando capriole, come un artista da circo.
La sigaretta era consumata per metà, quando dietro di lui sentì la porta aprirsi e Mycroft trascinare i piedi lentamente.
Si fissarono a lungo, i due fratelli; infine il maggiore frugò tra le tasche dell’altro prendendo una sigaretta e fumando insieme a lui. Boccate lente, fiato pesante, arzigogoli di fumo ed un silenzio religioso accompagnarono la prima fumata di Sherlock, e se non fosse stato per qualche ruga in più e qualche capello in meno sul volto di Mycroft, avrebbe avuto davvero la convinzione di essere tornato indietro nel tempo di almeno vent’anni. La cenere consumava la nicotina e dopo poco la sigaretta finì.
Sherlock si fermò a scandagliare i particolari del volto di Mycroft, quel cipiglio preoccupato che non lo abbandonava mai e l’eleganza innata nel portare alla bocca la sigaretta.
Mycroft tossicchiò gettando la sigaretta a terra dopo poche boccate
“Non mi piacciono, sono troppo forti”, Sherlock sorrise
“Fumi ancora come un adolescente, Mycroft”.
Il volto del fratello rimase impassibile; Mycroft, le parole e le emozioni, le lasciava sfrecciare liberamente dietro gli occhi grigio-azzurri impenetrabili; Sherlock a volte riusciva a leggerle. Il maggiore degli Holmes non disse nulla mentre percorreva il viale fatto di ciottoli che attraversa il giardino, solo mentre la porta dietro di lui si chiuse, sussurrò “Troverò una soluzione”, non sapendo nemmeno lui se si riferisse a Sherlock o al fumo.



Passarono i giorni. Sherlock decise di non abusare troppo di quel vizio ritrovato e le sigarette mancanti dal primo pacchetto erano meno di una decina. Stava leggendo il giornale, quando Mycroft entrò in cucina e si sedette di fronte a lui.

“Mi sono ricordato di una cosa.”

“Mycroft, se questo ha a che vedere con il fumo sappi che non ti ascolterò”

“No aspetta, credo possa essere interessante”

Sherlock sospirò annoiato, stropicciò il giornale nel vano tentativo di chiuderlo correttamente e sollevò le gambe dal tavolo ricomponendosi in una posizione più scomoda e rigida che ben si addiceva ai discorsi del fratello.

“Sentiamo, cosa ti saresti ricordato?”

“Beh, quando andavo al liceo, come ben sai, avevo una media molto alta in tutte le materie, così il mio professore di letteratura mi consigliava testi stranieri da leggere in lingua. All’ultimo anno mi fece leggere un romanzo italiano dove, tra le varie cose, il protagonista doveva combattere il vizio del fumo”

“Non mi dire che sei venuto qui a somministrarmi pillole di letteratura?”

“Sherlock potresti tacere almeno per una volta!
La parte interessante è che il protagonista per smettere di fumare, scriveva sempre da qualche parte l’ultima sigaretta prima di fumarne una. Potresti provare, non sembra complicato.”

Sherlock soppesò la proposta, infondo questa idea di Mycroft sembrava migliore di qualsiasi cosa gli avesse propinato in quei giorni.  Lesse negli occhi del fratello tutta la sua determinazione, che si faceva stranamente viva solo quando si parlava di lui, capì che sarebbe stato inutile non accettare. Mycroft non è mai stato uno a cui poter dire di no.

“Non ti prometto nulla, però ci posso provare”

A quelle parole il viso di Mycroft si fece impercettibilmente più rilassato, mentre si lasciava sfuggire un sospiro di sollievo. Il maggiore si alzò per tornare alle sue occupazioni politiche, ma la voce di Sherlock lo fermò sulla porta

“Almeno alla fine il protagonista riesce a smettere?”

Mycroft sorrise sornione, le poche note di innocenza che Sherlock si lasciava sfuggire arrivano sempre allo stomaco, lasciando un insolito peso.

“Questo devi scoprirlo da solo, fratellino; infondo questa è la tua storia”.

Sherlock non avrebbe potuto giurarlo, eppure gli parve quasi di sentire il suono di un timido sorriso dipingere il viso del fratello, mentre si affrettava a lasciare la stanza.




Passò molto tempo prima che Sherlock riuscisse a ricordare la proposta fatta da Mycroft; Sherlock si trovò inspiegabilmente in soggiorno dopo essere uscito improvvisamente dal suo Mind-Palace. Lestrade gli aveva proposto un caso abbastanza complesso ed era sicuro di essere vicino alla soluzione. La testa iniziò a girare vorticosamente per lo sforzo precedentemente fatto. Percepì una strana ebrezza come fosse ubriaco, poco dopo arrivò, invece, un’ondata di nausea potente e destabilizzante, come un dopo sbornia. Sherlock in quel momento non comprese l’esatto motivo, ma mentre una terribile emicrania lo stava quasi accecando, riuscì ad accendere il computer, posto sul tavolino accanto a lui, scrivere un email con la soluzione del caso a Lestrade e successivamente aprire un file di testo e scrivere: l’ultima sigaretta. Poi richiuse energicamente il portatile; si sdraiò sul divano e contemporaneamente si accese una sigaretta.
Il mal di testa passò all’ultima boccata.




Noia. Noia, noia, noia. Una sensazione strana che non tutti conoscono, non tutti comprendono. Un despota, che si infila tra i meandri della mente, e la tiranneggia. Padrona della vita di molti uomini. Monotonia, moviola infinita di azioni e pensieri che non saziano. Noia, noia e ancora noia, come fare per vincerla, come poterla sconfiggere? Noia tramite che porta all’accidia, alla nulla facenza. Tutto è potenzialmente migliore della noia; migliore è perfino il dolore che nasce da essa. Entrare in un ciclo infinito di eventi ripetitivi e non trovare il codice per uscirne. Noia, infinita noia. Riempire le giornate di nulla, abbassare le proprie capacità fino ad azzerarle quando non servono. Noia: avere una Ferrari e poterla guidare solo su strette strade di città. Cosa fare di un cervello così potente, quando serve solamente a respirare? Respirare è così noioso. L’aria che entra nei polmoni sembra essere sempre troppo leggera, troppo facile da convertire e far andare dritta al cervello. Nei giorni di noia occorre qualcosa per rendere il processo di respirazione meno noioso, per calmare le mille osservazioni che sfrecciano nel cervello.

Sherlock si arrovellò il cervello per ore prima di sapere cosa fare; Iniziò a sentire anche una certa sete quando si alzò dopo aver passato lunghe ore sdraiato sul divano. Prese l’accendino e la sigaretta dal cappotto e poi si diresse verso il frigorifero per bere direttamente dal cartone del latte; una smorfia contrariata si dipinse in tutte le piccole rughe del voltò quando lo trovò irrimediabilmente vuoto; decise di arrendersi, la sete non era poi così opprimente in fondo, portando l’accendino alla bocca accese la sigaretta ricordandosi solo in quell’istante il tacito accordo stipulato con il fratello.

Lo scrisse sul cartone vuoto del latte, gettandolo immediatamente nel cestino, -Gesù- perché in quella casa mancava sempre il latte.





Chelmsford capoluogo della contea dell’Essex, 50 chilometri a nordest di Londra, piccola città ricordata per la radio, l’Hylands House, l‘Hylands Park e, probabilmente per il prossimo decennio, il serial killer, che stava terrorizzando la popolazione proprio in quei giorni.

Lestrade, esausto, ci ha trascinato Sherlock di forza, non potendo sopportare che un altra vittima innocente gravasse sulla sua coscienza. Gregory è sempre stato così: candidamente buono, innocente e tanto di cuore da incolpare sé stesso quando le cose a NSY si mettono male. Sherlock questo glielo ha sempre riconosciuto, come ha sempre riconosciuto la lampante stupidità di questo ragionamento. L’apprensione di Gavin non farà certo risolvere il caso, ripeteva.

Lestrade, pragmatico, prenotò due camere attigue nella zona vicina all’ultimo omicidio.

Sherlock uscì dalla doccia, asciugandosi in fretta e frizionandosi i capelli con un altro asciugamano, prese una sigaretta nascosta in valigia prima di uscire sul balcone.
Lestrade era fuori, sul terrazzino accanto al suo, fissando il cellulare in maniera nervosa, probabilmente anche lui aveva bisogno di una boccata d’aria. Gli occhi di Greg volarono prima su Sherlock e poi sulla sigaretta che stringeva tra le dita, la bocca si trasformò in una smorfia di disappunto.

“Dovresti smettere con quella roba”

 Sherlock roteò gli occhi, sfinito da persone che continuavano a dirgli cosa avrebbe dovuto fare.

“Graham anche tu fumi”

“è Greg! comunque io ho smesso già da qualche mese, strano che tu non l’abbia notato”

Sherlock sospirò, buttando fuori tutta l’aria nei polmoni, era ovvio che l’avesse notato e sapeva anche molto bene il motivo del repentino cambiamento del detective riguardo quell'abitudine.

“Stai aspettando che Mycroft ti chiami, vero?”

Vide il viso di Greg cambiare istantaneamente colore e gli occhi saltellare da lui alla ringhiera fino a fermarsi sulle sue stesse scarpe diventate improvvisamente interessanti, si divertiva così tanto a mettere Goefr in imbarazzo e in più lo voleva fuori dai piedi al più presto.

“Oh sta zitt-”
Greg tentò timidamente di rispondere, ma il cellulare che aveva appoggiato sul balcone trillò improvvisamente e Lestrade si affrettò a scorrere il dito sullo schermo per poter rispondere alla telefonata mentre si catapultava dentro la camera.
Mycroft lo stava chiamando; a Sherlock non sfuggì il sorriso che si impresse sul volto di Lestrade, mentre con un gesto della mano lo salutava, e notò anche quell’inconsueto guizzo negli occhi del detective mentre tirava la maniglia della porta finestra. Era irrimediabilmente felice, Lestrade; così come lo era suo fratello da poco tempo a quella parte.

Sherlock per un attimo pensò che quello che quei due avevano sarebbe potuto bastare, che sarebbe bastata anche a lui una persona accanto che lo distraesse dalla noia, che si preoccupasse per lui fin da subito, una persona che lo apprezzasse per quello che davvero era, un sociopatico, sì, ma pur sempre un genio.

Pensò, solo per pochi millesimi di secondo, che se avesse trovato qualcuno da amare, che lo amasse a sua volta, allora avrebbe anche potuto smettere di riempirsi i polmoni di fumo, solo per sentire qualcosa diverso dall’aria. Respirare è noioso. Molto meglio avere qualcosa che grava sui polmoni, che li fa sentire troppo pieni e che ti spinga a buttar fuori ciò che hai dentro. Forse, pensò, che con qualcuno accanto si sarebbe finalmente sentito di appartenere. Appartenere a questo mondo, appartenere a qualcuno in questo mondo; pensò che avrebbe potuto provare ad essere felice come suo fratello.

Ma il freddo dell’Inghilterra era troppo pungente quella notte, l’aria troppo densa e dopo aver cercato freneticamente nella stanza un pennarello, tornò sul balcone e scrisse sulla ringhiera arrugginita -l’ultima sigaretta. Già, forse sarebbe stato più corretto scrivere ultima canna, ma in quel momento non importava. Tutto quello che importava era che lì fuori non c’era nessuno ad aspettare Sherlock, nessun eroe che lo salvasse dal baratro, nessun redentore che lo assolvesse dai suoi peccati, nessun invincibile salvatore, nessun soldato che combattesse la battaglia affianco a lui, nessun “siamo io e te contro il resto del mondo”, ma questo non assumeva molta rilevanza quando tra le mani aveva la sua sigaretta e la promessa che presto si sarebbe sentito stordito, felice e completo.

E quando un quarto d’ora dopo rientrò in camera, sdraiandosi pesantemente a letto, con la testa incredibilmente leggera e fantasiose immagini che si proiettavano vivaci dietro le palpebre ebbe la lancinante consapevolezza che, quella notte, sarebbe stato solo Morfeo a cullarlo nel sonno.

Poi si addormentò facilmente scivolando in sogni senza volti.




Due giorni dopo Sherlock, sedendo in una panchina di un anonimo parco a Londra, inspirò l’aria profondamente, a grandi sorsate. Il vento di Londra spirava gelido spogliando gli alberi dalle ultime foglie. Morse forte il filtro della sigaretta all’altezza della piccola sfera contente l’aroma di menta. Quelle sigarette non gli piacevano molto, la miscela di tabacco era piuttosto scadente, ma il sapore della menta gli rinfrescò gola e polmoni producendo un effetto frizzante.
Sherlock alzò bruscamente gli occhi verso il cielo, per trovarlo dolorosamente vuoto. Non c’era nulla nel cielo. Nulla all’infuori di un aquilone rosso che volteggiava nell’aria cercando in tutti i modi di non cadere rovinosamente, annaspando. Si rivide in quell’aquilone, abbandonato da chissà quale bambino a cause del vento ingestibile, lasciato da solo a fronteggiare impavido le correnti e le ali taglienti degli uccelli che lo volevano abbattere.

Non c’era nulla quel giorno su nel cielo, all’infuori di un ardito aquilone, che resisteva al vento gelido, da solo però non avrebbe potuto farlo per sempre.

Sherlock si decise a rientrare a casa solamente quando ebbe finito l’intero pacchetto di sigarette.

20 sigarette, 20 mozziconi intorno alle scarpe, 20 frasi tutte recanti la stessa scritta, messe nere su bianco su un foglietto di carta lasciato in balia del vento, ed un cuore per nulla alleggerito dalla menta e da quelle venti fumate.




Trascorsero mesi, mesi di criminali arrestati, mesi di assurdi esperimenti nella cucina del fratello, mesi di deduzioni a non finire, mesi di molte ultime sigarette, Sherlock aveva un taccuino riempito solo da quella frase, mesi di Mycroft a lamentarsi e Sherlock ad ignorarlo, mesi di solitudine, mesi di spazi troppo grandi intorno a lui non riempiti dalla presenza di nessuno.

Quella mattina Sherlock si svegliò con un insolito senso di vuoto ad opprimergli il petto ed un nodo di ansia e domande irrisolte a riempirgli la gola.
Si rigirò tra le lenzuola creando inestricabili nodi di coperte ed ingarbugliando le lenzuola.
Quel letto l’aveva praticamente scelto su misura, pochi centimetri a dividere il suo corpo dal bordo del letto. Era stato categorico qualche anno prima mentre sceglieva l’arredamento per la sua camera con Mycroft: “Scegli pure tutto quello che preferisci, ma niente letto matrimoniale, compra il più stretto possibile.”
Eppure non c’era modo di spiegare come quella mattina il letto gli fosse sembrato disperatamente troppo grande. Sherlock, è vero, era un tipo solitario, proprio come il fratello; trovava la compagnia delle persone inutile e superflua, era perfettamente a suo agio nel vestito di solitudine che si era cucito addosso.
Ma davvero non seppe mai perché quella mattina i pochi centimetri che lo dividevano da una rovinosa caduta sul pavimento sembrarono chilometri che nessun essere umano del pianeta avrebbe mai potuto colmare.

Non c’era altra soluzione, se non accendersi una sigaretta.

Sherlock allungò pigramente le mani verso il comodino, fino a far scontare le nocche contro l’involucro del pacchetto. Si alzò un po’ facendo collidere la cervicale con la testiera del letto. Afferrò l’accendino e con un angolo appuntito di esso incise sul legno del comodino la solita frase inefficace. Depositò in quel gesto tutta la rabbia, tutta la desolazione di sentirsi inadatto, compì quest’atto estremo, disperato e lo trovò ancor più rilassante del fumare stesso. Una volta terminato portò la fiammella alla bocca ed inspirò, il calore stuzzicò i riccioli che ricadevano sulla fronte pregni di sudore.

Non fece caso alla cenere che cadeva tra le lenzuola producendo piccoli buchi sparsi.

Mycroft, più tardi, l’avrebbe sicuramente ucciso.




Poco dopo Sherlock si ritrovò a gironzolare per Londra senza una meta precisa, nelle mani il nuovo pacchetto di sigarette ancora avvolto nel suo involucro di nylon.
Sherlock per una volta non avvertì l’impellente necessità di fumare, ma decise che poteva comunque essere una buona idea avere qualcosa tra le labbra mentre fingeva di mescolarsi tra la folla.
Aprendo il pacchetto a Sherlock venne in mente uno stupido aneddoto che Mycroft gli aveva raccontato durante l’adolescenza, un rituale che tutti i fumatori più esperti conoscono; si dice che girare sottosopra la prima sigaretta del pacchetto e fumarla per ultima porti fortuna. Sherlock non aveva mai creduto ad una tale sciocchezza, ciò nonostante le sue mani si mossero come dotate di vita propria, compiendo quel gesto in maniera automatica ed in modo totalmente indipendente dalla sua volontà.
Un’altra sigaretta sfrigolò nell’accendersi e Sherlock con inaspettata disinvoltura rubò penna e bloc-notes di un cameriere lì vicino solo per appuntare quella frase e restituirglielo subito dopo.

Il cameriere si guardò attorno spaesato, ripetendo a se stesso di aggiungere questa alla lista delle stranezze viste fino ad allora.

Uno spettatore attento tra la folla venne investito dalla consapevolezza che a quell’uomo alto, dagli occhi di un colore indefinibile ed un cappotto svolazzante, che si stava allontanando da un pub, non bastava certo una sigaretta tra le labbra per fingersi qualcosa di diverso; lo spettatore pensò che sarebbe stato divertente scrivere una storia su quel bizzarro tipo e il suo vizio del fumo.

Sherlock camminò per molto, sapendo perfettamente che, affidare la propria buona sorte ad un pacchetto di sigarette e ad un rito scaramantico trito e ritrito, fosse davvero qualcosa di molto -molto- stupido.





Sherlock è sempre stato un ragazzo riservato, uno dai pochi segreti che, però, non avrebbe mai raccontato a nessuno; è sempre stato un ragazzo dalla vita monotona, se si escludono gli inseguimenti ai criminali per tutta Londra e le sparatorie per le vie della città. Non ha mai avuto una fiamma di cui poter raccontare o qualsiasi altro avvenimento su  cui, secondo lui, valesse la pena proferire con qualcuno. Bisogna ammettere, altresì, che il litigio con Mycroft del giorno prima era davvero degno di nota, una lite che sarebbe interessante da raccontare e da essere ascoltata. Sherlock, però, non è esattamente il tipo di persona circondata da amici con cui spettegolare sui fatti propri e, ad essere totalmente onesti, nemmeno vorrebbe essere quel tipo di persona.

Sherlock ha impiegato una vita intera a costruirsi un mondo diverso da quello esterno, che gli calza a pennello; una fortezza di silenzi e solitudine in cui si sente perfettamente a suo agio; una roccaforte che vede come la personale prigione di libertà senza sbarre, dove vorrebbe che nessuno mai riuscisse ad entrare; Sherlock non permette mai che il ponte levatoio del castello del suo mondo interno si abbassi per far entrare qualcuno dal mondo esterno. Tuttavia ci sono state diverse persone capace di entrarvi comunque, sebbene siano stati rinforzati i lucchetti ed alzate le barricate.
Da primo c’è Mycroft la cui presenza, Sherlock ne è convinto, c’è sempre stata, per quanto scomoda, ingombrante e -assolutamente- non voluta, è una costante nella sua vita; poi c’è Lestrade che non solo negli ultimi tempi sembra essere entrato a far parte della famiglia, ma che è un uomo intelligente -e Sherlock davvero preferirebbe essere torturato in Siberia piuttosto di ammetterlo- ma a NSY è il migliore, l’unico con un briciolo di intelligenza e umiltà da ammettere di aver bisogno, da preferire essere ritenuto un inetto piuttosto di veder stroncate altre vite dall’assassino di turno; inoltre ci sono Molly, la patologa del Barts, e la signora Hudson, la proprietaria di quell’appartamento in Baker Street su cui ha messo gli occhi sta mattina, che, con il loro modo di preoccuparsi e il sorvolare sul suo continuo essere così indisponente, fanno partire moti d’affetto che Sherlock proprio non credeva di possedere. Infine c’è Mike Stamford, non un amico, perché - beh- perché Sherlock non ha amici, ma un conoscente, un uomo davvero particolare. Mike ha la faccia e l’innocenza di un bambino grande, mai cresciuto veramente ed è un uomo così vero e semplice che Sherlock non riesce nemmeno ad essere sarcastico con lui. Mike è una brava persona, forse è anche molto più di questo, Sherlock l’ha capito quando gli occhi del medico non si sono riempiti di disprezzo dopo il loro primo scambio di battute e le sue mani non sembravano prudere nel tentativo di trattenersi dal picchiarlo, l’ha capito dagli sforzi dell’altro nel tentativo di conoscerlo e dal suo premurarsi nel cercare di comprenderlo. è un uomo buono, Mike, ed ha due tondi, per occhi, sempre allegri che si accigliano appena quando percepisce che qualcosa non va.

Così quel giorno sono due le cose che non si sarebbe mai aspettato accadessero.
 
La prima avviene di mattina, mentre le palpebre sono ancora appesantite dal sonno e la mano trema un po’ sotto una tazza dove ribolle del caffè nero, Mike gli si avvicina sorridente, la fronte gli si corruga sotto la giuntura degli occhiali e senza pensarci troppo chiede

“Qualcosa non va, Sherlock?”

e Sherlock davvero non avrebbe voluto rispondere, non avrebbe voluto alzare gli occhi dal vetrino sotto il microscopio e avrebbe voluto sbuffare scocciato per tutta quell’invadenza, ma quando i suoi occhi si scontrarono casualmente con quelli di Mike così chiari, sereni e pieni di fiducia, semplicemente inizia a parlare e raccontare tutto. Spiega ogni cosa, non nel modo di una quattordicenne ad un pigiama party, ma con poche parole concise e dettagliate senza lasciar trasparire i suoi stati d’animo, lascia spazio solo ai fatti: ha litigato con Mycroft, ancora, ma questa volta è davvero troppo, vuole lasciare casa ed andare a vivere da solo in un appartamento senza pretese.

“Rimarrai qui a Londra?”

“Non sono sicuro di potermelo permettere”

“Ma non andresti in nessun altro posto, tu e Londra siete come un connubio indissolubile”
“Mycroft non può darti una mano?”

“Si certo come no, dopo la bella litigata di ieri”

“Beh potresti cercare un coinquilino, ad esempio”

“Oh andiamo Mike, chi mi accetterebbe?”

“Già sarà difficile per te trovare un coinquilino”

Mike non dice altro, si limita a scrutare l’alto ragazzo, che ha accanto, dietro gli occhiali tondi che gli incorniciano il viso e gli donano quell’aria buffa e spensierata.
Non dice nulla, ma Sherlock sa la tacita promessa che gli sta facendo. Non capisce questo gesto buono e senza secondi fini, perché alcune cose per Sherlock sono inspiegabili, così come altre per lui sono ovvie mentre per tutti gli altri no.
Sherlock si alza dallo sgabello del laboratorio e se ne va facendo fare una piroetta al cappotto.

Deve procurarsi un frustino, ha assoluto bisogno di sapere che tipo di ematomi si formano  nei primi 20 minuti dal momento della morte.



La seconda cosa che lo lascia basito accade subito dopo pranzo, ed entra in laboratorio insieme a Mike Stamford.

Accade tutto in pochissimi minuti, un incontro fortuito che, Sherlock lo ha già capito, gli potrebbe cambiare la vita. Il consulente detective è concentrato, fissa i vetrini nel microscopio, poi quando la porta si apre i suoi occhi si scontrano con altri, blu come i suoi e allo stesso tempo un blu totalmente diverso, blu come il mare d’inverno e blu come il cielo quando il sole viene inghiottito dalla terra e le stelle devono ancora comparire nel firmamento e si scorgono solo Venere e qualche aereo appena decollato brillare lontani.

Basta uno sguardo fugace per sapere molto su quell’uomo, anche molto più di quello che quest’ultimo sa di se stesso: il suo disturbo psicosomatico, ad esempio. Sherlock crede che se questo John Watson si trasferisse con lui allora potrebbe dimostrare che non ha davvero bisogno del bastone per camminare.

Sembra un tipo affascinante, John Watson. Sa riconoscere un genio, ma non si fa impressionare facilmente e, che Sherlock sia dannato, se non cerca di fare di tutto per impressionarlo.

Rimane sul vago e cerca di fare il misterioso, tenta di instaurare in John Watson quel brivido dovuto all’ignoto, lascia gocciolare piccole stille di curiosità in maniera tale da poterlo rivedere di nuovo.

Ha provato qualcosa quando i suoi occhi si sono allacciati a quelli dell’altro. Un qualcosa che non ha idea di cosa sia, interesse, curiosità, colpo di fulmine, davvero non gli interessa classificare cosa sia. Il punto è provare qualcosa, sentirsi vivo, sentirsi importante attraverso le iridi di un’altra persona.

C’è questa tensione che da subito si instaura tra i due e -Gesù- Mike potrebbe anche togliersi quel sorriso ammiccante dalla bocca, ma Sherlock ora proprio non può rimproverargli nulla.

“Il mio nome è Sherlock Holmes e l’indirizzo è il 221 B di Baker Street, buonasera”

Sherlock lascia la stanza, facendo si che la porta oscilli avanti indietro.
Quando si trova in strada, afferra il pacchetto di sigarette e subito dopo alza il colletto del cappotto per proteggersi dal freddo.

Quando apre il pacchetto si ritrova irrimediabilmente a sorridere.

L’ultima sigaretta, quella con il filtro girato all’ingiù fa capolino solitaria tra la carta argentata.

Chi l’avrebbe mai detto che affidare la propria sorte al fumo sarebbe potuto rivelarsi così proficuo.

Sherlock sa perfettamente che è sciocco credere che uno stupido gesto scaramantico abbia potuto fargli conoscere la persona più interessante mai incontrata in tutta la sua vita, ma non crede nemmeno alle coincidenze, l’universo raramente è così pigro.

Allora Sherlock si aggira per Londra un po’ confuso e spiazzato da quell’incontro, con solamente due certezze.

John Watson domani tornerà a visitare l’appartamento, l’ha letto nei suoi occhi chiari, la bramosia di tornare sul campo di battaglia ed un morboso interesse riflesso anche nei suoi.

Questa sarà l’ultima sigaretta, spera, per un periodo molto lungo di tempo.

Questa volta non ha bisogno di scriverlo da nessuna parte.

Sa, mentre la cenere consuma il tabacco, che sta fumando l’ultima sigaretta.


 
Your love's like one last cigarette
Last cigarette, I will savor it
The last cigarette
Take it in and hold your breath, hope it never ends
But when it's gone, it's gone
One last cigarette, last cigarette
One I can't forget, the last cigarette

Last Cigarette-Bon Jovi
   
 
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