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Autore: ninety nine    04/05/2015    4 recensioni
[POST EPILOGO, Peeta, Mr Mellark e Bimbo Mellark, What If (Mr. Mellark resta vivo nel bombardamento)]
Io ti ho scelto tra i tuoi fratelli. Ti ho cresciuto come mio successore, come colui che mi avrebbe sostituito dietro a quel bancone sporco di farina. Ho provato a trasmetterti ogni cosa: l'amore per il mio mestiere in primis, poi ogni trucco e ogni consiglio. So che li hai assimilati, ti ho visto muoverti nella panetteria con sicurezza e passione e so che ho compiuto la scelta giusta.
Vedo nei tuoi occhi che hai tutte le capacità per essere l'erede che ho sempre voluto.
Voglio dirti grazie, Peeta, per essere stato un bravo figlio, nonostante non avessi dei bravi genitori. So che tu sei anche un bravo genitore, perché ho notato che cresci i tuoi figli con tutto l'amore che non hai ricevuto da noi.
Ma voglio chiederti una cosa, Peeta. Osserva i tuoi piccoli e decidi quale può essere il tuo, di erede. Io ho scelto te, tu scegli uno dei due. Non voglio che tu faccia preferenza, devi amarli entrambi allo stesso modo, ma uno dei due sarà più simile a te. Ecco, quello sarà il tuo erede.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Bimbo Mellark, Mr. Mellark, Peeta Mellark
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Un uomo biondo è seduto su una sedia nel corridoio del nuovo ospedale costruito nel Distretto Dodici, lo stesso in cui ha lavorato per anni la madre della sua attuale moglie.

Le dita del quarantenne sono ancora sporche di farina e ha le mani intrecciate in grembo, sopra al grembiule da panettiere che gli copre le gambe fino alle ginocchia.

Ha lasciato il negozio non appena ha sentito che suo padre aveva avuto un problema ed è corso all'ospedale senza pensarci due volte, sperando che la moglie tornasse presto dal giro nei boschi che continuava a fare ogni mattina, nonostante ormai fossero passati anni da quando aveva la necessità di farlo per sopravvivere.

Il suo piede ora batte sul pavimento dell'ospedale provocando una serie di suoni che gli fanno nascere nel cuore dei ricordi, apparentemente slegati fra di loro.

 

Toc

 

Peeta ha quattro anni e suo padre gli pone davanti una teglia di biscotti, invitandolo a giocare con le glasse colorate che tiene in mano e che gli porge, ma lui sorride malandrino, afferra un biscotto e se lo caccia in bocca tutto intero, sbriciolando il bancone della panetteria e masticando grossolanamente.

Suo padre lo guarda con occhi fintamente sconsolati, ma il bambino sa che non è vero, perché gli vuole bene.

Il piccolo si mette a tossire rumorosamente perché qualche briciola gli è andata di traverso e prontamente Joshua* gli batte una mano sulla schiena.

Quando il figlio smette di tossire, lo guarda sorridendo e gli da un buffetto sulla guancia.

-Non diventerai mai il mio erede, così- gli dice sorridendo -I Mellark preparano, non mangiano!- continua.

Il bambino pensa a quella nuova parola: erede.

Gli fa venire in mente un re, con la sua corona, come quelli che ci sono nelle fiabe che piacciono tanto alla sua amica Delly.

Chissà cosa centrano i re con la panetteria...

 

 

Toc

 

Peeta ora ha sei anni e ha glassato il suo primo biscotto.

Suo padre lo aiuta a far sì che la crema zuccherata non scivoli dai bordi, poi posa la sac-a-poche e lo guarda sorridendo con fierezza.

Gli scompiglia il ciuffo biondo che tende a cadere sugli occhi azzurri, poi gli poggia le mani sulle spalle.

-Ora sei il mio erede, Peeta Mellark. Diventerai un panettiere bravo come il tuo papà!-

Sorride mentre lo dice, ma il bambino percepisce una vena particolare nella sua voce, come di orgoglio.

Era sufficiente glassare un biscotto per diventare un erede?

Se fosse stato così, allora lui sarebbe potuto diventare anche re, un giorno!

 

 

Toc

 

L'uomo si concentra per arginare quei ricordi, che nel contesto in cui ritornano alla luce gli fanno male al cuore.

Spera che la porta si apra e che un'infermiera esca ad annunciare che può finalmente entrare da suo padre.

Non pensa, Peeta, che potrebbe già essere morto. Cerca di evitare pensieri di quel tipo il più possibile, perché non vuole arrendersi al dolore.

Chissà cos'ha provato Katniss, che ha perso il padre quand'era poco più che una bambina. Ora inizia a capire come mai quell'evento abbia segnato così nel profondo la giovane per tutta l'adolescenza e l'età adulta.

Chissà se anche Ace* Everdeen chiamava la figlia con un soprannome come il suo ''Erede''.

In tanti anni di matrimonio, non gliel'ha mai chiesto, ma Peeta dubita che sia così. Sicuramente, l'appellativo non era erede.

Non gli sembra un nomignolo per una famiglia del Giacimento, dove non c'era nulla da ereditare se non una lampada da minatore già troppo consunta.

Quel semplice soprannome era, ed è, una cosa soltanto propria, propria e di Joshua Mellark.

Quel padre che ora è sdraiato in un letto dietro alla porta che ha davanti e che non vuole saperne di aprirsi.

La scarpa batte ancora una volta sul pavimento, liberando altri ricordi.

 

 

Toc

 

Peeta ha dieci anni e sta litigando con suo fratello maggiore.

Non ricorda il perché, ma sa solo che suo fratello ha torto, ma è più grande, è più forte, e quindi sua madre ha dato ragione a lui.

Il ragazzino stringe i pugni e poggia la schiena contro il muro della panetteria, rimasta deserta per qualche minuto.

Suo padre entra, lo guarda e gli si avvicina lentamente.

Non gli chiede cosa sia accaduto, ma gli stringe una spalla, lo guarda negli occhi amareggiati e gli indica il bancone del negozio, sporco di farina.

Il figlio si avvia verso il piano di lavoro e il padre poggia un pezzo di pasta su di esso, guidando le mani del figlio a impastare e modellare il tipo più complesso di pane che vendono nel negozio.

L'amarezza svanisce dagli occhi del più piccolo dei Mellark, sostituita da una profonda passione velata da una scintilla di sfida.

Joshua si ferma e osserva attentamente quegli occhi, parlando tra sè e sè.

-Questa è la scintilla che avrei sognato di vedere negli occhi del mio erede.-

Peeta sente, ma non commenta e seppellisce quelle parole in un angolo del suo cuore.

Sono parole che parlano di una speciale empatia tra lui e suo papà, che lo fanno sentire importante e compreso. Parole che suo padre dedica solo a lui e a nessun altro.

Le cinque lettere della parola erede gli rimbalzano a lungo in testa, soprattutto nei momenti in cui è arrabbiato o triste. Quelle cinque lettere gli ricordano che lui ha un obiettivo nella vita, che può diventare qualcuno, che può, deve e vuole ereditare la panetteria di suo padre.

 

 

 

La porta si apre con un cigolio e Peeta solleva gli occhi, che nascondono un muto interrogativo verso l'infermiera che ne è uscita.

-Come va?- domanda, temendo già la risposta.

La donna osserva a lungo l'uomo, come per accertarsi che chi ha davanti sia veramente il figlio dell'anziano ricoverato e fa attenzione a calibrare le parole e il tono della voce, quando parla.

-Sue padre chiamava qualcuno erede, in famiglia, e ora dice di voler vedere soltanto quest'uomo. Era lei, signor Mellark?-

Peeta sbatte gli occhi, stupito. Non credeva che suo padre si ricordasse di quel soprannome che dopo i suoi Hunger Games non era più uscito dalle sue labbra.

L'infermiera deve vederlo sconvolto, perché gli si avvicina come se fosse pronta ad intervenire in caso di bisogno.

Il biondo annuisce in risposta alla domanda posta in precedenza e la ragazza sembra sollevata.

Gli fa un cenno con la mano verso la porta e parla.

-Continua a chiedere di lei. Prego, venga.-

Il panettiere si alza dalla sedia bianca su cui è seduto e fa un paio di passi verso quella porta che ha tento desiderato che si aprisse, sentendo dentro di sè una profonda incertezza.

Sente le scarpe che risuonano nel corridoio vuoto e un altro ricordo si fa strada nella sua mente.

 

 

 

Ha sedici anni ed è stato appena estratto per partecipare agli Hunger Games.

O meglio, per andare a morire, secondo il suo parere e anche secondo quello di sua madre, che ha appena lasciato la stanza dopo i saluti che non hanno fatto altro che lasciare al ragazzo l'amaro in bocca.

Ora è seduto sul divano in velluto della stanza del Palazzo di Giustizia e si chiede come mai suo padre non sia venuto, quando la porta si apre e lui compare, trafelato, con un pacchetto di biscotti in mano.

Peeta si alza improvvisamente, come se volesse correre verso di lui ma allo stesso tempo fosse restio a farlo.

Padre e figlio rimangono così, in piedi l'uno davanti all'altro, senza sapere cosa dirsi. Le parole con cui il giovane è sempre stato bravo sembrano inutili, in quel contesto.

Alla fine è Joshua che rompe il silenzio.

Rimanendo in piedi, lascia che le parole risuonino per la stanza.

-Alla panetteria serve il suo erede, Peeta. Torna.-

Il ragazzo lo guarda, senza capire perché si illuda in qual modo. Sa benissimo che non ha alcuna possibilità di farcela contro i Favoriti e contro Katniss.

Katniss, che gli piace da quando ha sei anni. Katniss e la sua bravura con l'arco, la sua forza, il suo coraggio.

-Ci sono i miei fratelli, papà.- sussurra il giovane.

L'uomo gli si avvicina e gli pone in grembo i biscotti.

-Il futuro capo panetteria sei tu, figlio mio, mio erede.- dice.

Poi, si volte ed esce dalla porta, nascondendo gli occhi lucidi e il ragazzo rimane lì, con i pugni chiusi e una lacrima che scivola lungo la guancia, perché suo padre crede in lui.

Nonostante stia andando a morire, lui lo considera ancora il suo erede.

 

 

 

La porta si apre cigolando sulla stanza d'ospedale.

Peeta entra al seguito dell'infermiera, sentendo dentro di sè paura per ciò che vi vedrà.

Individua subito il letto con le coperte bianche in cui è sdraiato suo padre e gli si stringe il cuore.

L'infermiera lo invita con un colpetto sulla spalla ad avvicinarsi e l'uomo esegue.

Si avvicina al letto e prende la mano dell'anziano fra le sue.

-Papà...- sussurra, come se stesse parlando con il figlioletto addormentato.

Joshua solleva gli occhi sul figlio e sorride, tendendo le labbra secche.

-Ciao, mio erede.-

La sua voce suona roca, così diversa da quando quelle parole venivano dette al Peeta bambino, eppure per l'uomo non è poi così diverso.

Il più giovane dei due è contento che suo padre riporti alla luce quel soprannome, che è stato un filo che li ha legati per tutta l'infanzia.

Sente gli occhi che si illucidiscono, ma non vuole piangere. Dovrebbe mostrarsi forte per suo padre, eppure fa fatica, perché vedere l'uomo che è stato fino all'ultimo in piedi dietro al bancone della panetteria ad aiutarlo e a dargli consigli, ogni giorno come se fosse ancora un bambino, sdraiato in quel letto con la morte a fianco gli fa male al cuore.

Odia sentire quella parole, erede, fuoriuscire dalle sue labbra con fatica e non con la naturale leggerezza di trenta o quarant'anni prima.

Il padre gli stringe la mano, quasi a voler richiamare la sua attenzione.

-Peeta, ascoltami, per favore.-

Il quarantenne si volta e annuisce, piano.

-So che il tempo stringe, ormai - continua l'anziano.

Il figlio prova ad interromperlo, forse per rassicurarlo, Ma l'uomo continua.

-Non mi dire che non è così, perché lo so. Mio padre mi ha insegnato a guardare in faccia la realtà, anche quando fa male. Mi chiamava erede, poiché aveva capito che tra tutti i suoi figli ero quello che capivo meglio il suo mestiere di panettiere e che avrei potuto portare avanti il negozio, quando lui non ci sarebbe stato più.

Mi voleva bene, anche se non sempre lo dava a vedere.

So di essere stato duro con te, a volte, ma voglio che tu sappia che ti ho sempre amato, Peeta, e che ti amava anche tua madre.-

Peeta cerca ancora di parlare, vuole dirgli che lo ha sempre saputo che gli volevano bene, che non deve scusarsi perché sa quanto è difficile sopravvivere al Distretto se si dona affetto, ma il padre non lo lascia.

-Lasciami finire, Peeta, per favore. Io ti ho scelto tra i tuoi fratelli. Ti ho cresciuto come mio successore, come colui che mi avrebbe sostituito dietro a quel bancone sporco di farina. Ho provato a trasmetterti ogni cosa: l'amore per il mio mestiere in primis, poi ogni trucco e ogni consiglio. So che li hai assimilati, ti ho visto muoverti nella panetteria con sicurezza e passione e so che ho compiuto la scelta giusta.

Vedo nei tuoi occhi che hai tutte le capacità per essere l'erede che ho sempre voluto.

Voglio dirti grazie, Peeta, per essere stato un bravo figlio, nonostante non avessi dei bravi genitori. So che tu sei anche un bravo genitore, perché ho notato che cresci i tuoi figli con tutto l'amore che non hai ricevuto da noi.

Ma voglio chiederti una cosa, Peeta. Osserva i tuoi piccoli e decidi quale può essere il tuo, di erede. Io ho scelto te, tu scegli uno dei due. Non voglio che tu faccia preferenza, devi amarli entrambi allo stesso modo come dovrebbe fare un buon padre, ma uno dei due sarà più simile a te e uno più simile a Katniss. Cerca di capirlo, Peeta, perché è vero che il mondo è cambiato, ma la panetteria non deve rimanere senza un erede.

È della nostra famiglia da generazione e io vorrei davvero che lo rimanesse.

Me lo prometti?-

Gli occhi di Peeta sono pieni di lacrime e una di esse scivola sulla sua guancia.

Ogni parola di quel discorso si è impressa a fuoco nel suo cuore e brucia. Brucia di affetto paterno, di dolore, di rimpianto per i momenti in cui non ha capito suo padre fino in fondo, per il tempo perso che ormai sta finendo.

-Te lo prometto, papà. -

L'anziano annuisce, sorridendo soddisfatto.

Nei suoi occhi stanchi brilla una scintilla di affetto.

-Sei un grand'uomo e un gran figlio e io sono fiero di essere tuo padre.

Ricordati sempre che ti voglio bene e che te ne ho sempre voluto, mio erede.-

Peeta poggia una mano tra i capelli bianchi del padre, mentre con l'altra gli tiene la mano, che Joshua continua a stringere, ma sempre più piano.

Il quarantenne sa cosa significa e vorrebbe voltarsi, raggomitolarsi contro il muro e scoppiare a piangere perché l'unica persona della sua famiglia che lo aveva capito veramente, che gli aveva voluto bene a modo suo, tanto da renderlo suo erede, che l'aveva cresciuto e gli aveva insegnato gran parte delle cose che sapeva se ne stava andando senza possibilità di ritorno, ma rimane lì, immobile, con una mano stretta in quella di suo padre e l'altra poggiata sulla sua testa, in un ultimo atto di affetto.

Quando la mano dell'anziano si abbandona completamente tra le sue, le lacrime ormai scorrono abbondanti sulle guance dell'uomo.

-Anche io ti voglio bene, papà- sussurra alla stanza in penombra, prima di voltarsi e lasciarlo nel silenzio del suo riposo, nel buio di quella stanza ancora piena di parole di amore paterno.

 

 

 

Alcuni giorni dopo

 

-Papà?-

Peeta è seduto a gambe incrociate nel Prato e sta pensando alla parole di suo padre, al fatto che uno dei suoi figli sarebbe dovuto diventare il suo erede, quando il più piccolo dei due arriva a reclamare la sua attenzione al ritorno da scuola.

Gale Benjamin Mellark ha appena compiuto i sette anni e nei suoi occhi grigi brilla perennemente una scintilla curiosa, soprattutto quando si tratta di qualunque cosa riguardi il pane, o il papà.

Osservandolo, Peeta si ritrova sempre a pensare a quanto sia diverso dall'uomo da cui ha preso il primo nome e a quanto invece sia realmente simile a lui.

Aveva ragione suo padre, se la piccola Prim è la fotocopia della sua Katniss, il minore è davvero uguale a lui.

-Cosa c'è, Ben?- domanda al figlio, invitandolo a sedersi sulle sue ginocchia.

L'uomo ha sempre preferito il secondo nome, spesso contratto nel breve soprannome, per chiamare il figlio.

Il nome di Gale gli riporta alla mente troppi ricordi, spesso negativi, legati alla sua giovinezza.

-Ma dov'è ora il nonno?-

Gli occhi del bambino sono lucidi, anche se si vede che non vuole piangere a tutti i costi.

Quelle poche parole colpiscono Peeta come un pugno nello stomaco, perché anche lui nelle ultime mattine, in panetteria, ha spesso alzato gli occhi convinto di trovare Joshua seduto su una sedia accanto a lui.

-Perché mi manca, sai papà?- bofonchia il piccolo, come se avesse paura di farsi sentire da troppe persone.

Sembra più grande dei suoi sette anni, ma i suoi atteggiamenti rivelano l'età che ha. Anche ora, si sta mordicchiando un labbro, come fa ogni volta che è sovrappensiero e come faceva anche suo nonno per gli stessi motivi.

-Sei proprio un ometto, sai? Un suo degno erede.-

Peeta mette enfasi su quell'ultima parola, come per sottolinearne l'importanza, ma aggira la domanda del figlio, perché non sa come spiegargli che suo nonno è morto.

E' morto.

Il bambino si gira e lo guarda intensamente.

-Cosa è un erede, papà?-

Peeta gli scompiglia ancora il ciuffo biondo che gli ricade davanti agli occhi e lo fa sedere più comodo in braccio a lui.

-Stai diventando pesante, lo sai, erede?-

Piano piano lo poggia a terra e gli pone una mano su una spalla.

-Questa è una lunga storia, Ben. Una storia che si tramanda di padre in figlio, da molte generazioni. Io ero un po' più piccolo di te quando ho sentito questa parola la prima volta, ma mi ha accompagnato per tutta la mia crescita. E' una cosa importante, per noi Mellark.-

Se n'è appena reso conto, eppure sa che è davvero così importante. Dopotutto, se lo era per suo padre e per suo nonno, dovrà esserlo anche per lui e per suo figlio.

-Sei pronto ad ascoltarla tutta, mio erede?-

 

 

 

 

Buonasera gente!

Grazie a tutti quelli che hanno letto questa storia che, lo ammetto, mi spaventa. Mi spaventa perché è la prima che incentro su un personaggio che non mi piace particolarmente della saga, ovvero Peeta. Ebbene sì, non fucilatemi ma Peeta non mi va a genio!

Comunque, ho scritto questa storia per il contest ''Tempo di...Tag! Thir Edition'' di Ili91 sul forum di EFP e il prompt che mi è capitato (ovvero erede) mi ispirava troppo questa storia, così ho deciso di lanciarmi.

Ho inteso il rapporto di erede come quello tra padre e figlio, ma anche tra panettiere e panettiere, distaccandomi un po' dall'idea di erede o come erede al trono (a cui accenno appena), oppure come erede di un'eredità (mi sto ingarbugliando nelle parole XD)...diciamo che si tratta sì di un'eredità, ma sia materiale (il negozio) che morale ed affettiva.

L'ultima scena che ho inserito mi serviva un po' a riprendere l'idea di continuità di questo rapporto padre-erede e per indicare la collocazione nel tempo post epilogo, quindi circa sei anni dopo, a grandi linee!

Di asterischino * questa volta ce n'è uno solo e mi serve per i nomi: Joshua è il nome di Mr. Mellark, già sentito in entrambe le versioni di Happy New Orange Years (il link va alla più nuova), mentre Ace è quello dell'uomo di casa Everdeen, così chiamato in Dodici Mesi Al Distretto Dodici.

Nei flashback presenti in questa storia Peeta ha quattro, sei, dieci e sedici anni, come specificato, mentre nelle parti non flashback ne ha quaranta, circa. Ho immaginato che suo padre possa averne di conseguenza circa ottanta, calcolando che Peeta è l'ultimo dei fratelli.

Nulla, spero che la storia vi piaccia, al solito se mi lasciate un commento vi lancio pasticcini! ^^

A presto k_j

PS: Prestavolto di Mr Mellark nel banner: Robert Redfort

  
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