~~Un’altra grigia giornata londinese volgeva ormai al termine.
Guardavo pensierosa le persone che passeggiavano lungo il fiume quando notai un ragazzo appoggiato sui gomiti al muretto di pietra, guardava scorrere l’acqua scura del Tamigi con aria assente. Non poteva avere più di diciannove anni e portava abiti chiari, a differenza dei suoi capelli che erano neri come l’ebano. Era sorprendentemente alto e magro. Il capo reclinato suggeriva una malinconia che mi colpì. D’un tratto le sue spalle furono scosse dai singhiozzi, si girò e scivolò a terra, il viso tra le mani, tentando di trattenere le lacrime che però continuavano a scendere a fiotti, inondandogli le guance. Era così palesemente disperato, così sopraffatto dal dolore che avrei voluto andare da lui, parlargli, aiutarlo, fare qualcosa, ma fui preceduta da una giovane donna dai lunghi capelli bruni. Doveva conoscerlo perché gli si inginocchiò accanto e sussurrò quello che doveva essere il suo nome: ”Magnus…” Lui alzò il viso e ciò che vidi mi mozzò il respiro: i suoi occhi dal taglio orientale erano di un verde-oro brillante, le pupille verticali come quelle di un gatto, ma la cosa più impressionante di quegli occhi chiaramente non umani era lo sguardo, così profondo da sembrare antico di centinaia di anni, acceso da un dolore inimmaginabile, che sembrava squarciarlo in due. Si buttò tra le braccia di lei, che lo strinse, come una sorella, come una madre.
“grazie per essere venuta.”
Non potevo abbandonarti.
Non ora.”