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Autore: Pandora_2_Vertigo    05/05/2015    0 recensioni
Kristina sbarca a Denver per abbandonare una vita monotona e triste, svuotata dalla perdita del padre, un anno prima per un incidente stradale.
A Denver troverà un nuovo quartiere, nuove conoscenze, ma anche nuove ombre a cui prestare attenzione.
- Si può sapere dove cavolo eri finita? – Fred mi accoglie in casa.
- All’ospedale avevano bisogno di qualcuno che facesse un doppio turno… - non gli dico nulla di quello che mi è successo. Anche perchè dire ad un cacciatore che un vampiro mi ha sedotta, portata nel suo rifugio, ha bevuto del mio sangue e infine mi ha baciata, non mi sembra questa grande idea. Che avrebbe pensato di me?
Genere: Avventura, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Kristina'
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Trasferirsi in una città. Nuova casa, nuova gente, nuovi panorami, nuova vita. Significa sempre lasciare qualcosa alle spalle, lasciarsi dietro un passato, una vita, breve o lunga che sia stata. Significa ricominciare da capo una nuova vita. Il mondo ti da una seconda possibilità. O così credi.
Perché il passato non ti molla, per quanto tu ti possa credere libera, per quando creda di aver lasciato indietro tutto e che questo non possa più ritornare, ci sono ricordi, immagini, frasi e punti fermi. Quei punti fermi che non ti lasciano, che ti seguono, che vivono con te. Non è così facile ricominciare da capo, perché è solo la continuazione, è solo aver ripreso una storia lasciata perdere per poco tempo, giusto quello per preparare le tue cose e partire, prendere un treno. Giusto il tempo che ti lasciano dei puntini di sospensione.
… uno
… due
…tre
 
 
Nuova vita per me. Nuova casa per me. Nuovo lavoro per me, o meglio nuovo posto di lavoro, perché quello che so fare non cambia: infermiera sono e infermiera resto, cambia l’ospedale, cambiano i colleghi, quello che non cambia sono i familiari che attendono impazienti e speranzosi in sala d’aspetto, le file all’accettazione, il continuo e infinito via vai di persone e purtroppo non cambia il suono dell’ambulanza, il sangue, articolazioni rotte. Il sorriso, il sorriso delle persone che aiuti, che ti ringraziano, che si mettono nelle tu mani, o meglio nelle mani dei dottori, alla fine il grosso lo fanno loro. Io sono solo un’infermiera.

- Signorina Murphy.. Kristina Murphy – “chi mi chiama?” penso girandomi verso quella voce; mi volto e vido un uomo, sulla quarantina passata, alto, un po’ stempiato, dotato di pancetta e camice bianco
- Si sono io – rispondo subito
- Mi segua nel mio ufficio, prego
- Dunque signorina, lei si è trasferita qua dal Minnesota, da Minneapolis giusto? – continua lui dopo essersi seduto dietro una scrivania piena di carte ammucchiate, tenendo in mano il mio curriculum vitae
- Si signore – rispondo mentre mi accomodo sulla sedia di fronte. faccio un po’ fatica a vederlo dietro quella montagna di carte, seppur ordinate.
- Non mi chiami Signore, siamo in un ospedale, non nell’esercito. Mi chiami Capo – e mi sorride gentile
- Va bene, Capo
“eh si, così invece mi sembra di essere al porto e fare la scaricatrice” penso, “va beh pazienza, vada per il Capo”. Sorrido anche io.

- Ha studiato alla Minnesota State University..
- Esattamente
- E ha lavorato per due anni…
- All’ Immanuel St. Joseph's Hospital, come infermiera al pronto soccorso – lo anticipo e sorrido ancora. Sempre sorridente, non smettere mai di sorridere, aiuta a fare buona impressione a lui, ma anche al mondo intero.

- Molto bene. E come mai si è trasferita qui da noi? Non le piaceva il Minnesota?
- Mi è stata offerta un’opportunità di lavoro qui da voi, ed essendo giovane e senza troppi legami…perchè no?
- Bene. Allora benvenuta a Denver signorina, benvenuta al Denver Health Hospital and Clinics. – mi sorride nuovamente, anche lui vuole fare buona impressione.
- La ringrazio…Capo.
- Comincerà a partire da settimana prossima. Intanto si goda questa bella città.
- Lo faro. A presto – gli stringo la mano, esco da quell’ufficio, dall’edificio, e respiro l’aria fredda di Denver in dicembre.

Avevo deciso di tornar alla mia nuova casa a piedi, dopo tutto l’aveva detto pure il Capo: si goda questa bella città. Si questo ero, una turista per una settimana, alla scoperta della città, della mia nuova città, tanto valeva camminarci e guardare la gente sui marciapiedi, chiusa dentro i cappotti per il freddo, o nei bar a bersi un bel caffè o una cioccolata calda. Si, avevo voglia di cioccolata calda.
Entro in un bar piccolo dall’aria così accogliente da catturarmi al volo. Ordino e non appena il cameriere mi porta la mia bevanda il cellulare comincia a vibrare.
- Pronto?
- Ciao Kris, allora il colloquio come è andato? – una voce allegra dall’altro capo, la conoscevo bene, era Frederic il mio fratellone
- Ciao Fred, come è andata…è andata! Inizio tra una settimana e nel frattempo sono in esplorazione. – rispondo con voce allegra, la cioccolata già faceva effetto, mi dava sempre un senso di euforia.
- Bene! E la casa? Ti sei sistemata?
- Beh si, più o meno– la mia mente va subito alle pigne di scatoloni nel salotto di casa, agli scaffali vuoti, ai pochi vestiti nell’armadio e alla due valigie ancora da disfare. Emicrania immediata
- E questo cosa vorrebbe dire?
- Eddai Fred, sono arrivata da neanche due giorni, dammi il tempo di riprendermi dal viaggio, e poi oggi ho avuto il colloquio. Tra poco vado a casa e comincio a sistemare. Ma ti prego non mi assillare, manco fossi la mamma!
- Già, la mamma… - la sua voce era diventata subito più triste
- A proposito, come sta? – chiedo con un tono più basso
- Come vuoi che stia? Manca solo che la abbandoni anche io… prima papà, ora tu sei partita senza un motivo logico…si sente sola, e io non sempre riesco a tirarla su.
- Ora sarebbe colpa mia? – replico un po’ indispettita
- Lo sai cosa voglio dire Kris! – si stava arrabbiando e sbuffava anche
- Si lo so, non ho dimenticato la situazione, non potrei mai farlo
La mia vita stava tornando a riprendermi…mio fratello, mia mamma…
 
Quella conversazione stava degenerando, come ogni conversazione negli ultimi tempi con mio fratello, quindi cercai di tagliare corto. Lui mi salutò con una minaccia:
- Lasciamo perdere. Comunque sappi che preso ti verrò a trovare per vedere come stai.
Praticamente gli chiudo il telefono in faccia.
La cioccolata ormai non mi va più, quella conversazione l’aveva resa amara, oltre che fredda. Pago ed esco dal bar dirigendomi a piedi verso casa, facendo attenzione ad evitare i cumuli di neve ai bordi del marciapiede.
Ci impiego mezz’ora ad arrivare al mio appartamento, in un vecchio palazzo alla periferia ovest di Denver. Abito al terzo piano, per fortuna con l’ascensore, anche se di quelli vecchi, tipo in ferro battuto che si aprono e si chiudono a mano. Sembra proprio una gabbia, ma mi evitava le scale e questo mi basta.
Prendo le chiavi dalla borsa, le infilo nella toppa della porta. Uno, due, tre, quattro, cinque giri. Trovo a tastoni l’interruttore della luce e lo premo. Davanti a me si parano una mezza dozzina di scatoloni a malapena aperti sul pavimento, in quello che era la stanza principale del mio piccolo loft; per il resto la stanza era riempito da un divano verdone su cui mi abbandono dopo essermi tolta cappotto e guanti , un tavolo pieno di libri, una libreria grande, ma mezza vuota, ancora da riempire e un mobile su cui erano appoggiati la televisione e il telefono.
Dalla mia posizione comatosa sul divano mi giunge il suono di un campanellino e subito dopo vedo una massa di pelo grigio-blu che trotterellando si avvicina a me.
- Vieni qui piccola! Come stai? Ti sono mancata?
- Miaoooo! – fu la sua risposta.
La mia miciona Mya ha fame. Quel batuffolone di pelo dagli occhi gialli è già a pancia all’aria per farsi coccolare. Decido quindi di alzarmi e dopo averle dato da mangiare inizio a sistemare un po’ delle mie cose, a cominciare dai vestiti che erano in valigia da due giorni almeno. Tirando fuori i vestiti dalla valigia trovo anche una foto che avevo portato con me: risaliva ad un paio di anni fa e ritraeva me a 21 anni il giorno in cui cominciai a lavorare come infermiera all’Immanuel St. Joseph's Hospital, con mio fratello e i miei genitori, quando ancora tutto andava bene. Quando papà stava bene.
Mi siedo sul letto a due piazze e rimango non so quanto a fissare quella foto; comincio a pensare alla mia famiglia, a mio papà morto da poco più di un anno per un incidente d’auto, a mia madre distrutta da quella perdita, a mio fratello che aveva preso le redini della famiglia e a me, che avevo continuato come se nulla fosse successo, per non cedere, per non ritrovami come mamma.
Un solletico caldo e morbido sulle gambe mi riporta alla realtà. Anche Mya è parte della mia famiglia, della mia vita che non mi abbandona mai…

Poggio la foto sul comodino affianco al letto e riprendo a sistemare i vestiti, svuotando entrambe le valigie. Sarebbe dovuto toccare agli scatoloni, ma non ne avevo proprio voglia.
Prendo una borsa nera ai piedi del letto e tiro fuori il mio pc portatile; grazie al cielo nell’appartamento c’è la connessione internet! Apro la posta elettronica e scrivo subito una mail a Erika la mia amica d’infanzia che ora vive a New York. Lei ha trovato il coraggio prima di me di lasciare il Minnesota per trovare la sua strada.
Lei aveva trovato il coraggio, io avevo trovato la via più comoda per non affrontare la mia realtà, la mia famiglia… e nonostante tutto, dovevo ammetterlo, mi mancava casa mia.

Ciao, storia che avevo pubblicato anni e anni fa su un forum e che ora riprendo e sistemo un pò.
Spero possa interessare.
Buonanotte
  
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