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Autore: BradipoYo    08/05/2015    0 recensioni
Aprii gli occhi a fatica, giacevo a terra, immobile.
Provai a ripensare a ciò che era successo, ma non riuscivo a ricordare nulla, proprio nulla, il vuoto più totale. Non riuscivo a ricordare dov’ero, che cosa era successo, ma non riuscivo nemmeno a ricordare il mio nome, non riuscivo a ricordare chi ero.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chi… sono?
 
Aprii gli occhi a fatica, giacevo a terra, immobile. La mia vista era ancora offuscata, la testa sembrava che avrebbe potuto esplodere da un momento all’altro. Ero completamente dolorante e i miei pensieri erano annebbiati. Il mio corpo era costellato da ferite, più o meno profonde, e dei vestiti erano rimasti solo alcuni brandelli. Appena la mia vista si schiarì e i pensieri meno confusi mi guardai attentamente attorno, c’erano solamente macerie, niente di più. Mi sforzai di rimettermi in piedi, ma la mia gamba destra non voleva sentire ragioni, era gravemente ferita. Provai a ripensare a ciò che era successo, ma non riuscivo a ricordare nulla, proprio nulla, il vuoto più totale. Non riuscivo a ricordare dov’ero, che cosa era successo, ma non riuscivo nemmeno a ricordare il mio nome, non riuscivo a ricordare chi ero.
Andai in preda al panico, non ricordavo nulla, come avevo fatto a dimenticarmi chi fossi? Non era possibile. Continuai a sforzarmi, ma niente. Non ricordavo nulla. Con un grande sforzo riuscii a mettermi in piedi, iniziai a camminare, o meglio, a zoppicare, alla ricerca di un qualche indizio, o qualcosa che mi avrebbe aiutato nel capire cosa diavolo era successo, ma soprattutto chi ero.
Trovai, in mezzo alle macerie, un bastone di legno e iniziai a perlustrare la zona sorreggendomi ad esso. Erano presenti solo detriti sparpagliati sul terreno. Con la coda dell’occhio intravidi, fra le macerie, qualcosa di rosso, mi avvicinai e la estrassi da sotto i massi che lo tenevano bloccato. Era un semplice diario, logoro, con la copertina rossa. Lo sfogliai, ma la maggior parte delle pagine erano bianche oppure erano state strappate. Sulla prima pagina vi era disegnata una montagna in modo stilizzato, con annotato un nome e una serie di strani numeri. Ci misi un attimo a capire cosa fossero quei numeri, erano semplicemente coordinate, coordinate di dove si trovasse quel monte, forse. Il nome del monte, il monte Florence. Florence… quel nome mi sembrò così familiare e suscitò in me uno strano senso di inquetudine, probabilmente era legato ai miei ricordi perduti, o magari ne era la causa, avrei dovuto provare a recarmici, forse avrei potuto scoprire qualcosa, forse potevo scoprire chi ero! Sfogliai le altre pagine, ma non vi trovai nulla che poteva ritornarmi utile, erano semplicissime pagine bianche, fino a che la mia attenzione venne attirata da una frase scritta, con una pessima calligrafia, su una delle ultime pagine: “scappa, scappa più lontano che puoi, altrimenti mor …” la pagina risultava strappata e la frase incompleta.  Mi sorse spontanea un'altra domanda, a chi apparteneva quel diario? E a chi era rivolta quella frase? Non rimasi troppo a scervellarmi e misi il diario in una tasca dei pantaloni. Cominciai a camminare, per prima cosa dovevo trovare un villaggio dove poter riposare e rifocillarmi a dovere, e solamente dopo avrei pensato a cosa fare.
Dopo alcune ore di cammino finalmente raggiunsi un piccolo villaggio circondato da alte mura, ero stremata e morivo di fame. Entrai all’interno delle mura del villaggio e subito venni accolta da uomo robusto, aveva due spalle possenti, due occhi color marrone cioccolato e i capelli ricci color nero corvino.  Senza nemmeno aprire bocca mi mise sulle spalle un mantello nero, fatto di lana, regalandomi un gigantesco sorriso. Tentai di ringraziarlo, ma non ne ebbi il tempo visto che si era già allontanato e stava andando incontro ad un altro forestiero, doveva essere un villaggio di passaggio e chiunque vi capitasse veniva accolto in quel modo. Ormai si era fatto tardi ed il tramonto era prossimo, dovevo trovare una locanda al più presto dove poter mettere sotto i denti qualcosa. Dopo una breve ricerca ne trovai una. Appena entrai venni accolta calorosamente dal proprietario, che, immediatamente, mi fece accomodare ad un tavolo e mi servì un piatto di semplicissima, ma allo stesso tempo favolosa zuppa. Assaporai molto lentamente quella squisita pietanza, ad ogni cucchiaiata potevo sentire le mie forze che ritornavano, mi sembrava che fosse passata una vita dall’ultima volta che avevo mangiato qualcosa, ma ovviamente non riuscivo a ricordarlo, era solamente una sensazione. Cominciai a dialogare con il padrone della locanda, era un simpatico vecchietto, con una lunga barba grigia e solo qualche ciuffetto di capelli, anch’essi grigi, sulla nuca, mi guardava con curiosità con i suoi due grandi occhi azzurri. Gli dissi dove ero diretta, o almeno dove avevo intenzione di dirigermi, ma tralasciai ciò che mi era successo, visto che neppure io sapevo ciò che era realmente accaduto. Al solo sentire nominare il misterioso monte cambiò espressione, si fece cupo in viso e la sua voce si fece sempre più flebile. Mi disse sottovoce, come se avesse paura che qualcuno lo sentisse: <>; e a quel punto la voce del locandiere si fece sempre più tremolante: <>.
Dopo aver ascoltato quella storia così macabra decisi di andare in camera e mettermi a letto, ero davvero distrutta e ancora disorientata per tutto ciò che era successo. Venni scortata dal locandiere fino all’entrata della camera, che si trovava al piano superiore.
Era una alloggio molto spartano, ma allo stesso tempo abbastanza confortevole. Nella camera era presente uno specchio, mi guardai molto attentamente, quasi non riuscivo a riconoscermi. Avevo dei lunghi capelli rosso scarlatto che arrivavano fino a sotto le spalle, il volto era pieno di lividi e ferite ancora aperte così come il resto del corpo. Gli occhi, verde chiaro con qualche sfumatura dorata, non trasparivano alcuna emozione, la mia immagine riflessa mi appariva come quella di un estraneo, cosa che al momento ero.  Mi misi a letto, all’alba sarei partita alla volta della misteriosa Florence.
Alle prime luci dell’alba ero pronta, mi rimisi gli stracci che mi rimanevano, mi infilai il mantello ed abbassai il cappuccio sul volto, notai solo allora che sul cappuccio era ricamato uno stemma, un piccolo drago stilizzato che impugnava una spada, quella vista mi fece scappare un sorriso, da come erano descritti i leggendari draghi era impensabile vederne uno impugnare una spada.
Dopo quel bel sonno ristoratore ero nuovamente in forze, e non avrei neanche più avuto bisogno del bastone per camminare visto che la ferita sulla gamba stava guarendo velocemente, fin troppo velocemente, ma non badai troppo. Uscii dalla porta della locanda, ma venni bloccata dal locandiere, che, con le lacrime agli occhi, mi porse due spade infoderate: <>. Lì per lì non capii a cosa mi sarebbero servite delle spade, e soprattutto non ero di certo in grado di maneggiarle. Me le misi entrambe dietro alla schiena e partii ringraziando l’anziano signore con un cenno della mano. Il monte non distava molto dal villaggio, entro sera lo avrei raggiunto e la mattina seguente avrei iniziato la mia scalata.
Il viaggio procedette senza alcun intoppo e prima del tramonto raggiunsi i piedi di Florence. Alzai lo sguardo tentando di scorgere la cima, ma era impossibile per via della troppa nebbia, in quelle circostanze mi apparve davvero un posto spettrale e mi venne la pelle d’oca. Mi accampai lì per la notte, la mattina seguente avrebbe avuto inizio la mia scalata verso la vetta, e forse verso la verità.
Mi svegliai di soprassalto, udii un boato in lontananza, ma non riuscii a percepire da dove provenisse. Ormai il sole stava iniziando a fare capolino fra le cime delle montagne circostanti, la nebbia si era diradata. La brezza mattutina mi scompigliava i capelli. Ero ancora abbastanza assonnata, ma mi alzai e iniziai a prepararmi per la lunga scalata che mi attendeva. Tentai di scorgere la cima, ma rimaneva nascosta dietro ad un cumulo di nuvole, da quella prospettiva sembrava irraggiungibile, un monte così imponente che al confronto tutte le altre montagne sembravano dei piccoli sassolini impotenti. Mi rimisi il cappuccio sulla testa e iniziai a camminare, il primo tratto prevedeva un sentiero, era abbastanza ripido, ma non vi era nessun pericolo in vista. Camminai a lungo, fino a quando il sentiero si interruppe bruscamente per via di una grossa frana, l’unico modo per poter proseguire era quello di arrampicarsi, cosa non di certo facile visto che la parete era strapiombante e non vi erano molti appigli. Cominciai la mia folle scalata, ma piano piano stavo perdendo sempre di più la speranza che avrei raggiunto la cima. Non potevo permettermi un singolo errore visto che avrei dovuto farlo a mani nude senza alcun tipo di corda. Dopo svariate ore raggiunsi una piccola rientranza, mi fermai per poter riposare e medicarmi le mani che stavano copiosamente sanguinando per via delle varie ferite provocate da quelle rocce appuntite. Guardai la gamba, rimasi sbalordita, era perfettamente guarita, nemmeno un minimo segno della ferita che era presente fino a poche ore prima.
Dopo una breve pausa ricominciai ad arrampicarmi, ero sfinita, ma non potevo di certo mollare una volta arrivata fino a lì. Guardai verso l’alto, adesso riuscivo a distinguere chiaramente la cima, ormai non doveva mancare molto. Ripensai a ciò che mi aveva detto l’anziano locandiere, e in me iniziò a crescere un certo senso di timore, non sapevo ciò che mi aspettava sulla cima, e soprattutto, non sapevo se quella folle impresa servisse a ritrovare me stessa.
Poco dopo raggiunsi la cima, ma non potevo credere ai miei occhi, davanti a me si estendeva un grande prato verde, con qualche fiore qua e la, era davvero impensabile trovare un prato così rigoglioso a quell’altitudine, sulla cima di una montagna. Scrutai meglio l’orizzonte e intravidi un grosso pino, e sotto di esso sorgeva una piccola casetta fatta interamente in legno, molto rudimentale. Appena la vidi il mio cuore perse un battito, la casa della strega. Immediatamente pensai che erano tutte sciocchezze, in fondo non avevo incontrato alcun spirito maligno che infestava la montagna. Mi avvicinai un po’ titubante, arrivai in prossimità della porta e bussai, non rispose nessuno. Spinta dalla curiosità aprii piano piano la porta, ma all’improvviso qualcosa mi afferrò alle spalle. Feci un balzo, mi girai di scatto e vidi un uomo. Aveva dei capelli castani tutti arruffati e due grandi occhi azzurri che mi scrutavano. Mi chiese molto bruscamente: << che cosa ci fai qui? Ma soprattutto, chi sei? >>; ma al dire il vero non avrei saputo rispondere a quell’ultima domanda. D’istinto mi tolsi il cappuccio, ma appena lo feci l’uomo, alla vista dei miei capelli rossi, sgranò gli occhi e, con voce tremolante, pronunciò un nome: Zeira. Non ebbi neanche il tempo di controbattere che subito l’uomo allentò la presa e sfoderò una spada con incredibile agilità. Con grande prontezza di riflessi sfoderai anch’io le mie due spade, stranamente trovavo così familiare impugnare una spada. L’uomo strabuzzò gli occhi alla vista delle due spade e partì alla carica con ferocia. Schivai il suo fendente e a mia volta risposi con un fendete prima da destra e successivamente da sinistra. Era come se avessi sempre combattuto, sapevo perfettamente come muovermi e nessun movimento era lasciato al caso. Dopo un feroce scambio di colpi l’uomo si fermò, adesso sembrava più propenso a un dialogo. Sempre tenendo la spada puntata verso di me mi chiese: come fai ad essere ancora viva?>>. Risposi: << non so cosa mi sia successo, ho perso tutti i ricordi, non so nulla>>. All’udire quelle parole sul volto dell’uomo comparì un piccolo sorriso compiaciuto, sicuramente lui sapeva chi ero veramente e ciò che mi era accaduto. Non finii di formulare quest’ultimo pensiero che sentii una forte fitta allo stomaco, abbassai lo sguardo, vidi una spada infilzata nell’addome e una macchia di sangue, avevo abbassato la guardia. L’uomo, con fare soddisfatto, mi disse: <>. Ecco cosa mi era successo, ecco chi ero, finalmente tutti i tasselli si ricomposero, il diario era mio, e quella frase era rivolta a me stessa: “scappa, scappa più lontano che puoi, altrimenti morirai”. Adesso riuscivo a ricordarmi tutto: io ero una strega, LA strega, Zeira. Già una volta questo individuo aveva tentato di uccidermi, in un altro luogo, ma riuscii a scamparla per un soffio grazie ad un incantesimo, il cui prezzo da pagare però erano i ricordi dell’utilizzatore. Adesso tutto tornava, sapevo chi ero, anche se avrei preferito non scoprirlo, nella mia vita avevo fatto un sacco di cose orribili, avevo ucciso innumerevoli persone, distrutto altrettanti villaggi, e probabilmente meritavo la morte. In preda alla collera tentai un ultimo affondo, che con mia grande sorpresa andò a segno. L’uomo si piegò sulle ginocchia, ero riuscita a centrare il cuore. L’uomo scoppiò in una risata e venne fuori con una frase che mi lasciò allibita:<< se il prezzo da pagare per aver ucciso la grande strega è l’essere uccisi con le proprie spade, allora lo accetto volentieri>>. Non potevo crederci, lui era il figlio di quel cordiale locandiere, e io, gli avevo strappato la vita, una delle tante altre.
Mi accasciai a terra, chiusi gli occhi e mi lasciai cullare dal dolce silenzio della morte.
   
 
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