Serie TV > Daredevil (Netflix)
Ricorda la storia  |      
Autore: Sheep01    09/05/2015    5 recensioni
Sa fare cose, Jack Murdock, ma una cosa la sa fare meglio di altre.
Da quanto era un ragazzino. Cresciuto in periferie che non raccontano storie, che te le insegnano a furia di calci. E pugni. E i pugni aveva imparato a restituirli, restituirli meglio di tante parole.
[Jack Murdock - Matt Murdock]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jack Murdock, Matt Murdock
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Disclaimer: Daredevil, Jack Murdock e qualsiasi personaggio citato non mi appartengono, ma sono proprietà Marvel. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

 

 

*

 

 

LET THE DEVIL OUT

 

"Be careful of the Murdock boys. They got the devil in 'em".

 

 

“Dov’è il resto?” la voce gli era uscita più rauca del previsto.

Quel lavoro non era stato preventivato. Non a quell’ora.

Era esausto e le mani gli dolevano da far schifo. Eppure era stato così semplice sollevare il vecchio, mandarlo a sbattere contro la parete. Una piuma di sessanta chili di pelle flaccida e ossa.

Era bastato rivolgergli un paio di parole secche, dirette e Morales ci aveva messo meno di dieci secondi a sganciare i soldi dell’incasso dell’intera giornata. Voleva credere di essere più convincente a parole che non grazie alla sua mole e di quel cappuccio calato sulla testa, che lo faceva sembrare un rapinatore da quattro soldi.

La busta con i contanti stretta in una mano, a sventolarglieli addosso come incitazione.

Solo non conteneva esattamente la cifra che si erano assicurati avrebbe riscosso.

Odiava gli inconvenienti.

Quei tipo di inconvenienti poi, non portavano mai a conseguenze gradevoli.

Odiava dover diventare sgradevole.

“E’ t-tutto quello che h-ho. A-ancora qualche giorno. P-prometto che per la fine della settimana prossima…”

“Ti era già stata data una proroga, vecchio. Questa era l’ultima chiamata.”

Lo sguardo atterrito, le gocce di sudore che si condensavano, disgustose e umide, su quella fronte rugosa.

Odiava dover guardare dritta in faccia la miseria.

Si costrinse a mantenere le mani ferme. A snebbiare la mente, a fissarlo freddamente come fosse uno di quei nerboruti avversari che gli facevano sputare sangue e denti, sul ring. Concentrarsi sulle rughe, non sugli occhi. Sulla busta piena di soldi stretta fra le proprie mani, non sulla pelle fremente di terrore.

“T-ti prego… t-ti prego”, gli tremava la voce. La soglia del pianto. Della disperazione. Quella stessa disperazione che nonostante tutto sapeva riconoscergli.

Atterra l’avversario, gli diceva la coscienza. Era un lavoro, solo un lavoro dopotutto. Non una persona, non un vecchio tremebondo che arrancava in una città spietata. Qualcosa per cui avrebbe avuto tempo più tardi per affogare frustrazione e senso di colpa in una gloriosa bottiglia di whisky.

Un paio di manrovesci. Ben assestati. Al vecchio sarebbero bastati pochi istanti per finire al tappeto.

E proprio mentre il volto del vecchio Morales andava a sovrapporsi con quello dell’ultimo avversario - le labbra gonfie e sanguinolente, gli occhi tumefatti, la pelle arrossata dai ganci assorbiti - questi cominciò a balbettare.

Un farfuglio indistinto, una nenia. Una sola nota a scandire parole che improvvisamente gli sembrò di riconoscere.

“Padre nostro…”

che sei nei cieli.

La mano che tratteneva il vecchio cominciò a prendere la sua forza. E la mente riprese ad annebbiarsi. Un’esplosione dritta, come uno schiaffo, sul viso.

Maggie.

L’impulso lo costrinse a mollare la presa. A lasciarlo andare. Le gambe del vecchio non ressero. Cadde a terra, accartocciandosi come un sacco vuoto.

“L-la prego…”

Continuava a ripetere. E a quel dolore sordo, annichilente, alla bocca dello stomaco, non riuscì a dare nessun altro nome se non quello.

Maggie.

Restò immobile il tempo di assorbire ancora il colpo. Immagini confuse di un passato nemmeno troppo lontano. Arrivate giusto in tempo per ricordargli cosa era diventato.

“Torno alla fine di questa settimana”, disse l'istante dopo essersi accertato di aver recuperato quel briciolo di distacco rimastogli. Definitivo e freddo come quando si era presentato sulla soglia di quella lurida lavanderia.

“Grazie, s-signore, grazie…”

“La fine di questa settimana”, ripeté un po’ per ricordarlo a lui, un po’ per ricordarlo a se stesso.

Un lavoro portato a termine a metà equivaleva a un lavoro non portato a termine affatto.

Ormai aveva imparato a conoscerli i suoi mandanti.

Strinse le mani sulla busta coi soldi e uscì da quel posto, che aveva cominciato a diventare soffocante e mefitico come le esalazioni della sua stessa coscienza.

La città splendeva di luci, là fuori.

Lui non vedeva che le ombre.

E fu solo a un isolato di distanza che sentì le ginocchia cedere. La stanchezza prendere il sopravvento. Le mani gli dolevano, sì. E gli doleva la faccia.

Si levò il cappuccio e si concesse di respirare quell’aria che sapeva di fritto e spazzatura. Di gas di scarico e fogna.

Eppure gli sembrava meno compromessa di quello che gli ribolliva lì, dentro, nello stomaco.

Arrancò fino a uno dei vicoli del circondario, lasciandosi cadere sul ciglio di un marciapiede.

La mani strette attorno a quella testa che gli doleva. Come la faccia, come le mani.

Un solo attimo di silenzio, un attimo per riprendere fiato.

Per darsi il tempo di dimenticare cosa era diventato, certo.

Per darsi il tempo di ricordare l'unica ragione per cui lo era diventato.

 

Sei, sette… otto…”

Suona il gong.

Murdock vince al terzo round.

Il braccio si solleva al cielo, e le luci dei flash lo accecano, ma un sorriso tirato riesce comunque a concederlo. Un macabro sorriso, ritagliato in una maschera di sangue e tumefazioni. Ma sempre un sorriso. Di quelli che concede raramente. E che sempre dedica a una sola persona.

Pacche sulle spalle, false congratulazioni.

Le gambe fanno male, certo. Le mani… fanno male. Il viso poi non ne parliamo.

Ma la soddisfazione è lì. A far capolino fra il malessere. A dargli una spinta d’orgoglio non richiesta.

Sono soldi. Sono soldi, esatto. Ma c’è anche altro. Qualcosa che lo costringe a perseverare. A non mollare.

Sa fare cose, Jack Murdock, ma una cosa la sa fare meglio di altre.

Da quanto era un ragazzino. Cresciuto in periferie che non raccontano storie, che te le insegnano a furia di calci. E pugni.

E i pugni aveva imparato a restituirli, restituirli meglio di tante parole.

Incanalare la violenza era stato solo il passo successivo.

Farla diventare un lavoro, un mestiere. Che gli prometteva di strapparlo dalle strade. Ad insegnarli come legittimare… quella violenza.

Il risultato lo si vede sulle mani, sulla faccia. In quei lividi. E nelle tasche.

Perché quando le cose vanno come devono andare, pagano. E pagano bene. E allora era una festa perché… sì, perché pagare i debiti e potersi concedere un respiro e poterlo concedere a quell’unica persona… quella a cui riserva quell’unico sorriso è… è qualcosa che riesce a scacciare via un po’ tutto quello schifo di cui si è sempre circondato.

Le porte dello spogliatoio vogliono dire casa. Una promessa, una ricompensa.

Infilare i guantoni, i vestiti inzuppati di sudore in quella sacca tutta rattoppi. Una doccia, forse, può anche concedersela prima di uscire da lì. E cercare di capire come ricucire quel taglio sulla fronte che non sembra volerla smettere di sanguinare.

Le porte che cigolano alle sue spalle, vogliono dire che la giornata è giunta al termine. E che è arrivato il momento di riscuotere.

Signor Murdock, i miei complimenti.” L’odore di quel sigaro, inconfondibile.

Roscoe Sweeney, “The Fixer”, lo chiamano. Per quella sua capacità di risolvere sempre… problemi. In un match, come nella riscossione dei debiti. Ma a Jack non importa. Il suo lavoro lo ha fatto. E lo ha fatto bene. Ancora una volta.

La ringrazio”, si tira su e lo fissa, senza abbassare lo sguardo. A un complimento si risponde per cortesia. Il resto è solo… lavoro. Non gli deve niente altro che quello.

La cifra pattuita”, gli porge una busta. Gialla. E lui allunga una mano per avere il suo compenso mentre se la vede sottrarre l’istante prima che le sue dita gli si possano stringere attorno.

Mi chiedevo se saresti disposto a guadagnare un extra, stasera.”

Un extra. Lo conosce fin troppo bene, l’extra di cui parla.

Sono esausto, signor Roscoe. E ho promesso a mio figlio di…”

A-ah”, lo interrompe, “mi sembrava fossimo stati chiari, sui termini del contratto.”

Quel gigante della sua guardia del corpo si avvicina con aria minatoria. E’ grosso e picchia duro. E Jack non è nelle condizioni di sostenere altre percosse. Non quella sera.

Come non può recepire altre minacce. Le minacce a lui, a Matt. Ancora gli aleggiano nella mente. Come monito, come promemoria. Non un bel promemoria.

Di che si tratta?” alla fine è costretto a cedere. Come sempre.

Al signor Roscoe si illumina lo sguardo, nemmeno avesse vinto alla lotteria di capodanno.

Morales. E’ in ritardo sul pagamento.”

Morales. Lo conosce Morales. È il vecchio della lavanderia all’angolo con il barbiere che tosa la metà dei marmocchi di Hell’s Kitchen.

Un ritardo sul pagamento non è mai una bella cosa.

Jack Murdock spera solo di potersela cavare con poco. Le mani gli fanno male. E quel taglio sulla fronte continua a sanguinare.

 

“Che cosa sono questi?” il signor Roscoe non sembrava soddisfatto. Ma a Jack non importava granché. Aveva preso una decisione. Dettata dalla paura e da un ricordo molesto ma pur sempre una decisione. Risoluto a sobbarcarsene ogni responsabilità.

“I soldi di Morales. Non aveva altro.”

“Non sono nemmeno la metà di quelli che ci doveva”, le mani frugavano a cercare fra le pieghe della busta, ancora sporca di sangue, del suo stesso sangue, ma poco importava, che lo credesse pure che aveva fatto fin troppo bene il suo lavoro.

“Non aveva altro”, avrebbe continuato a ripeterlo fino a quando non gli sarebbe entrato in quella zucca brizzolata. Quando il fumo di quel suo sigaro dall'aria costosa avrebbe smesso di intrappolargli la testa in una nebulosa tossica.

“Mi auguro che tu ti sia preoccupato di fargli capire quanto siano importanti… questi soldi, per noi.”

Roscoe gli lanciò uno sguardo inquisitorio.

E Jack gliene restituì uno altrettanto imperturbabile.

“Per la fine di questa settimana avrà il resto”, era pur sempre una promessa. E confidava che Morales avrebbe venduto persino sua madre, pur di saldare quel suo cazzo di debito.

Cercò di restare fermo e vigile. Impedendosi anche solo di guardare oltre le spalle dell'uomo. Le due presenze maestose e massicce, i suoi angeli custodi, vendicatori, pronti all'attacco.

Di ignorare il dolore alla testa, di quel taglio che, sì, aveva smesso di sanguinare, ma resta tangibile, incrostato a bloccargli ciuffi di capelli.

E infine di ignorare quella nausea che presto o tardi lo avrebbe visto intento a vomitare, lì, su quella lucida scrivania di prima classe, o sul tappeto persiano o sapeva il cavolo da dove saltava fuori o a spruzzo su quella faccia da cazzo di Roscoe. Gli sarebbe piaciuto vedere che razza di espressione sarebbe stato capace di tirare fuori, se avesse lasciato vincere quel malessere diffuso.

Si immaginò la scena persino. Il dialogo. Le scuse.

Avreste potuto lasciarmi tornare a casa da mio figlio, invece di lanciarmi in spedizione punitiva da un vecchio tutt'ossa che non ha soldi nemmeno per il bus, figuriamoci per un viaggio di sola andata per il Messico. O Cuba.

Trattenne il respiro senza nemmeno essersi accorto di averlo fatto.

E infine la ruota sembrò cominciare per il verso giusto, quella sera. Dopo l'incontro andato a buon fine era convinto di aver esaurito la spinta della dea bendata.

“Capirai da solo che non ci saranno extra per un lavoro che non hai svolto.”

Jack nemmeno ci provò a protestare. Voleva solo andare a casa. Illeso.

Roscoe gli concesse il congedo che stava aspettando. Solo un cenno, nessuno saluto.

E lo stesso fece Jack, ancora concentrato a mantenere quella sua aria distaccata, impassibile.

Guadagnò la porta che ancora aveva una dignità.

Vomitò dopo, sulla strada. Dietro un palo della luce. Il gatto che incrociò la sua strada fu più fortunato delle sue scarpe.

 

Quando inforcò la via di casa, le luci dei palazzi erano quasi tutte spente ormai.

I lampioni rischiaravano la strada ma ancora non riusciva a percepire che le ombre. Tutte quelle ombre che scivolavano furtive in ogni anfratto, intaccando tutto quello che riuscivano a sfiorare.

Finché non fu quell'unica finestra illuminata, come un faro nella notte, a ricordargli che non tutto era ombra. Non tutto era oscurità.

Una smorfia gli contrasse i muscoli del viso al pensiero che potesse essere ancora sveglio.

Non era sicuro di volersi esibire a lui in quelle condizioni.

Non quella sera.

Si sarebbe presentato con una vittoria che sapeva di sconfitta, che portava con sé puzzo di vomito, sangue e umiliazione.

Qualcosa a cui suo figlio era abituato, ma di certo non un'immagine di cui andare orgogliosi.

Qualcosa che mostrava al ragazzo un esempio dal quale rifuggire, sempre.

Lo trovò addormentato sul divano. Un braccio inerme a sfiorare il pavimento, mentre in tv andava un qualche sceneggiato della domenica sera. Un sandwich ammezzato in un piatto e un bicchiere di latte vuoto, sul tappeto.

Gli aveva promesso che sarebbero riusciti a cenare assieme. Che se tutto fosse andato come aveva sperato avrebbe comprato del gelato sulla via di casa.

Ma fra le mani non stringeva altro che un paio di fazzoletti usati e la busta con la paga di quel match, che nemmeno aveva voluto concedersi il dubbio potesse essere stato truccato.

Sul tavolo, accanto a lui, un paio di quaderni stracolmi di compiti per la settimana successiva.

Allungò il collo solo per comprendere che non ci capiva un accidenti di niente delle lezioni che un ragazzino delle elementari doveva spingere nel cervello. Lui, da ragazzino, era stato bravo in matematica, dicevano. Non gli era mai maturata la necessità di verificare quanto avrebbe potuto spingersi oltre.

“Papà?” una voce incerta alle sue spalle, lo costrinse a distogliere lo sguardo.

Beccato in flagrante a curiosare fra i quaderni di scuola. Un po' meno imbarazzante di essere scoperto a sbirciare sul diario segreto, ma poco distante dal sentirsi comunque in colpa. Come se dovesse controllare sul serio che il ragazzino avesse fatto il suo dovere.

“Ehi...” gli si inginocchiò di fianco, per dargli il tempo di rimettesi dritto, e stropicciarsi quegli occhi assonnati, stanchi. I capelli già un disastro di ciuffi informi. “Avresti dovuto essere già a letto, lo sai?”

“Mi avevi detto di aspettarti.”

“Ti avevo detto che, forse, non avrei fatto tardi... c'è una differenza sostanziale in questo.”

“Obiezione... vostro onore.”

Jack sorrise.

“Obiezione respinta, cervellone. Domani hai scuola.”

La smorfia di Matt non gli sfuggì, così come non gli sfuggì la lunga occhiata che gli diede.

“Forse hai bisogno di punti lì”, le dita a indicare le ferita ormai sedata.

“È solo un taglio. Ho bisogno di una doccia.”

“Questo è vero. Puzzi di pipì di cane.”

“Grazie”, fece finta di annusarsi e di certo non riuscì a dire di non avere addosso un olezzo che certo poteva ricordarla.

“Hai vinto stasera?” l'unica domanda che sperava di non sentirsi rivolgere.

“Sì e no.”

“Significa che sei andato al tappeto?”

“Significa che poteva andare meglio”, gli mise in mano una busta piena di soldi, “ma poteva andare anche molto peggio.”

“Wow...”

“Già...” wow. Una paga meritata. La magra consolazione di non stringere fra le mani una manciata di soldi sporchi.

Non che quelli non servissero a pagare le bollette. O la rata della scuola.

“Il gelato lo hai preso?”

“Posso farlo domani. Adesso ti porto a dormire.”

Lo spronò a rimettersi in piedi. Ma lo vide rifiutare il suo aiuto.

“Oggi mi sa che sono io quello che deve mettere a letto te.”

Matt gli porse la mano. E non fece obiezione.

Era convinto di essere lui quello che si prendeva cura del ragazzo, che provvedeva al suo benessere, che si assicurava che continuasse a studiare, che mangiasse roba sana, che fosse in grado di sopravvivere in quello schifo di quartiere.

Ma alle volte si chiedeva se non fosse tutto il contrario.

Se non fosse Matt che si prendeva cura di lui. Se lui... e quella Maggie che a malapena veniva nominata in casa, non fossero gli unici motivi che lo tenevano ancorato alle cose buone... della vita.

Che scacciassero via quel demonio che gli bruciava nello stomaco che cercava di non mostrare mai a nessuno, dentro quelle quattro mura.

E se mai fosse servito ricordare perché lo facesse, era nella stretta di quella mano che trovava sempre la risposta.

Strano come il dolore che lo aveva prostrato tutta la sera ora non fosse che un leggero fastidio diffuso.

Forse è così che ci si sente, a camminare sulla linea di demarcazione.

Fra luci e ombre.

 

*

 

Note:

Appassionarsi a Jack Murdock non era preventivato, ma è successo. Ed è successo un bel po' dopo la maratona della serie della Netflix. Perciò è a lui che dedico il mio primo tentativo di fanfiction su Daredevil.

Alcuni elementi sono stati ispirati dal fumetto di Miller/Romita. Niente di eccessivamente spoileroso. Maggie, come potrete intuire, è la madre di Matt, di cui... non rivelerò un bel niente. L'elemento religioso però non è casuale.

Grazie a chiunque sia passato di qui.

 

 

  
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Daredevil (Netflix) / Vai alla pagina dell'autore: Sheep01