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Autore: BlackDrake    10/05/2015    0 recensioni
Un uomo viene rapito e abbandonato all'interno di un dedalo di catacombe apparentemente senza via d'uscita. Si ritrova con sé stesso, con la paura e la voglia di uscirne. Ma soprattutto la speranza. Non adatto ai claustrofobici e molto, molto angosciante.
Da leggere con l'ausilio dell'ascolto consigliato di Danse Macabre di Camille Saint-Saëns.
Genere: Drammatico, Storico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Mi presero senza un motivo. Mi trascinarono sul carro. Mi strinsero uno straccio intorno al capo per bendarmi.
Un attimo dopo sentii l'urlo del cocchiere e lo schiocco della frusta che mettevano in moto i cavalli.

La corsa era frenetica, sentivo le povere bestie che galoppavano con forza nel dedalo di strade della capitale. Il suono dei loro zoccoli che scalpitavano contro i lastroni bianchi era la cosa che più mi travolse il cuore.

CLOP! CLOP! CLOP!

CLOP! CLOP! CLOP!

CLOP! CLOP! CLOP!

Era incessante. Incessante!
Provai a gridare: «Chi siete?!» Nessuna risposta. «Dove mi state portando? Cosa volete?» Altri silenzi. «RISPONDETE!»

CLOP! CLOP! CLOP!

CLOP! CLOP! CLOP!

CLOP! CLOP! CLOP!

«V-vi prego! Vi prego! Rispondete!»
Sentii un'altra benda estesa lestamente sulla bocca, tirata poi indietro con uno strattone in modo da stringermi contro le guance. Un groppo di saliva mi piombò inaspettato nella gola e tossii sommessamente con ancor più timore addosso.
La tosse si trasformò in singhiozzi. I singhiozzi in lacrime.
Così frignando fui trascinato fuori preso da sotto le ascelle. Sentivo le ginocchia raschiarmi sul terreno. Eravamo in campagna, riconobbi le pietre di un sentiero irregolare e degli sporadici ciuffi d'erba che mi frustavano le cosce.
Volevo dire qualcosa, volevo gridare, ma il bavaglio m'impediva di sillabare qualunque parola di senso compiuto. Si sentivano solo mugugni e lamenti, nelle mie orecchie. Nelle LORO orecchie.
«Portalo qua» disse uno. La sua voce era spessa e ruvida. La voce di qualcuno che ti rapisce e ti trasporta in un luogo sconosciuto in pieno pomeriggio. “È il loro capo?” Mi chiesi smettendo d'improvviso di singhiozzare. Fu giusto per ingannare il tempo. Avevo smesso di piangere ma al posto dei suoni sommessi nel silenzio si udivano i miei sospiri pesanti ovattati dal fazzoletto che mordevo incapace di fare altrimenti.
«Prendi... prendi la torcia...» furono le uniche parole che distinsi in un parlottare ben più confuso. «Ma no. Ma no!» Ancora qualcosa, ma che cosa? «Dobbiamo legarlo meglio? Anche le mani?» chiese uno. “No. No. No. Non legatemi!” Risposi io.
«Macché legarlo. È inutile» mi difese qualcuno. «Al massimo diamogli qualche bastonata.» Mi pentii di aver ringraziato quel qualcuno. “No! No, vi prego!” Cercai di sputare fuori quell'implorazione, ma probabilmente nessuno avrebbe capito nulla più che dei versi soffocati.
«Basta. Mi son rotto! Portiamolo dentro e facciamola finita.» Ripresi a piangere, sbottando come un poppante. Volevano ammazzarmi? Prendere uno stocco e trapassarmi il cuore? Spaccarmi la testa con una mazza ferrata? Freddarmi con una sputafiamme? Oppure mettermi un cappio al collo e... Mi sentii di nuovo trascinare. «In piedi! Coraggio!» impartì uno picchiandomi la punta dello stivale dietro le ginocchia. Piansi tirandomi su. Non volevo farlo, ma se non l'avessi fatto scommetto che avrebbero avuto un bastone pronto per me.
Entrammo in un luogo buio. Molto buio. O almeno così dedussi dall'improvvisa diminuzione dell'intensità luminosa sulla mia benda. Poi iniziò anche a fare freddo e percepii il lenzuolo umido dell'atmosfera pesta di quelle gallerie. Marciammo per un'ora circa, forse la metà di un'ora ancora. Avanti, a destra, sinistra, di su, di giù. Uno davanti dava le indicazioni a bassa voce. Ma non sempre. A volte poi li sentii dire “a destra” e poi invece giravamo a sinistra o andavano dritto. Era un modo per confondermi?
Perché immergermi in quel sottosuolo dimenticato da Dio? Volevano togliermi di mezzo e poi abbandonare il corpo affinché no n fosse mai ritrovato? Non si poteva scavare una buca e mettermici a dormire? Alla paura si univa la confusione e, credetemi, l'agitazione e l'incapacità di comprendere il disegno nel quale si viene coinvolti, è ancor più disarmante della certezza della pena alla quale si va incontro.
Camminammo e camminammo. Già mi dolevano le ginocchia e i piedi scricchiolavano nelle strette scarpe di cuoio morbido. Non avevo più la forza né di muovermi, né di formulare un pensiero, un barlume di lucidità che indirizzasse una domanda a quei freddi carcerieri. Ma d'altronde, non mi avrebbero mai ascoltato.
«Bene. Qui. Fermiamoci.» Li sentii finalmente giungere all'esito delle loro ricerche. Ma ero davvero contento che avevamo smesso di muoverci? Per niente. Ora veniva la mia sentenza.
«Bene, Luca» era il mio nome e fui sorpreso che mi conoscevano. «Siamo qui per punirti per il torto che hai fatto nei confronti del nostro signore. Non c'è bisogno che ti dica di chi si tratta. Tu già sai. Ogni parola in più sarebbe una perdita di tempo. Dovevamo prenderti, bendarti, portarti qua sotto. E ora ce ne dobbiamo andare. È stato un vero piacere.»
Mugugnai qualcosa per trattenerli e sentii per fortuna che il mio lamento aveva sospeso il loro passo. «Oh, sì. Questa posso anche togliertela ora, Luca.» Mi abbassò senza delicatezza il bavaglio.
«Dove state andando? Mi lasciate qua?» chiesi al nulla.
«Per Dio. Hai solo domande inutili?» Sbuffò. «Allora non avrei dovuto togliertela... Brando? Tiragli una ginocchiata.»
Sentii il tonfo contro il mio stomaco, mi contrassi andando a terra e quasi tossendo fuori le viscere. «No, scusate, voglio dire...» Cercai ma non trovai parole più utili alla mia causa. «Non mi uccidete?»
«In un certo senso lo stiamo facendo. Ma al nostro signore garbano i piani teatrali. Significativi. Rimarrai qui a marcire, e una bella storia molto raccapricciante racconteranno, di come sua signoria il duca Tarantelli ebbe a far rapir un giovine e a gettarlo nelle catacombe, al buio pesto. Da solo. Allor il giovine Luca vagò per giorni, invano, finché non venne a crepare.» E di qui partirono in una grassa e prolungata risata.
Mi scossi, tentennai e non trovai la forza di alzarmi in piedi per picchiarli e andarmene. In men che non si dica non li udii più che lontanissimi, remoti e silenziosi. Mi tolsi la benda rapido, ma non ci fu alcun miglioramento. Era davvero buio, più buio di quando avevo chiuso gli occhi sotto quella fasciatura, più buio della notte e della stanza da letto quando si veglia. Un così buio e nero che mi entrava dentro e mi lasciava cieco e muto. Non avevo lacrime e non c'era bisogno e motivo di piangere ora, potevo solo farmi forza che un rimedio l'avrei trovato. Una strada, uno spiraglio: qualcosa sarebbe saltato fuori. Dopotutto non poteva essere impossibile, vagando vagando, il caso prima o poi mi avrebbe portato all'uscita. Non dovevo perdere le speranze... e non le persi.
Mi alzai aiutandomi con la presa sulla ruvida parete. Zoppicai sopportando quella fitta. Dovevo ignorarla, non potevo preoccuparmi di un male minore di fronte alla situazione in cui ero. Era davvero finita? Quel nulla sarebbe diventato la mia tomba? Un fantasma... sarei diventato niente più che un fantasma ad infestare quei cunicoli. E chissà quanti altri erano stati portati lì a perdersi, a dannarsi, a non raggiungere mai le morte del paradiso, maledetti dagli uomini e condannati a rimanere questa terra amara.
“Avanti Luca, cammina. Continua a camminare. Segui la strada, probabilmente da questa parte sei venuto, basterà andare dritto e se mi sbaglierò tornerò indietro un poco, alla prima via libera andrò ancora avanti e così via.” M'illudevo. Solo illusioni quei pensieri che mi frullavano in testa periodicamente ogni volta che mi fermavo per un momento a pensare, a riprendere fiato, a riflettere. A sperare. “No, così diventerò pazzo prima di morire di fame.” Magari Dio m'avesse fatto quella grazia. Se fossi uscito di senno avrei dimenticato quell'inferno.
La galleria sembrava non finire mai. Scorrevo con la mano sinistra lungo la roccia, per non perdere l'orientamento, per non smarrire la strada e sapere fermamente dove stavo andando. Anche questa una pia illusione, perché arrivato in fondo sarei stato al punto di partenza. E dopo poco, dopo non so quante svolte, mi dimenticai da dove ero venuto e dove ero andato.
Iniziai a piangere. Avevo dimenticato le lacrime all'entrata della caverna, ma ora ripresi a ricordarmele, i loro sapore salato, la loro vischiosità. E mentre le mandavo giù mi accorsi che avevo sete e più cercavo di berle, credendo che mi avrebbero dissetato, più ne avevo bisogno. “Avrò più fame o più sete? Sarò più stanco o assonnato?” Domande. Domande. Domande inutili, domande stupide. “Cammina ancora.” M'impartii. “Non piangere. Cammina.” «AIUTO!» gridai tra i pianti. «Non chiamare aiuto, non c'è nessuno qua.» Mi accorsi di aver appena pensato a voce alta. O parlato da solo? “Ecco... ecco i primi...” «...i primi segni della follia.»
«Ma da quante ore sono qua?»
«Non lo so.»
Dovevo andare avanti, iniziavo a credere che... «più persone dimorassero il mio spirito.»
O Dio... «O Dio, dammi la forza. Guidami. Non abbandonarmi. Non permettere che i diavoli dell'Inferno mi conducano alla dannazione. Alla perdizione. Alla follia. Il germe della follia, tienilo lontano da me. Proteggimi. Aiutami Dio.»
Ecco. Sì. Dio era con me. Lui era lì con me, là sotto.
Gesù Cristo Nostro Signore era sopravvissuto 40 giorni e 40 notti nel deserto. Da solo. Laddove c'era solo sabbia per miglia e miglia. In ogni direzione, per ogni quadrato di un miglio per un miglio. E il Diavolo l'aveva tentato. Ma lui aveva resistito.
Dio mi condusse per quelle sale, m'impedì di cadere in un baratro, quando sentii la palma del mio piede che calpestava il vuoto. Mi ero tolto le scarpe, così avrei sentito con più fiducia la terra sotto i miei piedi, l'avrei abbracciata con le falangi delle mie dita, l'avrei conosciuta e non mi avrebbe tradito.
Credo che ad un certo punto mi denudai anche. Non sentivo più freddo. E nemmeno caldo. E anche la fame stava passando. Fu un sollievo.
Dopo molto tempo dissi: «Ecco! Ho trovato!» Fui felice, perché nella pazzia un lampo di luce (e questo probabilmente grazie a Dio) si accese nelle mie cervella e mi diede un indizio per orientarmi in quella dannazione. Raccolsi una pietra e con essa iniziai a segnare rabbiosamente le terminazioni di tutti i percorsi che facevo. Là, giusto sugli spigoli, o in fondo alle pareti. Una bella incisione a forma di croce con un fiocco alto, ad altezza di braccio. Così se fossi passato due volte dalla stessa strada mi sarei detto: «Stupido! Sei già passato di qui! Torna indietro, cambia strada.»
E capitò molte volte. Oh, sì. Molte e molte volte. Ma nella mia piccola e ossuta mente, la mappa di quel labirinto, stava prendendo strada. «Luca l'architetto» mi divertii a chiamarmi!
Le strade si facevano intricate: si incrociavano, salivano, scendevano, morivano, si spezzavano, volavano giù in pozzi profondi dove mi dilettavo a udire la mia eco mentre la mia voce cadeva in un silenzio che la divorava a piccoli bocconi.
Avevo trovato anche delle sale, degli antri spaziosi in cui avevo dovuto passare un buon minuto a delineare il perimetro con le mie mani ormai invase dai calli e dal calcare. Per ricordarmele ad ognuna avevo dato un nome familiare: la grande sala da ballo, il salone del trono, la cantina del vino, la camera da letto superiore e quella inferiore, lo studio, la libreria. E così via, finché non esaurii le camere a me note e passai al giardino.
Ormai dovevano essere passati quattro o cinque giorni, mentre le forze mi abbandonavano e mi ero saziato solo di un topo, troppo stupido per essersi fermato ad annusare nel mezzo delle mie gambe mentre mi ero appisolato, e di quella che credo fosse umidità. O speravo fosse tale.
Il mio progetto era finito. E gridai di gioia. Gridai così forte che la mia voce si doveva essere sparsa per forza in tutti i vicoli bui delle catacombe. Rimaneva solo una galleria leggermente in salita, una via lasciata intonsa fino ad oggi e che pregai non riservasse qualche apertura sui suoi lati, altrimenti il lavoro sarebbe stato vano. Ma anche se fosse stato, presto l'avrei saputo, perché vista la luce in fondo avrei saputo che quella era la vera strada, l'ultima che avrei percorso in quella tomba senza fine. Seguii l'andamento della roccia, notando una leggera curvatura a sinistra.
«N-no... non ci credo...» dissi in un soffio svegliando me stesso dal torpore del nulla dell'incredulità. Un diamante brillava in fondo ai miei occhi. Un lume troppo fioco per dare certezza, ma così diverso da tutto quello che mi circondava. Era la novità più bella della mia vita, il segno della speranza, la stessa del mio destino. Saltai di gioia sul posto, poi iniziai a muovermi, saltando, correndo. Non sapevo neanche più io come mi stavo muovendo. Ma fermamente sempre con la mano attaccata alla parete. Dovevo essere sicuro che quella fosse l'uscita, non una finestra, non un semplice foro. Di tanto in tanto qualche tratto cercavo di allungare la mano anche sul lato destro, volendomi dare la seconda certezza.
Quella era la strada. L'unica strada. La fuga, l'uscita, il giorno, la vita.
«Sì! Dio, grazie! Mi hai dato la forza! Io... sono vivo! Io...» Ero ad un passo! Potevo toccarla! «Io...» Ma era sempre lontana. Remota. Non vedevo mai l'esterno, gli alberi, il cielo, gli uccelli... che il mio cervello mi giocasse brutti scherzi? Gli occhi che tiro mi facevano? La luce era sempre piccola. Ora ero ad un metro, ora a pochi centimetri. Scossi la testa, allungai la mano. Un filo dorato si rifranse sul mio dito indice. «No, no, no, no, no. No. No. No! No! No!»
Infilai il maledetto dito nel buco, scavai, lo piegai. Spinsi, bestemmiai, grattai. La roccia era durissima, impassibile. Centinaia di pietre erano ammassate, migliaia di pietre. Un macigno sotto di esse. Un altro ancora. Qualcuna venne via, ma erano screzi, prese in giro. Mi abbandonai al suolo implorando e piangendo. Dopo molte lacrime e molti singhiozzi mi alzai impetuoso e pieno di rabbia, con le ossa che pungevano contro la pelle. Corsi giù lungo tutto il condotto, la mano sinistra contro il lato che non avevo percorso.
«Dove sei? Dove sei?!» gridavo alla galleria fantasma, quella che mi avrebbe portato sicuramente alla vera via d'uscita. La pelle sfregò incessantemente contro la viva roccia, sanguinai parecchio ma non m'importava. Alla fine feci tutto d'un fiato, anche la curva, mi schiantai contro il termine della galleria, sentii il mio segno contro il petto, lo grattai con le lunghe unghie. Mi persi in un pianto triste, infranto, stanco. Ora sentii tutta la stanchezza improvvisamente. La stanchezza delle grida, dei pianti, delle corse, delle mani sudate, della paura, della pazzia.
Solo un'ora più tardi tornai con la mia fidata pietra all'uscita. Alla mia tenera uscita. La mia amante desiderata. Le sorrisi, non poteva tradirmi così. Iniziai a picchiare con la mia piccola selce.

Toc Toc Toc

Toc Toc Toc

Toc Toc Toc

Toc Toc Toc

Toc Toc Toc

Deboli carezze per farla cedere. «Fammi passare dolce pietra, fammi passare» la pregai con gentilezza. «Fammi passare, ti prego.» La mia voce era mista al pianto. Docile, tremolante, come quella di un vecchio.
Ma la dolce pietra non mi fece passare.
E così, così io morii, il giovine Luca, nella sua tomba, che era stata scelta da sua signoria lo illustrissimo duca Tarantelli.

FINE

 

   
 
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