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Autore: aturiel    10/05/2015    1 recensioni
"«Dobbiamo smetterla, non possiamo più farlo. È peccato, lo sai» disse Arunte, non guardando negli occhi il suo amante.
«Non mi sembra ti interessasse fino a cinque minuti fa».
Arunte quindi lo fissò con aria truce e gli sibilò: «Andremo all'Inferno, tu e io, per questo, se non ci fermiamo e pentiamo in tempo. E io vorrei almeno avere la possibilità di non patire pene per l'eternità» e, detto questo, fece per andarsene. Ma Rinaldo lo afferrò e lo costrinse a girarsi verso di lui e lo baciò. Forse era per quello che gli era successo, per il suo passato, che ormai era sicuro che sarebbe andato all'Inferno comunque, con o senza Aru. E pensare che, però, avrebbe avuto forse la possibilità di andarci con il ricordo di quegli occhi celesti nella mente, gli faceva bramare ancora di più il contatto con l'altro."
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Terza classificata al contest "Tempo di... Tag! Third Edion" indetto sul forum di EFP da Ili91
Partecipa al contest "I only write free!" indetto sul forum di EFP da MissChiara
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri, Haruka Nanase, Nagisa Hazuki, Rin Matsuoka
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mille anni, poi altri cento'
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1279 - Perugia

Un bambino dai capelli rossi come il sangue appena sparso era seduto su un giaciglio di paglia, sotto il tetto di una casa di campagna. I suoi occhi erano chiusi, come se stesse dormendo, ma in realtà stava solamente ascoltando. Dal piano inferiore giungevano urla indistinte, urla di donna e gemiti di uomo. Pianti di neonato.
Il ragazzino dai capelli del Diavolo ascoltava le urla della madre che veniva presa a forza, ascoltava i gemiti del padre ubriaco e gli strilli del fratellino di pochi mesi; ascoltava tutto ciò e si chiedeva se quelle persone chiassose fossero davvero la sua famiglia.
Passarono le ore e, dopo un po', tutto tacque. Il ragazzino allora scese di sotto e guarda: osserva una donna che singhiozzava piano nel sonno, sporca di sangue, osservava un bambino finalmente addormentato e un uomo accasciato su un fianco nel pavimento della cucina. Una volta accertatosi che tutto era tornato alla tranquillità, tornò nella sua stanza, pronto a non dormire.

La pioggia non smetteva, erano giorni ormai che continuava a cadere senza sosta, tanto che alcuni già iniziavano a sussurrare con timore che quella fosse una punizione divina per i loro peccati. Che lo fosse o meno, però, non cambiava il fatto che il nuovo raccolto di grano fosse andato nuovamente distrutto e che, ormai tutti lo sapevano, si sarebbe andati incontro all'ennesima carestia: il contadino Tommaso, quello con due dita in meno nella mano destra, era stato trovato ubriaco in una delle taverne della città e, si sa, tutte le volte che succede, da lì a poco sarebbe successo qualcosa di brutto ai pochi campi presenti in quel posto troppo inclinato per essere fiorente. Quindi la pioggia continuava a cadere e a inzuppare i terreni e gli abitanti, che divenivano ogni giorno più scontrosi, come se in ogni goccia fosse contenuta una piccola quantità di veleno che inaspriva i loro animi. E forse è proprio a causa di questo veleno che, quando un bambino che non doveva aver visto più di otto estati superò le mura, molte porte gli vennero chiuse in faccia. Nessuno aveva abbastanza denaro o risorse per prendersi cura di un ragazzino pelle e ossa, per di più se questo aveva una zazzera di capelli come il fuoco impiantata nella cute: si sa che quelli con i capelli rossi sono figli di Satana e portano solo sciagure. Probabilmente fu proprio per quella sua chioma che la sua vita fu tanto miserabile, e fu per quella sua chioma che tutti – dal panettiere Lemmo al cavaliere Ser Feliciano – lo ritennero la causa principale della pioggia e della carestia che ne sarebbe conseguita, ma nonostante ciò, gli innocenti a volte sono un poco fortunati e, in questo caso, Dio volle che una sarta, Giuliana, ebbe compassione di quello scricciolo e lo accogliesse in casa sua.
Giuliana era una donna di buon cuore, lo sapevano tutti a Perugia, ma era stata estremamente sfortunata: sorella di un cavaliere piuttosto importante, era stata data in sposa a soli quindici anni a un altro giovane e promettente ser, cugino, seppur alla lontana, di quello che era stato un Console della città; ma il matrimonio durò poco, poiché lui morì pochi mesi dopo durante una battuta di caccia. In poco tempo una serie di lutti avevano segnato Giuliana, portandola a perdere il padre e il fratello, oltre che una sorella. Aveva dunque ereditato le sostanze di famiglia, e con esse anche i numerosi debiti del padre, di cui non era mai stata a conoscenza; poco dopo era morta anche sua madre e, con lei, ogni speranza di una vita signorile: si era quindi rimboccata le maniche e sfruttando la sua abilità nel cucito, con il denaro rimasto, era riuscita ad aprire una sartoria. E, da quel momento, vi aveva lavorato senza sosta per anni da sola... o quasi.

****

Quando i battenti della porta sgangherata della sartoria si aprirono per farlo entrare, Rinaldo si sentì così sollevato che scoppiò in lacrime. Non era mai stato un bambino che piagnucolava troppo, ma veder finalmente l'interno di una casa, dopo quasi tre giorni che dormiva sulle sterpaglie umidicce per la pioggia senza toccare cibo - se non per poche bacche - aveva avuto un effetto così devastante da fargli sciogliere tutta la tensione in un sol colpo. Era così preso dal tepore che proveniva dalla stufa di fronte a lui, così abbagliato dalla tenue luce delle candele – così forti rispetto a quella della Luna – che quasi non si accorse che la donna gli aveva parlato.
«Oltre che figlio del Diavolo, anche un ragazzetto duro d'orecchi ho accolto?»
A quelle parole Rinaldo si riscosse un attimo e chiese: «Mi perdoni, mia signora, ma non ho udito le tue parole...»
«Non sono stupida, l'ho capito. Ti ho solo chiesto il tuo nome».
«Rinaldo, mia signora».
«Rinaldo e...?»
«Rinaldo e basta».
Giuliana scosse il capo con fare rassegnato, facendo svolazzare un poco i suoi lunghi capelli castani. Benché Rinaldo fosse solamente un bambino e per nulla esperto in volti femminili, era certo che sotto alle rughe d'espressione ci fossero stati un tempo dei lineamenti nobili, ma il tempo, se le aveva tolto la bellezza, certamente non aveva fatto lo stesso con la gentilezza del suo sguardo.
«E dimmi, Rinaldo e basta, come mai sei capitato quaggiù?»
Un brivido scosse le sue piccole membra di bambino: «Un uomo con un'armatura senza vessilli è entrato nel pomeriggio a casa nostra, chiedendo qualcosa da mangiare. Mio padre ha chiesto a mia sorella di andare a preparare qualcosa da mangiare e a me di portare le capre al pascolo. Sono tornato e la casa era tutta bruciata. Sono scappato via e ora sono qui» disse lui, cercando di reprimere la paura con cui aveva vissuto negli ultimi tre giorni. Finché la donna avrebbe avuto pietà di lui, sarebbe stato salvo, ma era sicuro che, appena avesse scoperto la verità, lo avrebbe cacciato via.
La donna lo osservò con occhio attento, cercando di capire se davvero ciò che stava dicendo fosse vero e, una volta giunta alla conclusione che, anche se ci fosse stata ben altra storia sotto la fuga di quel bambino, non l'avrebbe mai scoperta, con un sospiro lo fece sedere a tavola e, poco dopo, si sedette anche lei al suo fianco.
Prima però che Rinaldo riuscisse a immergere il cucchiaio nella minestra, la donna disse: «E mi chiamo Giuliana, Rinaldo, non “signora”».
Ora il ragazzino era certo che avrebbe potuto finalmente mangiare, ma di nuovo il suo pasto venne interrotto dall'entrata in scena di un altro componente della famiglia che, fino a quel momento, non si era nemmeno avvicinato. Era un ragazzetto smilzo con gli occhi blu come il mare e i capelli neri come la notte; la sua pelle era bianca e le sue labbra sottili e stringeva le manine ancora un po' paffute in due pugni. Non doveva essere molto felice di trovarsi con un altro bambino nella stessa stanza a giudicare da quei pugnetti, eppure i suoi occhi erano calmi e controllati e non tradivano alcuna emozione. Quando si sedette affianco a Rinaldo, lui si sentì subito a disagio: lo sguardo del bambino non si voleva staccare da lui, e gli sembrava che, anche se il colore ricordava tanto quello delle acque calme di un lago, lo perforassero come fossero frecce ardenti. La cosa più strana era, però, che, se tutti si soffermavano soprattutto sul colore dei suoi capelli, lui non smetteva di fissare le sue dita, e con un'intensità tale che Rinaldo stava incominciando a pensare che volesse staccargliele una a una.
Il momento di tensione fra loro due venne però interrotto in fretta da Giuliana che fece le dovute presentazioni: «Lui è Arunte, mio nipote».
«P...piacere, io sono Rinaldo» rispose lui: non sapeva cosa avrebbe dovuto dire, e quelle parole gli sembrarono le più adatte, ipotesi che venne subito stroncata però da Arunte che, ignorando il suo palese disagio, rispose: «Lo so, ho sentito».
Iniziarono così a mangiare in silenzio. Lui non aveva avuto per tre giorni un pasto caldo sotto il naso, quindi quella minestra gli sembrò la più buona che avesse mai assaggiato in vita sua, anche se i pezzi di verdura erano tagliati troppo grossi e anche se aveva un retrogusto strano che pareva tanto il sapore della tintura che sua sorella usava per dipingere i suoi vestiti. Una volta finito, la donna si alzò e disse: «Senti, Rinaldo, io ho intenzione di ospitarti qui con me, perché non me la sento di buttarti in strada, però voglio qualcosa in cambio, o i miei soldi non riusciranno a farci tirare avanti».
«Certo, certo, tutto quello che vuoi, mia signora».
«Devi darci una mano per spostare i carichi più grossi e per i lavori più pesanti: io ormai sto invecchiando, e le dita di Arunte mi servono più delle tue» poi, con uno sbuffo, aggiunse: «E non chiamarmi “mia signora”, basta Giuliana».

****

«Devi andare di là, con Arunte, e aiutarlo quando gli serve qualcosa. Mi raccomando, non toccare niente, siamo intesi?» con quelle parole la sarta aveva spedito Rinaldo nel retrobottega e lo aveva consegnato nelle piccole dita di suo nipote. Erano passati giusto due giorni dal suo arrivo in quella casa e già da quello successivo aveva incominciato a trasportare le stoffe che dovevano essere messe in vendita, ad assistere Giuliana al bancone e a fare una serie di lavoretti domestici, ma non era ancora entrato mai nel retro, quel luogo che, aveva capito, era il regno di Arunte.
Appena spalancò la stanza, si ritrovò davanti a un grosso tavolo di legno pieno di incisioni e ammaccature e coperto di stoffe di vari colori. Nei lati c'erano due scaffali ricolmi di matasse di fili di ogni spessore e sfumatura, una decina di aghi e spilli erano impiantati in un cuscinetto di piume e una grossa sedia imbottita era posta proprio in cima al tavolo. Subito Arunte si sedette su di essa e disse: «Probabilmente non avrò bisogno di te, per oggi: mi manca ancora tanto da cucire con questa stoffa» e, detto ciò, afferrò un lembo rosso e iniziò a cucire, con aria concentrata. In un primo momento Rinaldo era affascinato dal movimento veloce e preciso di quelle dite così sottili e agili, ma ben presto iniziò ad annoiarsi. Pensò quindi di iniziare una conversazione con l'altro ragazzino, ma appena fece per aprir bocca, l'altro lo zittì con un “lasciami concentrare” piuttosto seccato. Non sapeva per quanto avrebbe cucito quel giorno, ma sperava ardentemente che non fosse per troppo tempo e, per troppo tempo, voleva dire per oltre dieci minuti.

****

«Ehi, tu, mi serve il tuo aiuto».
Rinaldo aprì gli occhi, tornando indietro dal mondo dei sogni in cui era caduto per la noia e se li stropicciò un poco, giusto per permettere alla sua vista appannata di riconoscere il volto di chi lo aveva svegliato. Quando si trovò il viso di Arunte a mezzo palmo dal naso, però, fece un improvviso salto indietro che lo fece cadere dalla sedia di legno su cui si era appisolato. L'altro, completamente indifferente alla smorfia di dolore che gli aveva deformato l'espressione, lo guardò intensamente e ripeté: «Mi serve il tuo aiuto».
Rinaldo sentì la terra sprofondare sotto di lui: la Grazia divina gli aveva permesso di incontrare Giuliana e lui, come uno sciocco, si era addormentato quando avrebbe dovuto aiutare il nipote della sua salvatrice. Pensava che la donna non fosse troppo severa, ma non la conosceva ancora abbastanza bene da sapere se lo avrebbe cacciato, se avesse saputo l'accaduto. Quindi si affrettò ad alzarsi e chiese ad Arunte di cosa avesse bisogno; lui non rispose, ma si limitò a indicare con una delle sue dita sottili un rotolo di stoffa verde posto sull'ultimo scaffale, troppo in alto perché lui o Rinaldo potessero raggiungerlo.
Non capendo come arrivare a quel rotolo, Rinaldo chiese: «Ma non ci arrivo! Come faccio a prendertelo?» Allora l'altro, guardandolo come se si trovasse di fronte un essere privo di facoltà intellettive, gli disse: «Mi sembra ovvio: devi usare la scala!» e, detto ciò, indicò un insieme traballante di assi di legno piena di buchi causati, probabilmente, dai topi che aveva davvero poco in comune con una scala. Poi aggiunse: «Io non posso salirci perché altrimenti rischio di cadere e rompermi le dita e mia zia sarebbe rovinata: senza io che cucio, lei non riuscirebbe a mandare avanti la sartoria. Devi andarci tu».
Bene, pensò Rinaldo non ci può andare lui, quindi mandiamoci il nuovo disgraziato, così se qualcuno deve sfracellarsi a terra, non sarà lui. Formulato questo pensiero, Rinaldo si avvicinò alla scala e iniziò a salirci e, poco tempo dopo, riuscì miracolosamente anche a scendere con tanto di pensante rotolo di stoffa verde sulle spalle.
Appena raggiunto il suolo, Arunte afferrò il carico di Rinaldo e lo ringraziò con un impercettibile movimento del capo. Approfittando del momento di cambio della stoffa per iniziare, finalmente, una conversazione, disse: «Senti, Arunte, ma tu quanti anni hai?»
«Nove tra pochi mesi».
«E da quanto tempo sei qui con la signora Giuliana?»
«Un po'» rispose lui, evidentemente non particolarmente entusiasta di iniziare a parlare con l'altro.
«Ma perché ti ha preso lei? Non hai i genitori?»
«Più o meno».
Ora Rinaldo incominciava un po' a spazientirsi: «E, di grazia, cosa significa che hai 'più o meno' i genitori? O li si ha, o non li si ha».
«Li ho, ma non li conosco. O meglio, conosco solo mio padre, che era il fratello di Giuliana. Mia madre non so chi sia, io sono un bastardo e mia zia mi ha accolto, per le mie dita» e lo disse con una freddezza tale che Rinaldo non riuscì nemmeno a capire se fosse arrabbiato con lui o meno. Si rese conto di non essere stato molto cortese, quindi da quel momento decise che se mai avesse conosciuto il passato e i pensieri di Arunte, lo avrebbe fatto solo se l'altro si fosse confidato con lui. D'altronde lui per primo non sopportava chi gli faceva troppe domande: la sua vita era sua e di nessun altro.
«Senti, Arunte... scusami, io...-»
«Non scusarti,» lo interruppe lui: «non mi interessa di essere un bastardo. Finché ho le mie dita, avrò Giuliana, e tanto basta».
Dopo ciò, nessuno dei due si rivolse più la parola per tutto il pomeriggio, anche perché Arunte era concentrato nel suo lavoro di sarto e non aveva certamente tempo per rispondere alle sue curiosità. D'altro canto Rinaldo aveva smesso di annoiarsi: una farfalla bianca come la neve era entrata nella stanza e si era posata in un angolo non troppo lontano dalla sua vista. Prima che lui riuscisse però a staccare gli occhi da quel grazioso animale, un ragno nero dalle lunghe zampe si avvicinò; la farfalla quindi tentò di spiccare il volo ma, senza accorgersene, era rimasta impigliata nella tela trasparente. Il ragno quindi aspettò che l'insetto, dibattendosi, vi si intrappolasse ancora di più e, solo dopo, si avvicinò ancora di più e la divorò, con calma.







 




Note:
Il Ragno: Ci riporta all’infinito, rappresentato dal numero otto come le sue zampe, ricordandoci le sterminate possibilità del creato. Come il ragno tesse la sua tela, l’uomo intreccia faticosamente la trama e l’ordito della propria vita in un susseguirsi di responsabilità. Gli individui che non hanno assimilato questo concetto rimangono prigionieri della loro ingannevole realtà sulla quale non hanno nessun controllo. Il Ragno ci insegna anche a voltarci indietro verso tutto ciò che ha contribuito a rendere tale il nostro presente.
I nomi li ho presi da Wikipedia, da un elenco di nomi medievali. Li ho scelti in base al loro suono, cosicché ricordano quello del nome originale.

Rinaldo → Rin

Arunte → Haru

 

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