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Autore: yelle    10/05/2015    11 recensioni
"Aveva quindici anni.
Bella Talbot non aveva mai visto qualcuno morire, prima di quel giorno.
"
Una storia sul legame indissolubile e sovrannaturale fra amore e morte.
NOTE: questa storia partecipa al contest indetto dal gruppo facebook 'EFP recensioni, consigli e discussioni'.
Genere: Dark, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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NDA: come scritto nell'intro, questa storia partecipa al contest indetto dal gruppo facebook “EFP recensioni, consigli e discussioni” dal titolo 'una idea, più storie'.
Il prompt assegnatomi è il seguente: storia dove viene descritto un omicidio. Non deve per forza finire con l'arresto dell'assassino, ma deve essere presente nella storia il momento tragico e i pensieri del killer.
In gruppo insieme a me ci sono Federica Martina e Vittoria Mazzi.
Buona lettura!


** **




te amo como se aman ciertas cosas oscuras,
secretamente, entre la sombra y el alma.

- Pablo Neruda, Sonetto XVII


** **


La donna sembrava decisa a non parlare.
Sedeva rigida sull'asettico letto di ospedale in cui aveva passato le ultime trentadue ore, fissando lo sguardo su ogni minimo ed insignificante particolare che l'aiutasse ad evitare l'occhiata dell'uomo che le sedeva di fronte.
Alto, sbarbato e con occhi gentili, indossava la divisa di poliziotto con serenità e si mostrava paziente davanti al forzato mutismo di lei.
“Signora,” riprovò, “lo so che per lei è difficile, ma credo possa capire l'importanza che ha la sua deposizione ai fini dell'indagine in corso. Stiamo facendo del nostro meglio per trovare chi le ha fatto questo,” disse accompagnando le proprie parole ad un gesto vago della mano, in direzione del volto segnato e costellato di graffi e lividi. “A chiunque sia stato non dovrebbe essere data l'occasione di farlo di nuovo. Lo capisce?”
Nessuna risposta, nemmeno sepolta da qualche parte nelle iridi color argento che rimasero fisse su di lui.
Non le sarebbe stato così semplice liberarsi di lui però. L'uomo, poliziotto ormai da più di una decade, non era solito desistere di fronte ad una sfida, e ne aveva superate di ben più dure. Senza darsi per vinto, si alzò dalla sedia, si chinò a raccogliere una grande busta bianca e con poche ma efficaci falcate delle sue gambe lunghe si avvicinò al letto della paziente. Dalla busta estrasse tre fotografie, grandi, a colori, e le posizionò sulla coperta sotto la quale riposavano le gambe distese della donna.
“Questo,” pronunciò con voce decisa mentre le piazzava sotto al naso la prima foto, senza darle altra scelta se non quella di fissare l'immagine, “è la casa in cui è stata ritrovata. La riconosce?”
Un guizzo comparve negli occhi della sconosciuta, subito celato dietro una compassata freddezza, l'unica cosa che sembrava essere disposta a concedere. Ma era stato abbastanza. L'uomo aveva notato quell'attimo di debolezza, e ora aveva tutta l'intenzione di afferrarla ed utilizzarla a suo favore.
“L'abbiamo ritrovata qui,” disse additando con precisione un angolo della cucina ritratta nella foto. “Riversa sul pavimento, priva di sensi e con un coltello conficcato nel torace. Se la lama non ha reciso arterie o organi vitali lo deve solo alla sua fortuna. Come può vedere dalla foto, al momento del ritrovamento la casa era sottosopra, la cucina imbrattata di quello che abbiamo scoperto essere esclusivamente il suo sangue. Viste le condizioni delle sue mani abbiamo potuto presumere che abbia lottato, che si sia difesa, ma sotto le sue unghie non abbiamo trovato abbastanza materiale per poter effettuare un test del DNA. Siamo in un vicolo cielo, signora, e l'unico indizio che ci rimane da analizzare è lei. Deve raccontarmi cosa è successo, chi l'ha picchiata fino a farle perdere i sensi, e che motivo poteva avere questa stessa persona per volerla morta.”
Lo sguardo della paziente si mosse repentino, passando dalla foto nel suo grembo al volto dell'uomo. Nessuna emozione riuscì ad erompere, ma già quel movimento gli suggeriva qualcosa. Era sulla strada giusta.
“Si rende conto che quell'uomo, chiunque sia, ha tentato di ucciderla? E che, non essendoci riuscito, potrebbe riprovarci?”
Gli occhi si ingrandirono, le pupille si fecero rotonde, grandi, fino quasi a nascondere il color acciaio delle iridi. Cos'era, quella davanti a lui? Paura? Rabbia? Non riusciva a decifrarla.
Con un gesto veloce della mano buttò le altre due fotografie sopra la prima. Una ritraeva la stanza da letto, in disordine esattamente come il resto della casa, ma apparentemente priva del minimo segno che indicasse che la lotta fra la donna e il suo aggressore fosse avvenuta in quella particolare stanza.
La terza era una fotografia della sconosciuta davanti a lui al momento dell'arrivo in ospedale, prima che le infermiere si prendessero cura dei tagli, prima che il suo volto fosse ripulito del sangue rappreso. La prima volta che la vide, l'uomo aveva avvertito una stretta allo stomaco. Gli anni di anzianità non l'avevano reso avvezzo a certe immagini di violenza gratuita, sperava non l'avrebbero mai fatto.
Abbandonò le foto nel grembo della donna. “Me ne vado, prima che qualche infermiera irrompa qui dentro e mi sbatta fuori per aver disturbato il suo riposo. Sarò di ritorno domani alla stessa ora, nel caso le venga voglia di parlare.”
Senza degnare la donna di un'occhiata in più, si voltò e raggiunse la soglia. Quando la oltrepassò la sua visuale venne riempita dalla figura imponente di un medico.
“Dr. Ross,” lo salutò mentre chiudeva la porta dietro di sé. Tese una mano in segno di saluto, cordiale. La stretta dell'altro fu gentile, ma ferma.
“Agente Phyton. Potrei dirle che è un piacere rivederla, ma in realtà non lo è mai. Anche oggi è qui per lavoro?”
Il poliziotto sorrise, per nulla risentito. Seguì l'uomo lungo il corridoio, verso l'ascensore situato all'altra estremità.
“Immagina bene. Le dispiace se le faccio qualche domanda sulla paziente della stanza 505?”
“Faccia pure. Lo sa però che non sono tenuto a rispondere a qualsiasi domanda possa ledere la privacy della paziente.”
“Certamente, ma sono altrettanto sicuro che lei sappia che c'è un'indagine in corso ed un'accusa di intralcio alla giustizia sempre pronta. Ora, può dirmi se qualcuno in questi giorni le ha fatto visita?”
“No, sembra che nessuno sia venuto ad accertarsi delle condizioni della donna. Non avete saputo ancora niente sulla sua identità?”
Il poliziotto scosse la testa. “No. Niente documenti, e la vittima si ostina a non voler parlare. La casa in cui è stata ritrovata è intestata ai coniugi Misfits, ma ancora non siamo stati in grado di rintracciarli, perciò non abbiamo alcuna informazione riguardo il legame che la donna può avere con i due anziani.”
“La vicina di casa che ha chiamato l'ambulanza non ha saputo dire niente di utile?”
“No, solo che ha chiamato la polizia dopo aver sentito grida e rumori violenti provenire dall'interno della casa. Mentre attendeva l'arrivo dell'ambulanza ha giurato di non aver visto nessuno uscire, perciò presumiamo che sia uscito dal retro.” Questo poteva significare che l'uomo conoscesse la casa, ma questo non lo disse a voce alta.
“Presumete che il colpevole sia un uomo?”
“Sì, senza dubbio. Ci vuole una certa forza fisica per ridurre una persona, seppur donna, in stato di incoscienza, senza contare le costole fratturate. Non sono stati trovati possibili oggetti contundenti, quind-...”
“Sì,” lo interruppe il dottore. “Le ferite della donna sono compatibili con l'utilizzo della sola forza fisica. Posso dire con relativa certezza che non è stata utilizzata su di lei alcuna arma. A parte il coltello, ovviamente.”
“Ovviamente. A proposito di questo... vorrei porre la stanza della paziente sotto stretta sorveglianza.”
“Di questo dovrà parlarne direttamente con il direttore dell'ospedale, ma vista la situazione e l'indagine in corso non credo ci saranno particolari problemi. Pensate che l'uomo possa riprovarci?”
“Diciamo che non sarei per nulla sorpreso se capitasse qualcosa alla paziente. Metterò un paio di uomini fuori dalla porta, non dovrebbero essere di troppo disturbo.”
Ding.
Di fronte a loro, le porte dell'ascensore si aprirono, rivelando la cabina vuota. Il poliziotto entrò, mentre il dottore rimase fuori, fermato da un'infermiera occupata a tendergli dei documenti da fargli firmare.
“Dr. Ross,” chiamò l'uomo, “mi tenga informato nel caso la paziente decida di iniziare a collaborare.”
L'altro lo guardò con serietà e chinò il capo in un cenno d'assenso, appena prima che le porte metalliche si chiudessero e gli impedissero la vista del poliziotto.


** **


Bella Talbot sapeva di aver sbagliato tutto.
Come aveva potuto essere così stupida?
Il giovane poliziotto aveva ragione, era stata solo la fortuna ad impedirle di morire dissanguata sul pavimento di quella cucina. Chissà perché, rifletté la giovane mentre si teneva le costole doloranti con una mano, nonostante ciò non riusciva a sentirsi per niente fortunata.
Il silenzio in cui l'ospedale era immerso strisciava intorno a lei, ostile, minacciandola fra le spire di un sonno che non poteva permettersi.
In piedi in mezzo alla stanza, attenta a non fare il minimo rumore, la donna decisa a non parlare decretò che era tempo di agire. Aprì il piccolo armadietto metallico che conteneva i suoi effetti personali, afferrò i vestiti e li gettò senza la minima cura sul letto poco distante. Poi la borsa, le scarpe – no, niente scarpe. Qualcuno doveva avergliele buttate via dopo aver visto le disastrose condizioni in cui versavano. Pazienza, avrebbe dovuto fare senza.
Con movimenti lenti, tentando di non curarsi delle fitte di dolore da cui il suo corpo stanco era tormentato, si tolse il camice ospedaliero e si diresse verso il piccolo bagno. Tentando di ignorare i brividi di freddo che le percorrevano la pelle in piccoli cerchi si risciacquò come meglio poté data la rigidità dei movimenti, tornò in camera e si vestì con gli stessi abiti che aveva addosso nel momento in cui era stata portata al pronto soccorso.
Avvolta da un silenzio irreale, la pianta nuda dei piedi a contatto con il pavimento freddo ed inospitale, la donna poggiò la mano sulla maniglia della porta e l'aprì, giusto uno spiraglio che le permettesse di intravedere il corridoio.
Nessun rumore né suono le giunse alle orecchie. Facendosi coraggio aprì la porta un po' di più e si affacciò sulla soglia.
Nessuno in vista. Era il momento perfetto. Il momento di andarsene da lì.
Lasciandosi la porta chiusa alle spalle, rasentando i muri, si immetté nel corridoio e percorse le poche centinaia di metri che la separavano dall'ascensore. Quando al suo udito arrivarono suoni di persone in avvicinamento, però, deviò ed aprì la prima porta che si ritrovò davanti. Per sua fortuna, era la porta che dava sulle scale interne.
Quando qualche minuto dopo si ritrovò finalmente in strada, su di lei calò l'improvvisa presa di coscienza del proprio stato. Ferita, dolorante e a piedi nudi, non aveva un posto dove andare.
Aveva però qualcosa da fare. Doveva portare a termine ciò che aveva iniziato.
Doveva uccidere qualcuno.
L'ultima volta, in quella casa, era stata disattenta. Troppo audace. Presuntuosa.
Aveva seguito l'uomo immaginando che l'età avanzata gli avrebbe impedito di lottare troppo strenuamente contro di lei. Si era sbagliata, e il coltello che portava sempre con sé aveva finito per essere usato contro di lei.
Lei si era risvegliata al pronto soccorso, mentre l'uomo era riuscito a scappare.
Non era andato alla polizia però. Di questo ne era certa, altrimenti il poliziotto che era venuto a farle domande non l'avrebbe trattata come la vittima di un tentato omicidio, quanto come l'assassina che in realtà era.
E tutto sarebbe finito prima che avesse ottenuto ciò per il quale ogni cosa aveva avuto inizio.


Aveva quindici anni.
Bella Talbot non aveva mai visto qualcuno morire, prima di quel giorno.
Tornando a casa da scuola, ancora prima di entrare in casa, ferma sulla soglia davanti alla porta chiusa, sapeva che c'era qualcosa di orribilmente ed irrimediabilmente sbagliato, nell'aria. Lo sentiva, così come poteva sentire il profumo del glicine in piena fioritura, in quell'inizio di primavera. Quel giorno era diverso da qualsiasi altro. Quel giorno lo avrebbe ricordato per sempre, aveva pensato ancora prima di sapere o poter capire perché.
“Papà?” chiamò la spaventata quindicenne mentre apriva la porta di casa.
I suoi passi sul pavimento dell'ingresso non ebbero alcuna risposta, se non il suono sordo ed accelerato del proprio cuore contro la gabbia del proprio torace.
“Papà?” ripeté a voce più alta. Al suo udito arrivò il fantasma della risposta che suo padre ogni giorno usava urlarle dal proprio studio, “Qui, mia piccola Bella!”, con la propria voce roca e la cadenza che tanto bene conosceva.
Ma non oggi. Oggi solo il silenzio accompagnava i suoi passi.
Con l'ansia che le attanagliava i polmoni, la ragazzina percorse l'ingresso e il lungo corridoio fino a trovarsi di fronte alla porta chiusa. La grande porta di legno dello studio che solitamente a quell'ora era sempre aperta, pronta ad accogliere il suo arrivo, a darle il benvenuto prima dell'uomo che vi si trovava sempre dietro.
L'assenza del minimo suono o rumore era ormai opprimente fino al punto da impedirle il respiro, ma non trovò la forza di chiamare nuovamente l'uomo che sapeva essere dall'altra parte, perché l'assenza di risposta la spaventava più dell'incertezza.
La sua mano si aggrappò alla maniglia della porta, e non la lasciò andare nemmeno un secondo. In qualche modo sapeva che le proprie gambe avrebbero potuto venir meno al loro dovere di sostenere il suo peso.
Lentamente, i sensi all'erta, oltrepassò la soglia.
All'iniziò pensò ad uno scherzo, una burla innocente, un esperimento per testare la resistenza del ventilatore. Quante volte davanti al padre Bella aveva espresso i propri dubbi a riguardo, immaginando quello stesso ventilatore cadere sulla scrivania, mettendo in disordine la stanza e le carte su cui ogni giorno suo padre lavorava strenuamente. Altrettante volte, suo padre l'aveva presa in giro per quello. Forse ora stava semplicemente mostrandole quanto fosse resistente.
Ma un secondo più tardi lo seppe. Perché se davvero stesse testando la resistenza del ventilatore, non lo avrebbe fatto appendendocisi per il collo con la propria cintura di pelle, quella che ogni mattina con tanta cura estraeva dal cassetto e poggiava sulle coperte del letto prima di vestirsi. Il suo corpo non sarebbe stato flaccido e penzolante in un movimento rotatorio lento e disumano. Il suo volto non sarebbe stato viola, e gonfio, e brutto, ed irriconoscibile. L'avrebbe invece guardata, le avrebbe sorriso, le avrebbe detto qualcosa e poi avrebbe riso, di quella risata adulta e gentile che riservava solamente a lei.
Non urlò. Non pianse.
A malapena respirò.
Il cuore continuò a battere.
Il tempo continuò a scorrere.
Il corpo continuò a ruotare, agonizzante nella sua lentezza. Bella era consapevole che niente che respirasse e vivesse aveva mai posseduto un volto come quello su cui era inamovibile il suo sguardo in quegli istanti.
Stava ancora fissando quel volto diventato sconosciuto quando avvertì un'altra presenza.
Non umana, perché non udiva alcun respiro, né calore umano.
Ma era... qualcosa.
Un sospiro. Un refolo di vento.
Il sapere che non era sola.
E poi lo vide.
Camminava con la sicurezza di chi sa che il mondo gli appartiene. Come se lui stesso appartenesse a quel luogo, a quella casa.
Non la guardò quando le passò di fianco sulla soglia. Come se non esistesse, come se non fosse lì.
Vestito completamente di scuro. Giacca nera, camicia nera, cravatta nera.
Anche i suoi capelli erano neri. Lucidi, la luce del giorno si rifletteva sui riccioli ordinati e pettinati all'indietro.
Il viso era pulito, rasato. Il naso aquilino attirava su di sé tutta l'attenzione, ma in qualche modo – pensò la ragazzina – gli donava.
Senza alcuna emozione impressa nei lineamenti del volto, l'uomo si avvicinò alla figura appesa per il collo ed allungò un braccio verso di lui. Fu allora che Bella parlò.
“Che cosa stai facendo a mio padre?” sussurrò. Avrebbe voluto urlare, ma non aveva la voce, e non aveva i polmoni.
Lo sconosciuto sussultò un attimo prima di voltarsi a guardarla. Sembrava... incredulo. Sconcertato. La fissò e non si mosse. Sembrava quasi in attesa. Di cosa, lei non sapeva dirlo.
“Che cosa stai facendo?” ripeté.
L'uomo sembrò riscuotersi dal suo apparente e momentaneo stato di torpore. “Io?” chiese.
Bella non si lasciò distrarre dalla voce profonda, roca e scura dello sconosciuto.
“Vedi qualcun altro in questa stanza che potrebbe rispondere?” chiese adirata la quindicenne, una parte di lei grata di avere qualcuno contro cui ritorcere la propria rabbia.
Non lo vide muoversi. Seppe solo che un attimo prima era accanto al corpo senza vita di suo padre, e quello dopo la fissava negli occhi, così vicino a lei che il suo respiro era caldo sulla propria pelle. Fu percorsa da un brivido, ma non indietreggiò. Non voleva lasciarlo vincere così facilmente.
C'era qualcosa, scritto nei suoi occhi neri come pece. Qualcosa di indecifrabile, inafferrabile, che non di meno lei provò a cogliere. Ma quel qualcosa fuggì prima che la sua giovane mente potesse iniziare a formare un qualsiasi pensiero. In lei rimase solo il ricordo di un'oscurità profonda, così inabissata in quegli occhi sconosciuti da trovare radici oltre quel corpo di carne ed ossa, nell'infinito universo che viveva e si muoveva intorno a loro.
“Chi sei?” gli chiese, sicura che non avrebbe ricevuto risposta, che non avrebbe più udito quella voce così insolita, così profonda.
Ma lui, invece, parlò.
“La vera domanda,” disse, non mancando di fissarla con curiosità, “è chi sei tu.”
“Io sono Bella,” rispose lei con semplicità, allungando una mano.
Venne colta di sorpresa dal movimento repentino di lui, che balzò all'indietro assumendo un'espressione orripilata del volto.
“Non toccarmi.”
Il tono autoritario di quella voce non la spaventò. “Non toccare mio padre,” rimbeccò.
Gli spigoli negli occhi dello sconosciuto vennero improvvisamente smussati dall'espressione che gli animò il viso. “Temo che questo non sia possibile.”
“Perché?”
“Perché...,” iniziò, prima d'interrompersi. Non sicuro di come poter spiegare ciò che avrebbe voluto. “Perdona la mia confusione, ma onestamente questa è la prima volta che mi capita una cosa simile. Che qualcuno riesca a vedermi. È tutto piuttosto... bizzarro.”
Anche il sorriso dell'uomo era bizzarro, pensò Bella. Sbilenco, tirato. Quasi – rifletté – come se non fosse abituato ad utilizzarlo.
“Non so nemmeno da dove iniziare,” continuò lui.
“Perché non inizi con il dirmi il tuo nome?”
Passò un secondo prima dell'istante, di quell'unica parola che avrebbe per sempre cambiato il corso della sua esistenza. Un secondo che era uguale a tutti quelli che l'avevano preceduto, ma che portava in punta di palmo un'amarezza che la ragazza non avrebbe mai riconosciuto, né saputo della sua esistenza. Era l'amarezza del rimorso, quella dell'irraggiungibile passato.
“Morte,” rispose con la voce che racchiudeva i segreti dell'universo. “Io sono la Morte.”


La sua vita quel giorno era cambiata.
Il giorno dell'incidente di suo padre, dieci anni prima. Il giorno in cui i propri occhi erano andati a poggiarsi sul suo corpo appeso per il collo, impegnato in un leggero movimento rotatorio che suggeriva il funzionamento del ventilatore. Ma era semplicemente mosso dal vento che entrava dalla finestra.
Quel giorno aveva scoperto di non essere una persona qualunque, di essere diversa da tutti.
Quel giorno aveva visto la Morte, nei panni di un giovane uomo vestito completamente di nero.
Ed era sicura che quello era anche il giorno in cui aveva iniziato a conoscere l'amore.
Ed arrivò il giorno in cui amò la Morte, così tanto da fare male.
L'amore che paralizza il cuore fino a spezzarlo.
Gli occhi erano accecati.
Le parole avvelenate.
Dall'amore sovrannaturale.
L'amore raro.
L'amore che punge le dita e cambia il mondo.
Un amore che le annebbiò la vista e le sporcò il cuore.
Un amore che la macchiò di colpe inenarrabili, che la colorò del sangue delle sue vittime, che la rese un assassina.
Solo per un suo sguardo. Solo per una sua parola.
Solo per poterlo guardare, ancora una volta.
Ogni volta era l'ultima, tentava di convincersi.
Ma non lo era mai.


Per strada, sotto la pioggia ancora battente, nel buio illuminato dai neon, comparve un solitario taxi giallo, l'insegna sul tetto illuminata a catturare l'attenzione di chi aveva occhi per guardare. Fece un passo avanti, i piedi imbrattati del sudiciume del marciapiede, e allungò un braccio nella sua direzione. Ricambiò lo sguardo dell'autista ed accettò il suo cenno d'assenso come una rassicurazione che quel taxi sarebbe stato suo.
Attorno a lei altre persone – figure buie coperte dall'ombra – si avvicinarono con lo stesso scopo, rubarle ciò che era già stato deciso essere suo; ma Bella era una donna forte, nonostante l'apparenza fragile e delicata. Non era solita accontentarsi di un 'no' come risposta, ed era estremamente raro che non vincesse ciò per cui lottava.
Per questo motivo quando avvertì sulla propria schiena il calore di una mano estranea spingerla via per poter prendere il suo posto all'inizio della fila, la donna d'istinto alzò il gomito e lo piantò nel volto dello sconosciuto. Non si fermò nemmeno quando udì il suono crudele dello spezzarsi dell'osso del naso.
“Oooww!” ululò l'estraneo portandosi le mani alla faccia. “Stronza!”
Ma Bella non aveva tempo di dare retta ad insulti di cui nulla le importava. Con un balzò superò la donna che aveva approfittato del breve alterco per prendere possesso del taxi, le impedì di salire e prese il suo posto all'interno dell'abitacolo.
“Dove?” provenì la voce dal sedile anteriore.
Bella scosse i capelli bagnati. “Nord,” rispose vaga, e la macchina iniziò a muoversi.
Il suo sguardo si fissò oltre l'umidità che poggiava sul vetro del finestrino, sulle luci della città che scorrevano ignare accanto a loro. Sotto quelle luci, ombre fuggivano per le strade, brandendo ombrelli, sogni, speranze. Dubbi. Paure ed orrori. In ognuna di quelle ombre, Bella era in grado di vedere ogni apice ed ogni abisso della natura umana. Li conosceva bene entrambi.
Al riparo, chiusa nello spazio ristretto dell'abitacolo, Bella si sentiva lontana, estranea a tutta quella vita, alla normalità delle loro esistenze. Perché lei era diversa.
Lei sapeva cose che gli altri ignoravano.
Amava qualcuno che non era di questo mondo, di un amore che andava ben oltre ogni speranza umana di poter raggiungere.
Era diversa, e non c'era niente che la facesse più felice.
Il suono di un clacson la riscosse bruscamente dalle proprie riflessioni.
“Stupido idiota,” borbottò l'uomo in direzione di un'altra macchina.
La pioggia rende tutti irritabili ed irritanti, rifletté la donna. Anche coloro che si trovano al sicuro e all'asciutto mentre guadagnano soldi.
Guardandosi intorno, Bella si rese conto che erano arrivati alla periferia estrema della città. Gli alti palazzi erano sempre più radi e lasciavano spazio a case più basse e spazi più aperti.
“Gira a sinistra alla prossima,” diede istruzioni al tassista, che mise la freccia e si fermò in attesa che un gruppo di pedoni attraversasse la strada.
“Indirizzo?” chiese l'uomo mentre s'immetteva nella via a senso unico.
Non aveva alcun indirizzo da dargli. Non c'era indirizzo nel luogo dov'erano diretti.
“Continui a guidare,” fu l'unica cosa che disse.
Qualche minuto dopo la strada terminò in un incrocio.
“Giri a destra, imbocchi il vicolo.”
“Forse è meglio se la lascio direttamente qui, signorina.”
“Forse è meglio se continua a guidare.” Alle sue parole fecero seguito tre biglietti da venti, che la donna porse all'autista attraverso la fenditura nel vetro divisorio. L'uomo non perse la propria espressione dubbiosa, ma afferrò i soldi e strinse il voltante fra le mani. Il veicolo riprese a muoversi.
Negli occhi della donna brillò una scintilla che nessuno fu in grado di vedere.
Nessun lampione nel vicolo, né pedoni. Nessun testimone.
Era perfetto.
“Si fermi qui.”
L'autista frenò. Attraverso lo specchio retrovisore Bella vide il sopracciglio sollevato in un'espressione ancora più perplessa. Sul suo volto vide passare i pensieri dell'uomo, chiari come acqua cristallina. Non era una situazione usuale, per lui, non sapeva come comportarsi. D'altro canto, però, aveva a che fare con una donna. Quante possibilità c'erano che una donna potesse portarlo in un vicolo cieco per derubarlo?
Pover'uomo. Non poteva certo immaginare quanto letale quella donna in particolare potesse arrivare ad essere.
“Aspetti un secondo,” affermò mentre scendeva dal taxi, “e le raddoppio la corsa.”
L'uomo sorrise mentre la guardava approcciarsi al suo finestrino, che prontamente abbassò.
La mano della donna era nascosta nella borsa. Quando la estrasse, lui non si accorse immediatamente che quel che la donna stringeva nel pugno non erano banconote. In quell'attimo cristallizzato, Bella lo colpì. Il coltello stretto nella mano sinistra, approfittò del momento di distrazione dell'uomo per abbassare il braccio e conficcare la lama nel collo pulsante dell'uomo, all'altezza in cui sapeva esserci la carotide.
Il cuore le batteva forte, così forte che il proprio battito era l'unica cosa che udiva, l'unico suono che coprì anche i gemiti di dolore della propria vittima, che con una mano alla gola la guardò in preda alla confusione.
Lo colpì di nuovo, ed ancora. E ancora. E di nuovo. Continuò a colpirlo finché il suo sangue caldo non arrivò ad imbrattarle le mani, i vestiti, la faccia.
I suoi battiti accelerarono. Faticava a contenere la trepidazione, ma non era l'omicidio ad eccitarla. Era ciò che quella morte avrebbe portato.
Lui.
Fece un passo indietro mentre l'uomo lentamente spirava, dissanguato ed agonizzante.
Bella attese.
E con la stessa certezza con cui il sole sopraggiungeva alla notte, lui arrivò.
All'inizio fu solo un'ombra, un indizio fugace con la spalle ampie e le gambe lunghe. Poi si avvicinò, e il suo volto assunse i lineamenti che lei ben conosceva. I suoi occhi si colorarono, le sue labbra si aprirono a scoprire i denti bianchi.
La affiancò, appena al di fuori della portata del suo braccio, e rimase muto a fissare l'uomo ormai morto.
Poi guardò lei.
“Sapevo che eri tu,” le disse con un lieve sorriso.
Ricambiò il suo sorriso. “Davvero?”
“Perché continui a farlo?”
“Lo sai perché.”
Scosse la testa. “Non ha senso.”
“Ha tutto il senso del mondo.”
I suoi occhi erano indecifrabili nell'ombra del vicolo. “È tutto inutile. Lo sai che non possiamo stare insieme.”
Lei non rispose. Si limitò a fissare quelle labbra che tanto desiderava baciare, quella pelle che tanto desiderava sentire contro la punta delle proprie dita. Voleva sfiorarlo. Voleva toccarlo.
Voleva amarlo.
“Quante persone ancora devono morire?” le chiese.
“Come se te ne importasse qualcosa.”
Lui sorrise, di nuovo. Quel sorriso che la teneva sveglia la notte, che la faceva impazzire.
“Per me è solo lavoro, ma lui-” indicò l'uomo ancora seduto all'interno del veicolo, gli occhi spalancati e vuoti. “Lui aveva una famiglia. Dei figli. E il pensiero non ti ha nemmeno sfiorata. Non te ne importa niente delle persone a cui fai del male.”
“Hai ragione. Non me ne frega niente.”
Fece un passo in avanti, ad accorciare la distanza che la separava da lui.
La Morte non si tirò indietro.
Lo fissò in quegli occhi scuri, profondi, e più neri del nero. Lui ricambiò lo sguardo ed in quel momento Bella ebbe nuovamente la certezza che quello che provava per lui era ricambiato.
Ecco perché lo faceva. Per vedere ogni volta quello sguardo. Per vedere confermate le proprie certezze. Lui non la deludeva mai.
“Potremmo stare insieme,” sussurrò mentre si avvicinava di un altro passo.
Lui scosse la testa. “Mai.”
Fece un ultimo passo, fino a trovarsi a meri centimetri di distanza. Fino a dover alzare il mento per poterlo guardare negli occhi. Le loro labbra erano incredibilmente vicine, ma ancora non si toccavano.
“C'è un modo. Lo sai che c'è,” continuò a sussurrare.
“Non funzionerà.”
“Ti ho sempre amato.”
“Lo so.”
“Non mi importa di cosa accadrà. Non posso andare avanti così. Hai ragione, non è giusto per tutte le persone a cui ho fatto del male.”
“Come se te ne importasse qualcosa,” ripeté lui, questa volta in tono affettuosamente canzonatorio.
“Non lo so cosa accadrà, ma qualsiasi cosa sarà meglio di questo.”
Dopo un lungo, infinito momento, la Morte annuì.
“Okay,” acconsentì.
E lei si alzò in punta di piedi.
E le loro labbra si toccarono.
E fu un bacio lungo un'eternità intera.
   
 
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