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Autore: Ghen    10/05/2015    1 recensioni
Laura torna in Sardegna dopo un periodo trascorso a Londra per trovare se stessa, amareggiata e provando vergogna per non essere riuscita a vivere la vita che sognava. Dopo aver trascorso una sera con le amiche che non vedeva da tempo assistendo all'esibizione dei mamuthones, iconiche creature del folclore sardo, comincia a vederne ovunque, pronte a seguirla e a osservarla. Intanto, un'anziana viene ritrovata morta in casa sua in circostanze misteriose, e non sarà la sola.
[Minilong. 3/3 capitoli]
Genere: Drammatico, Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Figlia della Terra



I Capitolo

Strinse le mani sulle ginocchia, provando a sgranchirsi i muscoli e le ossa, scrutando con disattenzione il passeggero accanto a lei. Parlava inglese, era sceso dal suo stesso aereo con un gruppo di altre quattro persone. Ogni tanto ascoltava i loro discorsi e rideva per sé; non certo per prenderli in giro, tanto più per passare il tempo. Guardare oltre al finestrino alla sua destra aveva cominciato a procurarle una tenue nausea e non voleva peggiorare la situazione, così aveva chiuso la tendina viola, come avevano fatto molti altri passeggeri. Dopotutto, il suo corpo aveva tutto il diritto di lamentarsi: era stanco dopo aver viaggiato per più di tre ore tra bus londinesi, aereo e treno, sballottato a destra e sinistra, trascinando una pesante valigia. A poco valeva che avesse le ruote, quella scatola rettangolare aveva il superpotere di incastrarsi ovunque, anche da ferma.
Aprì la borsetta che manteneva sulle gambe e, cercando con attenzione, prese in mano un piccolo specchietto da viaggio, osservandosi con attenzione negli occhi castani. Aveva le occhiaie. Ci passò l’indice, come se potesse aiutare a farle sparire, e passò la mano fra i capelli legati indietro in una alta coda, assicurandosi di non avere ciuffi fuori posto. Voleva essere perfetta per il suo ritorno a casa, nella sua terra, dopo tempo che non ci metteva piede. Ripose lo specchietto in una tasca interna con velata angoscia e ansimò, chiudendo la borsa. Si rifiutò di guardare il cellulare, lo aveva spento per non rovinare la sorpresa, anche a costo di non riuscire a intrattenersi. In ogni caso, il suo viaggio era finito: sentiva di essere arrivata dalle svolte che prendeva l’autobus, come si giostrava fra una via e l’altra, le pause nel traffico, le fermate, le risa e le voci dei passanti così vicine a una realtà che le era mancata, dopotutto.
L’ennesima fermata e lei strinse la borsetta in spalla, alzandosi dal suo sedile e saltando l’uomo al suo fianco; da come rideva con gli amici nei sedili accanto, sembrava felice che gli avesse lasciato il posto libero. Salutò con garbo l’autista e lui rispose appena, chiudendo le porte automatiche dietro di lei. Appena i suoi piedi toccarono il marciapiede, si sentì pervadere di nostalgia, spalancando i suoi occhi e girandosi intorno, con sguardo alto e fiero, accendendo nella sua mente tanti ricordi. Le sembrava che tutto fosse diverso eppure così uguale, al tempo stesso. Corse a riprendere la sua valigia dal vano dedicato e l’autobus riprese la sua corsa, lasciandola sola lì, a immaginare quante cose erano successe, in sua assenza. Decise di muoversi poco dopo, osservata con curiosità dai passanti, trascinando le ruote sporche e ammaccate del suo trolley. Attraversò, badando più alla chiesa non distante, che suonava le campane, piuttosto che alle macchine con a bordo uomini spazientiti. Non avrebbe mai pensato che un giorno quel rumore le sarebbe mancato; a Londra non davano mai lo stesso suono e non le avevano mai trasmesso lo stesso torpore. Quella era la sua Iglesias, la città delle chiese.
Salutava con sguardi e sorrisi chiunque le passasse accanto, fermandosi, quando vide una donna scendere dalle scalette a fianco alla porta di casa sua. Piegata su se stessa, capelli bianchi e crespi, vestita di nero come ogni signora di una certa età ormai vedova, con indosso una lunga gonna e le calze velate alle gambe, anche se era inverno. Lei sorrise ancora, avvicinandosi. Quando l’altra si voltò per trascinare la sua vecchia e malandata borsa a ruote, quasi non cadde all’indietro dallo stupore, non trattenendo una risata goliardica.
«Lauretta», per poco non gridò, con emozione, «Lauretta! Quando sei tornata?», rise, cogliendola in un caloroso abbraccio, «ohia, quasi… quasi non me ne facevi prendere un colpo». Si mantenne il petto con una mano e la ragazza osservò quel movimento come rapita, riportandole alla mente ricordi lontani. La mano raggrinzita della signora si portò poi al volto della ragazza, carezzandole una guancia rossastra con affetto.
«Sono tornata proprio adesso», rispose, indicando alle sue spalle, «Il bus ha fermato qui vicino».
«Il bus?», rise, trovando quasi ironico quel termine così lontano dalla sua quotidianità. «Su pullmi? [Il pullman?] Ma non me ne sarai uscita troppo inglese, adesso? Ti se scarescia su sardu? [Hai dimenticato il sardo?]», gesticolò con una mano, come se potesse dare più enfasi alle sue parole.
«No, no», scosse la testa, sorridendo a sua volta, «Come potrei dimenticarlo?».
Dimenticarlo? Era la sua lingua, dopotutto, e un po’ di tempo in Inghilterra non poteva cancellare le sue origini, né avrebbe permesso che accadesse.
Salutò la donna e si lasciarono. Si fermò per un po’ per vederla allontanarsi, attraversando la strada e portandosi verso la chiesa, con la sua camminata goffa ma svelta. Signora Assunta era la vicina di casa di Laura da quando era bambina e con la sua famiglia si era trasferita laggiù, in quelle che erano case nuove, allora. Quella donna l’aveva vista crescere e l’aveva amata come una sua nipote, festeggiando con lei i compleanni e facendole regali a Natale. Col sentire quella mano calda nonostante le temperature sulla sua guancia, aveva trovato fra i suoi pensieri il ricordo di lei in lacrime, quando la ragazza aveva deciso di trasferirsi all’estero per lavorare e provare a essere indipendente.
Si rivoltò, prendendo un grosso respiro prima di decidere di suonare il campanello di casa Pilia e ritrovare mamma e papà sorpresi e commossi per il suo ritorno a casa. Salì i tre scalini e si affacciò alla porta, pensandoci bene. Suonò con titubanza, premendo il pulsante appena, quasi con l’unghia, sentendo il suo cuore farsi carico e prendere la rincorsa. Quando la serratura scattò, capì che a quel punto era troppo tardi per tornare indietro: una donna dai capelli corti e neri la assalì con un abbraccio ancor prima di aprire bocca, portandola dentro, aiutata dall’uomo basso e brizzolato arrivato a breve, che prese sotto braccio la valigia. Per poco entrambi non si mettevano a piangere dalla commozione, facendo sedere la ragazza su un morbido divano pieno di cuscini colorati, fissandola come solo due amorevoli genitori potevano fare, scrutandola come se potessero entrarle nella testa e capire il motivo del suo ritorno a casa ancor prima che potessero chiederglielo. Sapeva quanto erano paranoici e cominciava già a ipotizzare le loro fantasiose teorie.
«Potevi chiamare», la sgridò amorevolmente l’uomo, pur non rinunciando a quel sorriso fiero di rivederla lì, la sua bambina, ritta sulla sua schiena e le sue gambe, senza aver avuto bisogno di aiuto per ritrovare la via di casa. «Andavamo a prenderti all’aeroporto», si passò le mani sui baffi grigi.
La donna al suo fianco concordò annuendo, con gli occhi lucidi. «Se sapevo che stavi tornando, mettevo un po’ in ordine camera tua… I tuoi cugini ci sono entrati a giocare la settimana scorsa e c’è il letto… no, tutto… è un disordine unico», faticava a mettere insieme le parole, talmente era emozionata.
La ragazza scosse la testa, guardandosi attorno con velata nostalgia. I ricordi in quella casa riaffioravano uno dopo l’altro: come il settimo compleanno e le avevano regalato quella bambola che parlava, che Laura aveva desiderato tanto; o quando a nove pensò di imparare ad andare sui pattini nel soggiorno, rompendo un vaso; le risate con gli amici e le partite ai giochi di società durante le feste; o il suo primo bacio, proprio su quel divano, a quel ragazzino ripetente che era stato con Laura due lunghe settimane, in terza media. La sua relazione più lunga con un ragazzo, un maschio. Fissò i due genitori con un attimo di angoscia, poiché per quanto Laura fosse cresciuta e cambiata, e senza dubbi maturata, non era mai riuscita a parlare loro della sua omosessualità, e men che mai pensava di farlo in quel momento. «Ma figurati, mamma. Sistemo io», disse in un sorriso, «Volevo farvi una sorpresa, per questo non ho detto nulla e ho spento il telefono».
A quelle parole, la donna si emozionò, annuendo. «Hai mangiato? Vado a prepararti qualcosa».

Aprì la porta di camera sua quasi con timore e questa cigolò. C’era odore di chiuso e di muffa, ma non ne aveva mai sentito uno più buono. Accese la luce e andò alla finestra, sviando una sedia al centro della stanza, alzando la rumorosa serranda e aprendola per far cambiare aria, spegnendo il lampadario. I vecchi peluche e le bambole erano sparsi per tutta la stanza, in compagnia di cuscini e i modellini di cavalli: da adolescente, Laura si era impegnata tanto per mettere su quella collezione che, vedendola a terra, si morsicò un labbro per il fastidio. Per fortuna non si era rotto nulla e pensò di rimettere un po’ a posto, mentre sua madre le preparava la merenda. Canticchiando una canzoncina, riportò al suo ordine i cavallini sugli scaffali, accanto ai cd di musica e alle riviste, e agli immancabili libri che aveva letto durante le notti prima di addormentarsi, e a volte senza addormentarsi affatto. Chiuse la porta della sua stanza dietro di lei, ascoltando le voci non troppo discrete dei due che parlavano della loro bambina finalmente a casa, e sistemò il letto rapidamente, sedendo sopra dapprima con timore e poi sdraiandocisi, cercando una posizione comoda. Al momento che si trovava in quella stanza a fissare il grande lampadario a forma di mongolfiera, riusciva a ricordare il motivo che l’aveva spinta a partire verso una nuova terra: quella voglia di autodeterminazione, di riuscita, di poter vivere se stessa alla luce del sole, alla ricerca di un lavoro che la potesse soddisfare. Più di tutto, però, ricordava quello che l’aveva obbligata a fare qualche passo indietro e a tornare a casa: il fallimento. Laura era piena di speranze, di iniziative, e se in un primo momento pensava veramente di riuscire nel suo intento, si era ritrovata infine a stare male per nostalgia e a sentirsi soffocata da un lavoro non soddisfacente e probabilmente sottopagato. Sapeva che aveva fatto male i suoi conti: sperava sul serio che una volta raggiunta Londra si sarebbe trovata in mano una nuova vita piena di appagamento e nessuna difficoltà? Probabilmente fare la cameriera per un piccolo localino in un borgo di Londra non era il suo sogno nel cassetto, tuttavia poteva decidere di non mollare e andarsene ma restare e tenere duro…

«Te ne vai?»: la domanda di Diane parve più accusatoria di quanto volesse intendere.
Laura la fissò con occhi lucidi e sconsolati, riuscendo appena a sostenere il suo sguardo. «Non prenderla male, tesoro, non ti sto lasciando», specificò, carezzandole i capelli corvini con insistenza, come se, con quel gesto, volesse consolare più se stessa che la sua ragazza.
L’altra la allontanò da sé, afferrandole la mano che continuava a scendere sui suoi capelli con cadenza ritmica. «Ci stai così male, qui?», si guardò attorno, prendendo fiato, «Non abitiamo in un appartamento con tutti i comfort e non possiamo comprare tutto quello che vogliamo a causa del nostro basso stipendio, ma ne abbiamo uno e pensavo che lentamente saremmo riuscite a costruirci la nostra vita insieme».
Laura prese un grande respiro. Vivevano in due in un piccolo alloggio con due stanze e un bagno, arredato con vecchi mobili cadenti, l’unico che si poterono permettere, ma non era quello il problema e Laura pensava che Diane non l’avrebbe mai capito; non che fosse stupida o insensibile, ma la conosceva abbastanza da sapere che i reali motivi che la spingevano a lasciare tutto erano per lei deboli e sopravalutati. L’insoddisfazione e la nostalgia della culla sicura di casa si potevano sopraffare se non ci si lasciava sopraffare a propria volta. «Non è questo, Diane… I-Io ti amo, okay? Ti amo», le sussurrò tentando un sorriso, soffocando le lacrime. «E non ti sto lasciando, vado e torno, non so quando, ma potremo sentirci via Skype o… non lo so, troverò una promozione per il cellulare che ci permetta di-», si interruppe, fissando lo sguardo contrariato dell’altra, non riuscendo più a trattenere il pianto, «di… restare insieme».
Diane scosse la testa e calciò il tappeto, colta da un impeto di rabbia. «No», tuonò poco dopo, «Va bene così, okay? Non tornare», la scrutò immobile, con severità, «Non tornare».

Fermò quei ricordi che le bombardavano la testa e si alzò dal letto con lentezza, sentendo sua madre bussare alla porta. La donna si affacciò il tanto per dirle di andare a mangiare in cucina e lei annuì, stirando le braccia contro al soffitto. Il vento si era fatto più forte e decise di chiudere la finestra per permettere di lasciare la porta aperta, ma quando si affacciò, trovò dall’altro lato del muro un ragazzo dall’aspetto familiare che chiudeva la finestra a sua volta, fermandosi nel vederla, colpito. Le sorrise e salutò, così la ragazza ricambiò.
«Sei tornata?», rise, «Esci che ti voglio salutare».
Chiuse la finestra.
Daniele: quasi non lo riconosceva con quel ciuffo castano chiaro sugli occhi. Era cresciuto e decisamente cambiato, come modo di porsi e perfino nel vestirsi, considerando che Laura non lo vedeva solo da quasi un anno. Morsicò con golosità il grosso panino con burro e zucchero e, ancora masticando, riaprì la porta di casa, mostrandosi al ragazzo che, seduto sugli scalini, l’aspettava. Nel vederla, non poté che ridere di gioia e lei altrettanto, abbracciandosi.
«Non ci posso credere! Quando sei tornata? Non ne sapevo niente», le sorrise con affetto, appoggiandosi alla bassa ringhiera davanti alla porta di casa.
«Oggi. Poco fa. Non lo sapeva nessuno, era una sorpresa», annuì, continuando a mangiare, «Sei a casa di tua nonna, adesso?».
Lui annuì, scostandosi il ciuffo dagli occhi castani.
Era lui quel ragazzino cresciuto quasi sempre con Laura, il nipote della signora Assunta. Il ricordo di lui e lei che giocavano a rincorrersi vestiti a maschera con le stelle filanti fra le mani e ricoperti di schiuma, nelle sere di carnevale, le balenò nella testa con insistenza: quel ragazzo era importante per Laura; era stato il suo amico sempre, un fratello, quasi una cosa sola per molto tempo. Lo scrutò, perdendosi nei suoi occhi grandi.
«Mi sono trasferito per starle vicino e così lascio i miei un po’ in pace», rise sulle sue, tappandosi la bocca con un gesto involontario, una sfumatura sulla sua timidezza. «E tu? Come mai sei tornata? Credevo ti stessi facendo una vita inglese, che ti fossi ormai abituata ai tè delle cinque».
«No», sbuffò, alzando gli occhi al cielo. «Non era proprio… come me l’aspettavo».
Al contrario, il ragazzo abbassò lo sguardo, fissando un punto immaginario. Riprese a ridere dopo un attimo, goffamente, grattandosi la nuca. «Senti… è da quando sei partita che ho in testa questa domanda e non riesco togliermela dalla testa perché… beh, sì, vorrei che tra noi… le cose fossero a posto».
«E non lo sono?», domandò, corrucciando gli occhi, facendosi curiosa.
«Sì, appunto». La mano sulla bocca, immancabile. «È che… non vorrei che te ne fossi andata perché… per quello… sai», rise, mentre quell’immagine di lui imbarazzato si metteva a fuoco fra i suoi pensieri.
Lei emise un sospiro, voltandosi quasi per un attimo, il tempo di pensare bene a quello da dire. «Non c’entri con la mia partenza», sorrise, annuendo, «Ma figurati».
«Ti ho detto che mi piaci e una settimana dopo parti per Londra», rise lui, «Strano».
«Ti ho detto che non potevo ricambiare… in quel senso».
«Sì, sì. Hai avuto relazioni, a Londra?», la scrutò.
«Si chiama Diane».
«E come fate adesso che sei tornata?», ridacchiò.
«Non facciamo», rispose, «Ci siamo lasciate».
La sua faccia si piegò con sorpresa, girando passo verso la porta della casa accanto. «Te ne sei andata da qui dopo che ti ho detto che avevo una cotta per te, e torni qui quando ti sei lasciata con la tua ragazza londinese», annuì, stringendo le labbra, «Alla grande».
«Non è come credi», lo spintonò e lui ne approfittò per balzare dagli scalini, raggiungendo la sua abitazione.

La notte era scesa molto rapidamente e sottolineava il contorno degli edifici di un bagliore azzurro. Le stradine in ciottoli erano scivolose ma quella signora ci camminava sopra con tale abitudine da non guardare neppure dove metteva i piedi. Vestita in nero di tutto punto, continuava a sistemarsi con ostinata perfezione il fazzoletto che le teneva nascosti i capelli bianchi, stringendo la sua borsetta ogni qual volta che vedeva un ragazzino correre verso di lei; li guardava passarle davanti e borbottava, infastidita che non fossero ancora nelle proprie case. Odiava che i marmocchi non avessero più regole com’era stato invece per lei, quando era giovane; i tempi del coprifuoco e del rispetto per i più grandi, oltre al fatto che era proibito uscire senza genitori o altri parenti a seguito, a quell’età. Continuava a borbottare lungo la strada, incurante che qualcuno la vedesse parlare da sola. Lei non parlava da sola, ma era infastidita. Che la vedessero, pensava, tanto era anziana, e per quanto ne sapevano quelli là, poteva star recitando un rosario.
La donna proseguì ancora qualche passo tenendosi al lato sinistro dei caseggiati, alzando gli occhi agli stretti balconi al lato destro, schifata da come stessero cadendo a pezzi uno dopo l’altro, invecchiati, tra la muffa e il tempo che li stava portando via, proprio come lo splendore originario di quella città a lei tanto cara. Sentì dei passi dietro di lei e camminò più velocemente, girandosi indietro solo un attimo, il momento per vedere che non c’era nessuno e che era solo la sua immaginazione. Arrivata alla porta di casa, tirò fuori la chiave in un seguente borbottio, colpevolizzando i ragazzini che amavano fare scherzi agli anziani. Ci si infilò dentro e chiuse di fretta, impaurita, accendendo la luce. Deviò un tavolo tondo e ci poggiò la borsa, cominciando a spogliarsi, raggiungendo l’andito dopo la stanzetta d’ingresso che faceva da soggiorno. Spense la luce della stanza ma quando udì un rumore la riaccese di fretta, guardandosi intorno. La donna spalancò gli occhi e deglutì, facendo due passi verso il tavolo: la sua borsa era sparita. Guardò sotto al tavolo ma non c’era nulla, a parte un po’ di polvere. Si rialzò lentamente, aiutando la schiena con le mani, e quando si rivoltò ebbe un sobbalzo, vedendo la sua borsa e il suo contenuto sparpagliato per l’andito. Si avvicinò con cautela, ormai tremando dalla paura, udendo una campanella suonare dentro la sua casa. Era una casa vecchia costruita con pietre e non di mattoni, per cui il suono si disperdeva bene e in fretta.
La donna stava per dire qualcosa, reggendosi il petto e le gambe che si mantenevano ferme appena, ma la campanella suonò più forte e più forte, finché la vecchina non cadde per terra e tentò un urlo, bloccato da un’ombra: «Chi ti pighiri su mali [Che ti prenda il male]», sussurrò questa con una voce forte ma disturbata. La signora spalancò gli occhi e la bocca, ansando come un pesce fuor d’acqua, fino a quando i suoi occhi neri persero lucentezza, diventando bianchi e inespressivi. L’ombra sparì veloce con una folata di vento che aprì e richiuse l’unica finestra, lasciando il corpo cadere sulle mattonelle fredde, senza vita.

Laura non aveva mai avuto molte amiche, ma quelle che aveva erano dei piccoli tesori. Appena saputo del suo ritorno in patria, le tre ragazze sono corse da lei per festeggiare, facendosi lunghe camminate avanti e indietro per Via Nuova, la Via Matteotti battezzata così dai suoi cittadini ancor prima di avere un nome ufficiale e passato nelle mani delle generazioni a venire. Sedute davanti a un tavolino mangiando patatine e bevendo cola, riaccesero i loro ricordi del liceo e delle loro vicissitudini, ricordandosi della loro amicizia nonostante il tempo passato. Le guardava parlare e ridere e lo faceva a sua volta, lasciandosi trasportare dai forti sentimenti che Laura provava per loro. Pagarono al locale e salirono per la strada adibita ai soli pedoni, mentre la calca si faceva più numerosa. Passò qualche bimbo vestito in maschera e nessuna delle quattro poté credere che, ridendo e scherzando, distratte dal ritorno della loro amica, avevano perso la cognizione del tempo: febbraio, carnevale.
«Stavamo davvero per perderci i mamuthones, quest’anno», disse una delle tre, improvvisatasi capogruppo, facendo cenno alle altre di seguirla. «Non che sia chissà cosa», rise poco dopo, a bassa voce, «Tutti gli anni sempre uguale».
Risero, non mancando di darle ragione. Tuttavia, per la loro amica era qualcosa a cui non avrebbe rinunciato anche quest'anno, poiché quei costumi erano simbolici, erano sardi e non esistevano da nessun'altra parte del mondo, erano il suo effettivo ritorno a casa.
Le quattro ragazze si fermarono ai pressi di un negozietto e lasciarono passare della gente dietro di loro, ascoltando i rumori dei campanacci che si avvicinavano. Una delle amiche guidò le altre ai piedi della fontana vuota e sporca in piazza Lamarmora e si spostarono verso il negozio degli abiti da sposa, per non restare in mezzo: loro stavano arrivando. La folla seguì presto il loro esempio e Via Nuova diventò un lungo fiume biforcato, in loro attesa. Qualcuno rise, probabilmente dei bambini, e la gente iniziò ad alzare gli occhi verso i cornicioni delle vecchie case e i balconi decadenti, dove due uomini vestiti di nero e con indosso grosse pellicce nere e marroni si arrampicavano, provando a fare qualche passo brusco per mettere in ansia gli spettatori e alcuni urli di gloria: i mamuthones erano arrivati. I due uomini proseguirono sopra una casa dietro l'altra, seguiti dagli sguardi curiosi e spesso stupiti, anche se non facevano nulla di nuovo da sempre. Quando scesero, tenendosi stretti ai tubi dell'acqua, il resto dei compagni erano arrivati: i mamuthones indossavano grosse maschere nere dagli sguardi arrabbiati, a volte infelici, o disturbati. Erano grossi e camminavano quasi dondolando, ricoperti di pelliccia nerissima e grandi campanacci. Se ne andavano in giro a infastidire la gente e molti si tiravano indietro, soprattutto i più piccoli, con paura. Gli issohadores arrivarono a breve: maschere bianche e squadrate in volto, indossavano un capello scuro sulla testa tenuto stretto da un fiocco al mento, casacca rossa e pantaloni larghi e bianchi, tenuti stretti dagli stivali neri. Erano lì per tenere tranquilli i mamuthones, per seguirli e non farli disperdere: erano i pastori e loro il gregge. Tuttavia, anche loro incutevano timore fra la folla: usavano lanciare il lazo per acchiappare i mamuthones ma, spesso e volentieri, sbagliavano e catturavano qualche passante. Lo facevano apposta, era la loro esibizione. Ruotavano attorno al bestiame con cadenza musicale e lanciavano il lazo. Lei e le tre amiche si tirarono un po' indietro ma uno di loro sbucò dal nulla, forse in mezzo alla calca, e scrutò le ragazze con estrema attenzione, sotto la maschera. L'issohadores distese le mani verso il cielo e strinse la corda con fermezza, pronto al lancio. Lei lo fissò a sua volta e il lazo la afferrò, stringendola appena. Qualcuno dietro di lei rise, forse felice che non fosse il suo turno, e le ragazze del gruppo fecero altrettanto, congratulandosi, battendo le mani. I due si fissarono intensamente, senza muoversi, finché i mamuthones non ripresero il loro cammino e lui fu costretto a lasciare la presa, continuando a fissarla, fino a sparire dietro la gente.
«Okay, io mi sarei cagata dalla paura», accennò una risata una delle tre ma lei non si mosse, alla ricerca dello sguardo di quel ragazzo mascherato che si sentiva ancora addosso. Prese passo ancora prima di avvertirle e la seguirono fra la massa di gente, ma lo spettacolo carnevalesco stava continuando e fra i ragazzi vestiti di rosso e bianco non sembrava trovare quello che cercava.
«Stai cercando vendetta?», rise una delle amiche, con innocenza, quando lei si voltò per osservarla con sguardo interrogativo, quasi arrabbiato.
«Cosa? Cosa hai detto?».
«Se cercavi vendetta su quello che ti ha legata», rispose, scrollando le spalle, «Cavolo se sei strana».
Lei scosse la testa e poi sorrise, chiedendo scusa. «No, è che quello aveva uno sguardo strano, mi ha fatto impressione. Volevo capire chi è».
«Eh, buona fortuna. Questi staccano tardi, ma con tutta la gente che c'è, poi, mica ce la fai a seguirli», esclamò un'altra.
La costrinsero a lasciar perdere e ad andare verso Piazza Sella per una passeggiata fra le stelle filanti, ma lei continuava a essere altrove, a quello sguardo sul suo.

La donna chiamò sua madre al telefono per tutto il giorno. Aveva fatto la pasta al forno come piaceva a lei e ne aveva fatta tanta, così decise di dividerne un po' e portargliela, ma non rispondeva al telefono dalla mattina. Parcheggiò la sua panda sulle strisce gialle conscia di non poterlo fare, giustificando se stessa che avrebbe fatto in fretta, e corse al lato passeggeri per prendere il vassoio. Chiuse a chiave e camminò a passi decisi, facendo attenzione al cemento ricoperto di schiuma colorata, borbottando sui ragazzini che spruzzavano ovunque con le loro bombolette senza curarsi di chi, come lei, indossava i tacchi. Mantenne il vassoio con una mano e con l'altra si reggeva la sciarpa al collo per il freddo, camminando sulla scivolosa strada in ciottoli. Alla porta di casa di sua madre bussò ancora prima di suonare, e si affacciò alla finestra dell'ingresso che faceva da soggiorno, ma non vide niente. Bussò ancora, più forte, e la chiamò. Infine sbuffò, appoggiando sul cornicione della finestra il vassoio con la pasta al forno e cercando la copia delle sue chiavi in borsa, tirandosi indietro i capelli, seccata. Spinse la chiave e girò, aprendo la porta, tornando indietro per recuperare il vassoio. «Mamma?», chiamò, «Sei in casa o no?». Spense la luce e poggiò il vassoio sul tavolo tondo, inumidendosi le labbra e tastando il rossetto. «Mamma?». Vide una gamba a terra e corse per raggiungerla, inchinandosi come meglio riusciva, sui tacchi. Scosse il corpo della donna appena, colta da un impeto di paura, e si distanziò pronta per guardarsi attorno e urlare con tutto il fiato che aveva in corpo.

L'improvvisa morte della signora Gavina si era sparsa in fretta in centro. Da quelle parti la conoscevano in molti, anche solo di vista: andava a comprare le cose nel negozietto sotto casa, le verdure in quello poco più avanti, e il pane al mercato. La vedevano spesso, passava tutte le mattine e salutava sempre chiunque con un sorriso, prima di vederla borbottare per sé. Era una donna un po' acida, ammetteva qualcuno, ma tutti le volevano bene. Avevano trovato casa sua in ordine a parte la borsetta che era stata gettata nell'andito di casa; il medico legale dichiarò che era stata stroncata da un infarto, proprio dopo essere tornata a casa dalla messa serale. Un vero lutto per tanti, anche per signora Assunta, che quella mattina era uscita prima del solito per andare in chiesa e pregare per lei.
«Erano molto amiche da giovani», le disse sua madre, quando udì la donna uscire di casa molto presto, trascinando la borsa a ruote. «Poverina. La conoscevo anche io ed era una brava persona, forse un po' scorbutica».
«Mi dispiace», rispose lei, annuendo. Soffiò il latte bollente e, con sguardo malinconico, scrutò oltre la finestra, agli alberi lontani. Laura non aveva mai conosciuto signora Gavina; ci pensò finché non notò qualcosa di strano accanto a un albero. Strizzò gli occhi e allungò lo sguardo, cercando mettere a fuoco. Quella figura nera e marrone stava sopra il tronco di un albero e lei spalancò gli occhi, non credendolo possibile; lasciò la tazza sul tavolo e corse alla finestra, affacciandosi: quel mamuthones la fissava a sua volta.
«Laura, finisci in fretta, così mi fai compagnia al mercato».
Sua madre le distolse l'attenzione e si girò, per annuire, ma quando si rivoltò quella maschera non c'era più.
























Benvenuti a una mia nuova storia ^_^
Figlia della Terra è diversa da precedenti racconti che ho scritto perché l'ambientazione non è esattamente quella che preferisco, ma colta da un impeto di ispirazione dato da un contest ho voluto provarci lo stesso :) Non è mia abitudine ambientare ciò che scrivo in Italia (infatti preferisco luoghi più lontani come gli Stati Uniti o il Giappone, creando in ogni caso città che realmente non esistono) e men che meno in un luogo in particolare e definito come in questa, quindi è un po' un azzardo.
Per scrivere per il contest cui questa storia partecipa, mi sono fatta una bella ricerca tra creature sovrannaturali semisconosciute, girando sul folclore internazionale e poi italiano, approdando in Sardegna. Avevo in mente un'altra trama simile prima di arrivare a questa che vedeva un'altra creatura, ma credo che infine Figlia della Terra mi sia riuscita meglio in ogni caso.
Non credo di essere arrivata esattamente dove volevo e sicuramente avrò sbagliato qualcosa, ma caspita se è mi è costata fatica scriverla. È stato per me molto difficile ma, per quanto vale, ne sono pure soddisfatta.

Spero possa piacere anche a voi e che il campidanese (dialetto del sud-ovest della Sardegna) non infici troppo la lettura :)

APPUNTO:
Iglesias, la città delle chiese: il nome “iglesias” viene dal sardo is cresias, cioè le chiese. Più profetico di così non si può: ci sono parecchie chiese, ad Iglesias. Il nome viene attribuito anche alla dominazione spagnola, e significa sempre chiese.



Il contest da cui ho preso ispirazione è questo (che poi sia praticamente senza traccia e che prendo le ispirazioni dal nulla sono dettagli): Trick me, deceive me! indetto da graceavery. E scade oggi, ho fatto appena appena in tempo per partecipare ^_^



I capitoli sono solo 3 e, se tutto va bene, ne posterò uno alla settimana! Siccome non so se ce la farò domenica prossima, nel caso aspettatevelo per lunedì.

Se vi va piacere, lasciatemi un commento in recensione :)
A presto, chu!



   
 
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