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Reader: La_Fe10
Fandom
1: Ygo
DM
Fandom
2: Il
Barone Rampante
N.d.A: In fede al bellissimo libro di Calvino, la storia è ambientata nell’Italia di fine Settecento, quindi oltre a giocare un po’ con parole e virgole, com’è mio solito, ho adottato un vocabolario un po’ più ricercato. La casata di Yugi è puramente inventata mentre quella di Yami è autentica così come tutti i luoghi menzionati (a eccezione di Ombrosa ovviamente). Yami è ispirato a Cosimo e come lui vive sugli alberi, ma non è Cosimo, così come Yugi non è né Biagio né Viola. La Repubblica è la Repubblica di Genova (Successivamente Repubblica Ligure) e Dragoni si riferisce al corpo militare. Velati riferimenti al fatto che l’omosessualità fosse illegale.
Buona Lettura!
Non
ho mai prestato orecchio alle fandonie delle comari.
Pettegolezzi
e storielle nascono per allietare le giornate invernali, quelle
trascorse davanti al rosso
spento del focolare, quando le
contadine armeggiano di fuso e telaio e il vecchio nonno brontola
accasciato sulla sua panca. Non ho mai prestato loro fede neanche
quando venivano dalla bocca di mia madre.
Anzi,
a dirla tutta, erano proprio quelle le storie a cui tendevo a prestare
meno orecchio. Storie che non nascevano neanche con uno scopo, che non
servivano a ignorare il freddo perché nei salotti di
porcellana del castello di Almeri i bracieri erano sempre avidi di
carbone e profumi e le candele si affollavano a decine sui candelabri
lucidati a specchio, a centinaia sulle stalattiti di vetro dei
lampadari. In quel regno di crinoline e parrucche il tempo scorreva
tiranno, ricordando crudelmente agli inquilini che ogni ora passata non
sarebbe più tornata. Il loro giorno, il loro tempo era
vuoto. Inutile.
Mia
madre odiava gli orologi.
Avevo
sette anni quando ne vidi uno per la prima volta, un modello da
taschino. Il fondo era lavorato a motivi floreali e brillava di verde
come un mattino di primavera.
Lo
nascosi nella tasca della giacca. Ero troppo giovane per comprendere
appieno l’astio di mia madre per quelle macchine
così affascinanti, ma intuivo che il valore
dell’oggetto andasse oltre il vetro limpido e le scanalature
sulle lancette, e che fosse legato al fatto che prima di quel giorno
non avevo mai avuto modo di osservare nulla di simile.
Divenne
il mio segreto e ogni volta che desideravo conoscere l’ora mi
imponevo di guardarmi intorno tre volte. Prima a destra. Poi a
sinistra. Poi di nuovo a destra. Allora mi portavo una mano
all’orecchio e mi accertavo che non si udisse ticchettio di
passi provenire da nessuna parte e finalmente tiravo fuori il mio
tesoro dal gilet, con lentezza reverenziale, il mio sorriso sdentato
riflesso sul vetro del quadrante.
Ci
vollero tre anni prima che mia madre lo venisse a sapere.
Ne
erano passati altri dieci. Non avevo più rivisto il mio
orologio.
La
tasca del gilet che non tintinna più quando cammino mi ha
insegnato molte cose. Il valore del tempo, della prudenza, del saper
cogliere gli indizi più velati e rispondere ad essi con
blanda ostilità, senza mai scoprire del tutto le proprie
carte. Mi ha insegnato ad essere diffidente, docile, a non rifiutare un
piatto di rivoltanti lumache durante una cena in famiglia. A essere
guardingo, sospettoso e cauto di natura.
Per
questo non ho creduto subito alla tua storia. Eppure non sembravi sorpreso quando
te l’ho raccontato. Mi hai semplicemente regalato
uno dei tuoi adorabili ghigni, il
labbro inferiore appena nascosto da denti sorprendentemente bianchi per
il “selvaggio” più famoso della
Repubblica. Lo stesso ghigno della prima volta.
«Potete
toccarmi se volete, posso assicurarvi che non sono un
miraggio» dicesti quel giorno. Eri abituato a vedere sguardi
increduli come il mio, chissà quanti ti avevano riservato lo
stesso trattamento.
«Oh,
no, no: avete frainteso. Solo che non…».
Mi
fissavi. Occhi rossi come mele mature. Mele su un albero.
«Non?».
Deglutii.
«Non…».
Fu
la prima volta che rimasi senza parole davanti a te. La prima di una
lunga serie.
Eri
appollaiato sul ramo di un noce. Le gambe penzoloni e le mani
appoggiate al legno a palmo aperto, come fanno i bambini. Ero abituato
alla gente che mi squadrava dall’alto in basso, la mia
statura era tutt’altro che imponente, ma il tuo modo di
squadrarmi è sempre stato diverso. Ad Almeri i nobili ti
squadravano alla ricerca di particolari da disprezzare, tu lo facevi
perché eri curioso. Non guardavi fuori. Andavi dentro, fino
all’anima.
«Vi
chiedo scusa signore» borbottai alla fine «Non
intendevo mancarvi di rispetto».
«Oh,
tutt’altro» sorridesti ancora, portando i gomiti
sulle ginocchia «Siete uno dei pochi coraggiosi a non essere
corso via invocando Nostro Signore, signor…».
«Visconte
Yugi di Almeri» non potei nascondere un sorriso mentre mi
toglievo il cappello «Per servirvi».
Scuotesti
la testa, alzandoti finalmente in piedi. Oggi so che non lo hai fatto
per formalità. Era un gesto di rispetto nei confronti di Yugi,
non del Visconte di Almeri.
«Vi
è una sola cosa che l’uomo necessiti dalla vita,
signore, e non sono né servitori né
servigi».
«Signore?».
«Sembrate
giovane, Yugi, non meno di tre o quattro anni più me. Vi
auguro di riuscire a capire quale sia la vostra unica
necessità senza bisogno che io ve lo riveli. Quello che vale
per me potrebbe non dirsi vero anche per voi».
Ti
rimettesti a sedere e indicasti con la mano una graziosa rampa a pioli.
«Mi fareste dono di un frammento del vostro tempo?».
Sorrisi.
«Con
piacere».
Appollaiato
accanto a te sul noce imparai che eri scappato di casa dodici anni
prima e che alcune delle chiacchiere delle comari non erano del tutto
false, anzi, ancora una volta si rivelavano più vere delle
chiacchiere di salotto, adulterate da quell’atmosfera
d’incipriata ipocrisia che stavo disperatamente provando a
fuggire. E imparai, molto velocemente, quanto fosse grande la tua
maestria nel dirigere una conversazione.
Giocavi
a carte scoperte: niente sopracciglia aggrottate o sguardi pressanti.
Tu facevi domande, e non mi lasciavi occasione di fare altrettanto. “Come vi trovate
ad Almeri? Siete sempre vissuto lì? Quali scrittori
prediligete? Cosa vi ha portato ai piedi del mio noce?”.
Avevo
tante domande da farti, ma a cavalcioni su quel ramo avevo dimenticato
tutto e riuscivo solo a rispondere goffamente, istruendoti su me stesso
senza neanche rendermene conto. E poi, appena tornato alla locanda, mi
paralizzai di fronte alla porta, di noce come il tuo albero, e mi resi
conto che dopo un solo pomeriggio tu di me sapevi ormai ogni cosa e io
nulla, solo il tuo nome.
Così
il giorno dopo ritornai, deciso a scoprire di più sul tuo
conto. E il giorno seguente pure. E quello dopo ancora. Ma tu eri come
un enigma, un rompicapo fatto da migliaia di tasselli, e ne spargevi
una manciata di tanto in tanto, quando sarebbe sembrato ineducato non
concedermi un poco del tuo passato. Pezzi distanti fra loro, che non
riuscivo a far combaciare. Eppure non mi importava. C’era un
solo pezzo che disperavo di poter conoscere.
Erano
passati due mesi dal nostro primo incontro quando ho finalmente trovato
il coraggio di domandartelo con la tua stessa tecnica. A carte scoperte.
«Perché
vivi sugli alberi?».
Avevi
una gamba rannicchiata contro il petto, il mento pressato sul
ginocchio, l’altra dondolava molle dal grande gelso. Non
avrei mai raggiunto la tua abilità
nell’arrampicarmi su quegli alberi, ma almeno adesso non ero
più terrorizzato dall’idea di cadere
giù.
«Gli
alberi non parlano» rispondesti, e per un momento ho creduto
che non avresti aggiunto altro. Ma ancora una volta mi hai sorpreso.
«E gli alberi non giudicano».
Neanche
tu parlavi molto, più che altro ascoltavi. Non sapevi ancora
se sarei stato come gli alberi e non ti avrei giudicato e mentre
tastavi il terreno con le tue domande mi mettevi inconsciamente alla
prova. Era passato quasi un anno da quando ci eravamo incontrati e io
mi ero trasferito vicino a Ombrosa, nella tenuta di caccia del
bisnonno. Per l’aria più pura, dissi a mia madre.
Lei ci credette. Tu no. Ma non lo dicesti. E poi scoppiò
l’incendio.
Il
bosco era assediato dalle fiamme: si scagliavano contro la tua casa,
contro le case degli abitanti del paese, abbracciavano gli alberi e li
scorticavano e il crepitio del fuoco era come il suono di un esercito
di dragoni che calpestava tutte le foglie secche di un’enorme
foresta. Accartocciati su se stessi, gli alberi chiedevano
pietà.
Urlai
il tuo nome appena vidi il fumo alzarsi dal centro del bosco. Corsi
fino al noce, urlavo ancora. Ma tu non c’eri. Il panico si
fece strada nelle mie vene e continuai a chiamarti ancora e ancora
mentre il fumo mi artigliava la gola e colorava di nero il bianco della
mia camicia. Il calore asciugava le lacrime dentro ai miei occhi prima
ancora che potessero cadere.
Non
c’eri, non c’eri: ovunque mi girassi vedevo solo
fumo e più mi addentravo nel bosco più il rumore
delle fiamme copriva il suono della mia voce. Non saresti mai riuscito
a sentirmi. Gli abitanti di Ombrosa erano lì, armati di
secchi e stuoie per provare a circoscrivere l’incendio e tu
non eri lì ad aiutarli.
Salire
sui rami era quasi impossibile con tutto quel fumo, ma dovevo trovarti
prima che fosse troppo tardi. Saltai da un albero all’altro,
rischiando più volte di cadere giù mentre il
legno fremeva sotto i miei piedi e le scintille facevano scoppiettare
la corteccia di mille scaglie dorate. Mi allontanai sempre di
più dal folto del bosco, dal nucleo dell’incendio,
mentre la speranza cominciava ad abbandonarmi: perché
avresti dovuto allontanarti così tanto? Perché
non eri rimasto ad aiutare i paesani? Non avevi bisogno di allontanarti
così per metterti in salvo, l’incendio non era
così esteso. Ma mi rifiutai di pensare che fosse illogico.
Tu stavi bene, dovevi stare
bene, e io ti avrei trovato.
Le
sillabe del tuo nome mi graffiavano la gola, stanca per il troppo
gridare, continuai a cercarti finché non calò il
sole e poi per tutta la notte. Finché, ormai lontano da
qualunque angolo del bosco avessi mai visitato, eccoti lì,
sul fare del giorno, miracolosamente incolume e rannicchiato sui rami
di una quercia come se stessi dormendo, le braccia avvinte intorno alle
ginocchia e la testa nascosta fra le gambe.
Mi
paralizzai ai piedi dell’albero mentre la paura di averti
perso per sempre fluiva finalmente via, placida, lasciandomi in uno
stato di sollievo così simile all’apatia
più completa. Eri vivo.
«Yami…»
mormorai. E da come alzasti all’improvviso la testa capii che
non stavi dormendo: avevi la camicia tinta di nero come me, lo sguardo
circondato da occhiaie. Non avevi chiuso occhio tutta la notte.
Sapevo
che se eri fuggito da qualcosa questa era il fuoco: non temevi gli
alberi, nemmeno quando erano artigliati dalle fiamme, ed eri stato in
grado di arrivare rapidamente fino a lì e metterti in salvo.
Da quegli alberi non saresti mai caduto, ma io avevo paura
di loro, di questo tuo stile di vita. L’incendio mi
aprì gli occhi: non avevo idea di cosa avrei fatto se ti
fosse successo qualcosa.
Così,
in giorni più tranquilli, provai a farti cambiare.
«Quante
volte sei sceso da quando vivi qui?».
«Non
sono mai sceso».
«Andiamo,
almeno una volta-»
«Non
sono mai sceso,
Yugi». Lo affermavi con una sorta di strano orgoglio,
disprezzo per quello che eri stato in passato forse.
«Non
ti chiedo di tornare a vivere giù, ma una volta…
insomma, non puoi pensare di passare il resto della tua vita su un
albero».
«Perché?»
sorridesti. L’ennesima sfida che avrei perso. Ti lanciai le
prime scuse che riuscii a trovare: di colpo tutta la mia retorica era
come svanita.
«Perché…
beh, perché è pericoloso, e scomodo
e…».
Ridesti
piano.
«Perché
vuoi che io scenda?».
«…
perché…».
E
in quel momento credo che capii. Capii mentre sentivo il cuore che mi
saettava in gola, le vene che pulsavano intorno al collo e il respiro
pesante, le dita delle mani che formicolavano. Capii mentre socchiudevo
gli occhi e mi sembrò di vedere il tuo viso avvicinarsi al
mio e il calore del tuo corpo sulla mia pelle. O forse era solo la mia
immaginazione. Ma capii, quando mi carezzasti la guancia con la mano,
che ci sono cose che il mondo di terra non è pronto ad
accettare, e forse non lo sarà mai, e che gli alberi
offrivano un rifugio sicuro. Un rifugio che avevo cercato anche io, per
anni, perché gli alberi non parlavano. E gli alberi non
giudicavano.
«Perché
mi manchi…» mormorai affondando il viso nella tua
mano ruvida.
«Vieni
a vivere qui… con me».
Ci
avevo pensato, tante volte. Mi ero sempre chiesto come fosse possibile
vivere come te, se in caso ne avessi avuto la possibilità ne
sarei stato in grado anche io. Non ero il figlio maggiore: volevo
davvero passare il resto della mia vita a giocare a carte sotto le luci
dei lampadari mentre le donne ridacchiavano del vestito della baronessa
di turno? Avrei potuto dirti di sì. Non mi avresti mai
cacciato, non avresti mai riso sotto i baffi del mio gilet e non
avresti mai rubato i miei orologi perché non c’era
bisogno che odiassimo il tempo: ogni secondo passato con te valeva come
un’intera giornata a casa. Non buttavo mai il tempo su quegli
alberi. Ma ero orgoglioso anche io e non volevo cedere senza lottare:
perché avrei dovuto rinunciare alla mia vita senza che tu
rinunciassi a niente?
«Solo
una volta, scendi, potresti venire con me al castello,
magari…» magari avresti deciso di restare.
Ritirasti
lentamente la mano dal mio viso, il volto nascosto come da
un’ombra.
«Conosco
i castelli, Yugi».
«Sì,
ma-».
«Non
importa, è piuttosto tardi, credo faresti meglio a tornare a
casa» dicesti alzandoti in piedi.
«D’accordo…»
mormorai «Ti rivedrò domani?».
Non
mi stavi ascoltando, avevi lo sguardo perso lontano, oltre Ombrosa.
«Dov’è
la tua tenuta?».
«Il
castello? A un paio di miglia dal paese, sul lago».
Annuisti.
«Allora…».
«Sì,
ci vediamo domani» sorridesti «Non
preoccuparti».
Avevo
appena spento la candela, ma non stavo andando a letto: volevo godermi
un altro po’ le stelle, finché il cielo era ancora
limpido d’estate. Mi sentivo insolitamente malinconico dopo
la nostra conversazione e non sapevo se incolpare te o me per la mia
debolezza. Ero deluso, sconfitto: tu non avresti ceduto e a me non
piaceva perdere. Ma quando poggiai la mano sul vetro della finestra
vidi il bianco della tua camicia illuminato dalla luna e tu arrampicato
come un gatto sul grande salice di fronte alla mia camera. Non ho idea
di come fossi stato in grado di trovare la mia casa o la mia stanza, il
castello contava decine di camere, eppure eri lì.
Semplicemente lì. E di colpo non mi importava più
delle stelle.
«Che
stai facendo?» sussurrai aprendo gli infissi.
«Cerco
di non cadere» ammiccasti «Non sono mai stato qui
prima d’ora…» non conoscevi quegli
alberi.
«Sarebbe
tutto più facile se non ti ostinassi a vivere in questo
modo, non trovi?» ti sgridai faticando a nascondere un
sorriso. Tu alzasti le spalle sistemandoti finalmente su un ramo
sufficientemente ampio.
«Forse…»
mormorasti.
Guardavi
le stelle e io guardavo te. Affacciato sul mio balcone aspettavo la tua
mossa. Finalmente abbandonasti il cielo e, a capo chino, mi facesti
segno di venire a sedermi accanto a te. Mi mossi sui rami del salice
con maestria e mi sentii fiero: ero cresciuto in quella casa, conoscevo
quell’albero meglio di chiunque altro. Una volta tanto potevo
batterti in qualcosa.
«Scusami»
sussurrasti «Sono stato scortese questo pomeriggio».
«È
tutto a posto» anche se non lo era perché se la
malinconia si era quietata, l’orgoglio non aveva fatto
altrettanto.
«Non
chiedermi di scegliere» mormorasti «Non chiedermi
di scegliere fra te e l’essere libero».
«È
questo che rappresenta per te? Essere libero?».
«Gli
alberi non parlano, ricordi?».
«E
non giudicano» ricordai io con un sorriso. «Neanche
io ti giudico» dissi stringendo la tua mano nella mia.
«Lo
so».
Avrei
voluto chiederti che cosa ti aveva reso così, di quale
giudizio avessi paura, in che modo potevo rimediare e renderti libero
senza che tu continuassi a vivere a dieci metri da terra. Ma col tempo
capii che il vivere il quel modo era la tua favola: non avresti
rinunciato a sentirti speciale, diverso da tutti gli altri, libero di
non essere giudicato perché non esistono parametri per
giudicare una persona che faccia qualcosa per la prima volta. Era
questo che volevi, era il tuo pezzetto di gloria e con
l’amaro orgoglio che provavo per le tue ambizioni, mi resi
conto che essa veniva prima di ogni altra cosa, prima anche di me.
Uno
di noi avrebbe dovuto cedere alla fine e, quando sarebbe successo, non
avrei potuto fare come te e implorarti di non pretendere che io
prendessi una decisione.
Quella
notte di primavera, due anni dopo, ti baciavo piano. Il salice era
diventato il nostro luogo preferito. Dicevi di amare gli alberi della
villa e io ero fiero che preferissi quello a tutti gli altri: il salice
era come un pezzo di me, era casa. Per entrambi. Ti baciai ancora, con
sempre meno delicatezza, e le tue labbra erano calde come le tue mani
sul mio collo, scendevano lentamente sulle spalle, sulla schiena,
dentro la giacca. Faceva freddo sui rami, ma c’erano la luna
e le stelle, e c’eri tu. Non avrei scambiato il legno del
tronco con quello del mio letto per nulla al mondo.
«Quando
partirai?» mi chiedesti scostando appena le tue labbra dalle
mie. Le catturai di nuovo prima di rispondere.
«Domenica.
Si tratta di Genova, è un bel viaggio».
Annuisti
piano, un sorriso amaro alla menzione dell’aggettivo
“bello”. Fui io ad allontanarmi da te questa volta,
ti scostai dagli occhi una ciocca di capelli biondi. «Non
posso dire di no».
«Lo
so…» sorridesti rassicurante «Non
preoccuparti. Sono sicuro che sarai felice». Ma non lo
credevi, e non lo credevo nemmeno io. Non lo credeva nemmeno lei
suppongo. Forse mia madre. Probabilmente lei lo credeva.
«Verrai
al matrimonio?».
«Eh...»
ridacchiasti.
«Allora?».
«È
un bel viaggio».
Rimasi
in silenzio.
Finalmente
sorridesti di nuovo, più sincero di prima.
«D’accordo»
annuisti.
«Vieni
a vivere da noi» ti implorai
«C’è un giardino immenso intorno alla
villa, nessuno se ne accorgerà mai».
«La
vita di città non fa per me…» ti
rannicchiasti contro il tronco dell’albero e io contro il tuo
petto e mentre le tue braccia si stringevano intorno alla mie spalle
mandai giù la consapevolezza di aver fatto il mio ultimo
tentativo.
«Verrai
a trovarmi ogni tanto?» mormorasti.
«E
tu verrai a trovare me?».
Annuisti
baciandomi la tempia. «Solo se ci sono dei salici nel tuo
giardino».
Non
c’erano salici nella nuova casa e quando un mese dopo ci
salutammo di nuovo, fu su un albero di castagne. Era un albero
inospitale: in pochi mesi si sarebbe riempito di ricci spinosi.
Indossavi una giacca più pesante del solito, diversa da
quella che avevi indossato al mio matrimonio, dove ero riuscito a
intravedere i tuoi occhi rossi sbirciarmi dall’abside
dell’abbazia. Sorridevi. Non saresti tornato a Ombrosa, non
c’era più nulla a legarti a quel luogo e lo stesso
valeva per me. Volevi andare in Lombardia e poi visitare la Francia
repubblicana e il regno di Prussia, magari perfino la Russia o la
Grecia. Eri stato fin troppo tempo immobile sui rami del tuo paesino,
volevi posti nuovi, imparare nuove cose.
«È
un dovere morale, Yugi».
«E
da quando obbedisci a quello che ti detta la morale?».
«Da
sempre se si tratta della mia».
Risi
piano, sistemandoti il colletto della giacca come aveva fatto mia
moglie quella mattina.
«Ti
invierò delle lettere» promettesti: sapevi che non
avrei potuto fare altrettanto senza sapere dove fossi. Diversamente da
te, io ero stabile. Io ero la radice, il tronco, tu le foglie, i rami
della cima… Nessuno sarebbe mai stato in grado di
trattenerti e io non sapevo neppure da cosa stessi scappando.
«Bene»
mormorai sfiorandoti le labbra «Fa’ buon
viaggio».
Le
ho ancora, legate da un nastro sottile di canapa, tutte le tue lettere.
Chiuse a chiave nel terzo cassetto del mio scrittoio. Ho perfino la
ceralacca: ho conservato tutti i frammenti, rossi come i tuoi occhi.
Non
hai mai perso quella tua abitudine di rivelare poco di te stesso e di
sommergermi di domande, perciò immagino che non sia stato
facile per te scrivere, dover trovare così tanto da
dire… Mi raccontavi del viaggio, delle persone che avevi
incontrato, delle città e dei tetti così diversi
da quelli di qui. Delle lingue che avevi imparato… E io non
potevo risponderti. Neanche per dirti che volevo che tu tornassi, che
avevo cominciato a odiare il castagneto della villa e che avevo
piantato un salice di fronte alla mia stanza, una settimana dopo la tua
partenza.
Era
un albero piccolo, vecchio di appena un paio d’anni. Ti avrei
voluto insieme a me per vederlo crescere, ma allo stesso tempo volevo
che restasse il mio segreto: era qualcosa da mostrarti, qualcosa che
anche dopo i tuoi anni di peregrinazioni e studi non conoscevi. Volevo
insegnarti qualcosa.
Ero
immerso tra i ricci di un castagno e i rami del salice sfioravano ormai
il mio balcone quando tornasti.
C’era
l’inverno nei tuoi capelli: il bianco si intesseva timido al
marrone e al biondo, quasi impercettibile, e i tuoi occhi erano
appesantiti da occhiaie. Da quanto tempo non ti fermavi?
«Per
servirti» mormorasti con un sorriso.
«Non
necessito né di servitori né di servigi,
signore» ti feci eco io, più calmo di quanto mi
sarei mai aspettato di essere.
«E
di cosa necessitate, mio signore?».
Sorrisi.
«Di
qualcosa che tu non vuoi darmi…».
Vidi
le tue spalle afflosciarsi impercettibilmente, tutta la tua postura
cambiare aspetto e perdere per un istante la sua regalità,
ma non ne attribuii la colpa agli anni passati.
Ti
sedesti accanto a me sul castagno, l’albero era inospitale ma
provvidenzialmente spazioso e tu avevi abbastanza dimestichezza con i
ricci per evitare che le spine intralciassero i tuoi movimenti.
«Sono
tornato…» sussurrasti come un bambino: convinto di
aver fatto la cosa giusta e invece sgridato dalla madre
perché non era ancora abbastanza, non era quello che lei
aveva in mente.
«Lo
vedo» risposi.
«Yugi,
non puoi capire-».
«Allora
spiegamelo. Permettimi di capire».
«Non
chiedermi anche tu di giustificarmi. Sono tornato, voglio ascoltare di
te, sapere come stai, cosa hai fatto in tutti questi
anni…».
«Ho
pensato, Yami, e ho pensato a te più di ogni altra
cosa». Era il mio tono tranquillo che ti spaventava, te lo
leggevo negli occhi. «Non ti fidi di me?».
Tacesti.
Ero preparato a entrambe le risposte ormai, avevo avuto tempo per
pianificare la mia reazione. Forse non era onesto da parte mia, ma del
resto neanche tu hai mai giocato pulito.
«Sì…
mi fido di te. Mi fido... di te solamente».
«E
non credi che io potrei renderti felice? O pensi di cercare la tua
felicità altrove?».
«Tu
mi rendi già felice».
Sorrisi
scuotendo appena la testa.
«Ma
io no, vero?».
«Non
del tutto» confessai.
«E
se ti dicessi che sono tornato per restare?».
«Mi
hai detto che non avresti rinunciato alla tua
libertà».
«Infatti».
Era
un patto, un compromesso. Non eri tornato per scendere a terra, eppure
la lontananza ti aveva in qualche modo cambiato e adesso mi dicevi di
avere bisogno di me. Avevo paura, perché non eri fatto per
restare sempre nello stesso posto e presto o tardi avresti potuto
stancarti del castagneto e di me e lasciarmi di nuovo. Era solo la tua
natura. Nessuno poteva tenerti in gabbia, ma io ero egoista: avrei
provato un’ultima volta e la nostalgia mi fece ingoiare
risentimento e orgoglio. Non importava per quanto: volevo riaverti
vicino, aiutarti...
«Il
salice non è ancora pronto però»
ammiccai indicando l’albero di fronte alla mia stanza.
Ridesti, sporgendoti in avanti per osservare meglio.
«Ne
hai piantato uno-».
«Esattamente
dove si trovava quello di Ombrosa. Sì» annuii
«Ma dovrai restare sui castagni finché non
sarà grande abbastanza da sostenerti». Se fossi restato
abbastanza a lungo per vederlo crescere.
I
tuoi occhi brillavano come quelli di un bambino e insieme credemmo che
questa volta sarebbe stato diverso. Eravamo cresciuti entrambi, avevamo
vissuto le nostre avventure, adesso era il momento di piantare le
radici.
«Quindi
posso restare?» mormorasti quasi incredulo, scostandomi una
ciocca di capelli dal viso. Sfiorai le tue labbra con le mie. Sorridevi.
«Finché
lo vorrai» dissi ritraendomi appena, prima che fossi tu a
baciarmi, con una passione che neanche il passare degli anni era
riuscita ad offuscare.
Gli
anni nel castagneto sono quelli che ricordo più volentieri.
Lo
svegliarmi ogni mattina e correre in giardino per giocare a trovarti.
Il fingermi malato per non lasciare la villa durante la settimana di
Natale e poter rimanere da solo con te. Quella volta che ti convinsi a
sederti sulle mie ginocchia sull’altalena. Non era
esattamente toccare terra: era come se tu fossi ancora
sull’albero e lì per lì la mia logica
sembrò convincerti. Ma quando cominciai a dondolarmi avanti
e indietro i tuoi occhi furono attraversati da un lampo di terrore. Ti
aggrappasti alle corde come un cavaliere inesperto alle redini del
cavallo e mentre io tentavo di frenare le risate cominciasti a urlarmi
di fermarmi e di farti scendere prima che cadessi: sembravi un gatto
spaurito, eri così arrabbiato... Non mi hai rivolto la
parola per tutto il giorno mentre io provavo ancora a non ridacchiare.
Oppure
la volta che ci hai seguito a La Spezia senza che me ne accorgessi, e
fui io ad arrabbiarmi e urlare quella volta: avremmo potuto farci
scoprire e causare uno scandalo, eppure sembrava esattamente quello il
tuo piano. Sarebbe stata la scusa perfetta perché io
abbandonassi tutto e tornassi con te a Ombrosa, scherzasti. Non so
quanto tu fossi serio in quel frangente: da una parte ne ero
orgoglioso, perché lo avresti fatto per me, di me ti
importava, ma dall’altra mi facevi paura. Fino a che punto
eri disposto ad arrivare pur di continuare a scappare?
Non
mi sono mai sentito forzato da te, non mi hai mai costretto a fare
nulla che io non volessi: amavi la libertà, sarebbe stato
ipocrita da parte tua limitare quella delle persone che amavi. Ma lo
stesso concetto non valeva quando si trattava di venire a conti con te
stesso: allora, ti facevi lunghi e severissimi esami di coscienza alla
fine dei quali ti trovavi puntualmente colpevole di qualche mancanza
che non riuscivo a capire e mentre tu ti chiudevi in te stesso,
spaventato dal mondo e da quello che si nascondeva nei tuoi ricordi, io
ricominciai a ricostruire con cautela il puzzle del tuo passato.
Gli
alberi non parlano e gli alberi non giudicano, dicevi. Gli alberi non
potevano ricordarti chi eri stato e che cosa avevi fatto e soprattutto
non potevano perseguitarti per le tue azioni. E io mi resi conto che
era come se ci fossero due te: uno che viveva nell’ignoranza
e negazione di tutto ciò che era successo, e un altro
perseguitato dal passato, la parte di te che fuggiva, la parte
impulsiva, che non era mai cresciuta. Gli alberi erano più
di una casa: erano lo stile di vita che ti permetteva di sentirti
diverso, una persona diversa
dal bambino che era scappato via di casa a dodici anni.
Io ti
facevo sentire diverso. Con me potevi dimenticare, negare tutto. Per
questo le mie domande ti hanno urtato così tanto.
«Dove
sei stato prima di Ombrosa?» ti chiesi una sera con
semplicità. Le tue difese si serrarono intorno a te con tale
velocità che avrei quasi potuto sentirne il suono.
«Perché?».
Mi
strinsi nelle spalle.
«Così…».
«Non
è niente di interessante» mormorasti, ma il tuo
tono era ostile.
«Vorrei
solo sapere dove sei nato».
«Che
importanza ha?».
«Non
parlarmi in quel modo. Ti ho solo fatto una domanda».
«E
io non voglio rispondere».
«D’accordo…»
mormorai «Come vuoi tu».
Non
avevo molti indizi sul tuo conto. Sei sempre stato parco di
informazioni e io non sapevo da che parte cominciare a cercare: non
avevo una casata, un titolo, un cognome, una
città… solo alcuni tuoi comportamenti insoliti,
come il giorno dell’incendio… Qualcosa mi diceva
che non eri nato all’interno della Repubblica, ma che essa
aveva rappresentato per te quello che rappresentava per molti altri:
una nuova possibilità, libertà. Eri in fuga ma io
non riuscii ad aiutarti perché non accettasti mai di
confidarti con me. Ti fidavi, ma faceva ancora troppo male.
«Avevi
solo dodici anni, qualunque cosa fosse non è stata colpa
tua» ti dissi.
«Pff…».
«Che
c’è?».
«Non
hai idea di cosa stai parlando, perciò non dare
giudizi».
«Non
sto dando giudizi, è che voglio sapere cosa è
successo, se stai bene-».
«Sto
benissimo! Non è successo niente, non
c’è niente che tu debba sapere».
«Andiamo,
parli come se avessi ucciso qualcuno-».
«Smettila!»
scattasti in piedi «Non è vero, non è
vero niente! Tu non hai idea di quello che è successo, non
sai niente!».
«Yami…».
«Non
è successo niente…» ripetesti a bassa
voce, lo sguardo perso in qualche immagine che solo tu riuscivi a
vedere.
«Che
cos’hai fatto, Yami?».
«Niente»
negasti di nuovo, la voce che tremava.
«Voglio
solo aiutarti. Sono passati anni, a me puoi
raccontarlo…».
«Non
ho fatto niente» ripetesti «Non sono riuscito a
fare niente…».
«Quando?
Che cosa non sei riuscito a fare?». Ma tu non aggiungesti
altro. Eri impietrito e al contempo riuscivo a vederti tremare. Dentro
di te stavi affrontando di nuovo una battaglia: se perdonarti o
condannarti di nuovo, se confidarti o fuggire ancora.
Istintivamente
ti cinsi le braccia al collo, stringendoti a me per rassicurarti,
sapevo che non avresti pianto o non mi avresti rivelato nulla di
più, ma dovevi sapere che io ero lì, che ci sarei
sempre stato e che ti avrei accettato a prescindere da qualunque cosa.
Te
lo ripetei quasi ogni giorno, ogni volta che ti vedevo fissare nel
vuoto, che rimanevi in silenzio mentre parlavamo… Ti sentivo
scivolare via dalle mie dita, ti stavi allontanando di nuovo ed era
colpa mia: non avrei mai dovuto chiederti niente.
«Dimentica
quella conversazione. A me non importa, d’accordo? Il passato
è passato, adesso ci siamo noi due, non voglio sapere quello
che è successo, sei una persona diversa adesso».
Sorridesti
appena, malinconico.
«No,
non lo sono».
«Certo
che lo sei».
«Se
lo fossi sarei tornato… a Compiano…».
Volevo
sapere di più, ma sapevo di stare camminando su di un filo:
non potevo rischiare di farti altre domande.
«È
questa casa tua adesso».
«Io
non merito una casa. Non sono in grado di avere cura delle cose che
amo» mi prendesti il volto fra le mani, sentivo i
polpastrelli delle tue dita tremare. «Finirei per mettere in
pericolo anche te…» sussurrasti appena, parlavi da
solo, eri arrivato a una soluzione. Sovrapposi le mie mani alle tue,
cercando conferma nel tuo sguardo, ma tu eri distante.
«No…» mormorai scuotendo la testa «Sono al sicuro. Tu sei al sicuro. Qui. Con me. Non ci accadrà niente di male. Fidati di me».
Mi
sfiorasti la fronte con le labbra.
«Mi
fido di te» confermasti «Lo sai».
Allora
era di te stesso che non ti fidavi, perché il giorno dopo mi
sei rimasto vicino tutto il tempo, attaccato e possessivo come non lo
eri mai stato. E quello dopo ancora sei sparito.
Era
stato un addio, il tuo modo per consumare quelli che avevi deciso
fossero i nostri ultimi momenti insieme. Non so se avessi
più paura di quello che era successo o di quello che poteva
succedere, non sapevo neanche dove fossi andato. Sapevo solo che non
era Ombrosa perché ti ho cercato dappertutto nei pressi del
villaggio, e non era neanche la Repubblica, neanche Compiano.
Compiano.
Avevi detto che Compiano era stata la tua casa. Non sapevo molto di
quella città ma da quando te ne andasti cominciai a fare
ricerche e venni a conoscenza di un incendio che nel 1767 aveva
devastato la villa di un ramo della casata dei Landi, causando la morte
dei signori baroni e del loro unico erede, allora dodicenne, con la
conseguente scomparsa della famiglia. Esattamente dodici anni prima che
ci incontrassimo.
Ma
tu non eri morto quel giorno: eri fuggito da quel palazzo in fiamme e
ti eri rifugiato nella nostra Repubblica, abbandonando titolo e diritti.
Non
riuscivo a spiegarmi perché non fossi rimasto a Compiano per
reclamare ciò che ti spettava dopo la morte di tuo padre,
furono le chiacchiere che scambiai con alcuni abitanti della
città durante un viaggio nell’ex Ducato a fornirmi
gli ultimi indizi.
In
molti si ricordavano ancora del giovane Landi. Era sempre fuori casa,
dicevano, a giocare nel bosco. Non c’era precettore che
riuscisse a reclamare la sua attenzione per più di mezzora.
Ancora più celebri della sua insofferenza alla disciplina
c’erano i suoi continui alterchi col padre. A quanto pare i
due erano soliti avere frequenti discussioni riguardo al comportamento
del ragazzo al punto che, ormai esasperato, il barone Landi aveva
deciso di mandare il figlio a Parma al concludersi
dell’estate 1767, perché si applicasse seriamente
negli studi e imparasse il valore della responsabilità in
quanto erede della famiglia.
Il
cugino del ragazzo, un uomo imponente dai freddissimi occhi azzurri,
era stato l’ultima persona ad averlo visto prima
dell’incendio.
Seppur
sospettoso nei miei confronti, in fondo erano passati più di
trent’anni da quella notte, ha accettato di raccontarmi
quello che sapeva di quel 15 giugno. Era lì in casa la notte
che scoppiò l’incendio, la stessa notte in cui il
barone comunicò al figlio il suo intento di allontanarlo dal
paese. In quell’occasione scoppiò una lite
più accesa del solito, al punto che lo zio chiese al nipote
di lasciarli soli. L’ultima cosa che questi sentì
nel chiudere la porta alle sue spalle fu il rumore di vetri, come di
una lampada ad olio che si fracassa contro il pavimento. Era ormai
uscito dalla tenuta quando le prime fiamme cominciarono ad alzarsi: non
poté tornare indietro o aiutare nessuno dei suoi parenti a
fuggire. Alimentato dal legno degli infissi e dei mobili, il fuoco si
fece rapidamente strada per la villa, divorando stanza dopo stanza il
primo e il secondo piano per poi aggredire il giardino mentre
l’edificio gemeva su se stesso.
La
città aveva pareri discordanti su ciò che era
successo quel 15 giugno 1767. La maggior parte degli abitanti
confermava che l’intera famiglia fosse stata sterminata
dall’incendio, ma il barone Landi mormorò, quasi
fra sé e sé, che diversamente dagli zii il corpo
di suo cugino non era mai stato ritrovato. Alla mia domanda rispose
scuotendo bruscamente il capo: non nutriva alcuna speranza che il
ragazzo fosse sopravvissuto. Le ustioni o i lupi probabilmente avevano
finito per ucciderlo: in fondo non era mai tornato a Compiano. Eppure
ebbi l’impressione che stesse mentendo, che, occultata in
qualche parte del suo cuore, nascondesse ancora la speranza che tu
fossi vivo.
Mi
dispiaceva quasi saperne di più di un tuo parente, ma per
rispetto al tuo ricordo non dissi nulla e liquidai il suo sguardo
scettico con le bugie cortigiane che avevo imparato a tessere abilmente
ad Almeri.
Eri
stato tu a lanciare quel lume? Una lampada ad olio accesa.
L’avevi urtata per sbaglio? L’aveva lanciata tuo
padre? Avresti voluto salvarlo se avessi potuto? E gli altri?
Sapevi
che non ti avrei giudicato, io volevo solo aiutarti, essere per te
quello che eri per me, ma tu non eri ancora riuscito a perdonarti.
Immagino il tuo senso di colpa distorcere i tuoi ricordi anno dopo
anno, come rame tra le mani di un fabbro, ingigantire i tuoi errori, i
tuoi difetti, le tue mancanze, al punto che sono pronto a giurare di
saperne più di te adesso su quella notte. Ma non conosco la
tua versione dei fatti, né la conoscerò mai.
Questa volta, non mi hai lasciato neppure una lettera.